DI QUESTO, GLI UOMINI NON DOVRANNO SAPERE

2 novembre 1954.

Sul margine fangoso di un affluente del Gregório, là dove la vegetazione stramazzava nel fiume in una sorta di tragica resa, lo vidi di nuovo, dopo quasi due anni.

Quell’uomo non era più Harold Blackthorne.

Se ne stava seduto su un tronco marcio: la pelle cotta e afflosciata, i capelli, nivei e opachi, intrecciati in un groviglio unico con la barba, lo sguardo affondato in un punto che pareva situarsi ben oltre la realtà.

Teneva un’asta di bambù tra le mani, ma non pescava. Mormorava parole che il vento e il ronzio degli insetti mi restituivano a brandelli: “…torna sempre… ritorna… nessun inizio, nessuna fine…”

Gli Yawanawá lo osservavano da una distan­za che era più rispetto che timore. Tupiri mi toccò il braccio e, con un cenno del capo, indicò Kanuiri, in piedi poco più in là, immobile come un ceibo.

Il capo pronunciò una frase lenta, gutturale; Tupiri la tradusse: «Ha bevuto l’acqua che gira su se stessa.»

Il primo impulso fu di corrergli incontro, scuoterlo, domandargli di quei due lunghi anni di silenzio. Ma la foresta, come un tempio vivente, sembrava imporre una deferenza sacra.

Lo raggiunsi quindi con passo felpato, da predatore, e m’inginocchiai accanto a lui, pronun­ciando il suo nome.

Gli occhi, velati, cercarono qualcosa sul mio viso. Poi, con voce secca, come impastata dal frut­to farinoso di jatobá, sussurrò: «Edward… l’ho trovato. Ma non finisce. Non finisce mai.»

Quella frase riaprì in me, come un libro dalle pagine gonfie d’umidità, il ricordo del mio viaggio lungo il grande fiume e delle ragioni che m’aveva­no condotto fin là.

***

Era il 7 giugno 1954 quando lasciai Manaus, imbarcandomi su un battello mercantile diretto a sud-ovest.

La notizia della scomparsa di Harold mi era giunta con notevole ritardo, tramite una lettera ufficiale della Royal Geographical Society, intrisa di una retorica che non riusciva a mascherare l’ansia.

Blackthorne stava mappando un tratto poco conosciuto dell’alto Juruá, alla ricerca di un anomalo affluente menzionato da alcune guide locali: un fiume leggendario, a suo dire.

Impresa tanto costosa quanto poco redditizia, ma per un idrologo del suo calibro il fascino del mistero doveva risultare certo irresistibile, nonostante l’alto rischio di un esito fallimentare.

In qualità di botanico, anch’io ero stato invitato a unirmi alla spedizione fin dall’inizio, ma un incarico presso Kew Gardens mi aveva trattenuto.

Quando seppi della sua sparizione, decisi di partire, più per amicizia che per curiosità scientifica.

A Manaus m’ero messo in contatto con un mercante di caucciù che conosceva la zona: era stato lui a presentarmi a Tupiri, un giovane cacciatore matsés, alto e nervoso, che parlava un portoghese rudimentale e conosceva sentieri invisibili agli stranieri. Aveva accettato di accompagnarmi, a patto di “rispettare i silenzi nelle ore in cui la foresta ascoltava” – un concetto che all’epoca m’era parso poetico, ma che avrei presto imparato a prendere alla lettera.

Il viaggio iniziale fu lento. 

Risalimmo il Rio Solimões su una sbilenca piroga a motore, poi continuammo su canoe a pagaia sino alla foce del Juruá. La corrente, carica di limo bruno, opponeva resistenza, e intorno a noi la foresta riversava la sua opulenza in ogni anfratto: bromelie rigonfie d’acqua, liane pendule, orchidee scarlatte che sembravano gocce di fiamma fluttuanti fra le ombre.

I miei sobbalzi ai gorgheggi delle scimmie urlatrici parevano divertire la guida, mentre sopra le nostre teste schioccava il battito secco di ali degli ara gialloblu, che spiccavano voli acrobatici come piccoli circensi in tute piumate. 

Annotavo tutto sul mio taccuino, con una disciplina che era al contempo mestiere e conforto.

A ogni villaggio visitato chiedevo notizie di un inglese nerboruto, dai capelli chiari, che prendeva appunti sulle acque. Tutti rispondevano scuotendo il capo finché, in un insediamento jama­madi, un anziano disse di aver visto “l’uomo delle mappe” partire verso ovest con due guide, mesi addietro, per seguire “il fiume che si rincorre”.

Dapprincipio, quell’appellativo non destò in me alcuna perplessità: gli indigeni amavano chia­mare le cose con nomi bizzarri.

La svolta avvenne a metà settembre, quando un gruppo di pescatori yawanawá ci accolse presso un’ansa ampia come un lago.

Lì incontrai Kanuiri.

Sedeva immobile, come una radice che da secoli spingesse il suo cuore nel fango della riva. Il volto, annerito dal succo del genipapo, era inciso da linee nere che scendevano dure e spigolose su­gli zigomi, come raggi d’inchiostro. Sul fondo scu­ro bruciavano le fiamme sbiadite del rosso – il seme d’urucum, sfregato con lentezza rituale sulle guance e sul petto: ossequio a un sangue antico, offerto alle entità della terra.

Sopra la fronte si apriva un ventaglio di piu­me blu, che tremavano lievi nell’aria umida, e in quell’agitarsi c’era un senso di fragilità e di minac­cia, come se il cielo respirasse su di lui.

Il torace nudo era percorso da segni inaffer­rabili dalla logica: geometrie sottili che evocavano invisibili storie di cacce, sogni di animali, patti con spiriti del fiume.

Al collo portava semi duri, levigati dal tem­po, che urtandosi l’un l’altro producevano suoni di ossa spezzate. Alle braccia e alle caviglie aderivano fibre intrecciate, tinte di colori spenti, e nella mano stringeva una crepitante maraca di zuc­ca.

In tutto ciò non v’era ostentazione, ma una gravità cupa, come se ogni piuma, ogni segno, fos­se un debito pagato alla foresta. Non un uomo ve­stito per comandare, ma un corpo consacrato a sopportare il peso di ciò che non si vede.

«Il vostro amico è nostro ospite,» disse lenta­mente, tramite Tupiri, «ma il suo spirito scorre nell’acqua che torna a se stessa. Non lo riconosce­rete.»

Non potevo immaginare quanto vere si sa­rebbero rivelate quelle parole.

Fu così che Kanuiri accettò di condurmi al villaggio – il loro dominio più remoto, a sette gior­ni di piroga – ma a condizione che ascoltassi la storia del fiume che nessuno straniero aveva mai navigato senza smarrirsi.

E quella storia, unita al percorso che ci atten­deva, sarebbe stata il prologo a una scoperta che avrebbe incrinato per sempre la mia idea di geo­grafia.

Partimmo dalla grande ansa del Juruá, nell’alba del 20 settembre 1954, quando la nebbia ancora s’alzava lenta dall’acqua come vapore da un braciere. Kanuiri aveva disposto che ci accom­pagnassero tre uomini del villaggio, armati di archi e frecce, e che Tupiri restasse accanto a me «per­ché gli stranieri hanno gli occhi ma non vedono.»

Remammo per giorni lungo un ramo secondario del Gregório, stretto e ombroso, dove la volta della foresta lasciava filtrare appena qualche lama di luce verdeggiante. Gli argini erano ricamati di felci arboree e radici aeree di mangrovie d’acqua dolce. A volte, dall’oscurità del sottobosco s’intravedevano occhi gialli – giaguari, forse, o grandi caimani neri che si ritiravano silenziosi nell’acqua.

Annotavo ogni specie che potevo identificare: la Victoria amazonica, con le sue foglie galleggianti, ampie quanto un tavolo da pranzo; la delicata Passiflora coccinea, dai fiori scarlatti che ricadevano in grappoli; e, ancora, un’alga filamentosa di colore verde-ramato, che Harold avrebbe certamente notato col suo spirito da idrologo curioso.

Dopo qualche tempo, l’acqua mutò. Non nel colore – sempre di quel bruno lattiginoso – ma nel comportamento. La corrente non era più unidirezionale: sembrava comporre trame di flussi spezzati. 

Kanuiri mi spiegò, con un gesto circolare della mano, che quello era l’influsso della vicinanza al “fiume che ritorna”.

Tupiri notò la mia inquietudine e mi disse, in portoghese stentato: «Là, acqua non nasce, non muore. Sempre stessa.»

Cercai di razionalizzare: forse si trattava di un meandro estremo, che descriveva un cerchio di molti chilometri, oppure di un bacino interno privo di affluenti e deflussi visibili. Tuttavia, le mappe in mio possesso non segnavano nulla di simile.

Ciò, comunque, non spiegava quell’inquie­tante tappeto di geometrie liquide che era divenuta la superficie dell’acqua. Era come navigare su un enorme mandala tibetano.

A metà del viaggio, sentii il calore della fore­sta farsi oppressivo, mentre un’ostinata debolezza mi attanagliò.

La corrente del Gregório sembrò rallentare, come se il fiume percepisse la mia fragilità.

Poi vennero i brividi.

Kanuiri mi osservava con calma, i suoi occhi neri scrutavano la febbre dilagarmi nella carne.

Con un gesto perentorio, l’uomo fece appro­dare le piroghe. 

Venni sdraiato su un’amaca di fo­glie intrecciate, mentre Tupiri cominciò a preparare un infuso. Cortecce amare ribollivano nell’acqua, e un aroma terroso si mescolava all’umidità dell’aria. 

«Uni, per purificare,» mormorò, mentre accendeva fumo di rapé, sbuffandomelo in faccia: un vento leggero che spingeva l’odore secco nelle mie narici.

Il mondo esterno parve allontanarsi.

Bevvi a piccoli sorsi, e Kanuiri passò le dita sulle mie tempie, sui miei polsi, salmodiando for­mule che non capivo, ma che vibravano come un tamburo lontano. Una nausea montante mi martel­lò lo stomaco, rimescolandomi le viscere a tal punto da farmi temere che il vecchio m’avesse avvelena­to con qualche intruglio.

Ben presto, mi ritrovai riverso nel vomito, a recitare le ultime preghiere dinnanzi ai demoni del­la mia coscienza; poi mi vidi sospeso, come solle­vato da una volontà non mia.

Sotto, s’agitava il mare vegetale dell’Amaz­zonia: sterminato, smeraldino. 

Poco più in alto, ribolliva un nucleo brumoso di nubi primordiali, oltre al quale s’ergeva il torso enorme e spettrale di uno sciamano dalle scarne braccia rivolte al cielo.

Braccia vaste come l’orizzonte.

***

Rimasi privo di sensi per quasi due giorni.

Al mio risveglio, gli strepiti delle scimmie urlatrici mi parvero la più soave delle sinfonie.

Dopo una settimana, la febbre era scomparsa: le gambe tornavano a rispondere, le braccia a sol­levare la pagaia. 

La foresta non era cambiata, io sì: Kanuiri mi aveva salvato la vita.

Non parlammo mai delle mie visioni.

Il tredicesimo giorno toccammo la lingua di terra che ospitava il villaggio yawanawá.

Le capanne di legno e foglie di palma tucu­mã formavano un semicerchio rivolto verso il fiu­me. 

Lì, seduto come una statua di Rodin, stava Ha­rold.

La sua trasfigurazione mi colpì più delle biz­zarrie viste nel corso del viaggio: Blackthorne era macilento, la pelle chiazzata da punture d’insetto, i piedi nudi e screpolati. Sembrava invecchiato di quarant’anni. 

Parlava da solo, alternando inglese e portoghese, tracciando nella terra segni circolari con le dita. 

I bambini l’osservavano a distanza, le donne gli lasciavano ciotole d’acqua e manioca cotta, che lui toccava appena.

Quella sera, Kanuiri mi raccontò ciò che Ha­rold aveva riferito poco dopo il suo ritrovamento: i mesi di navigazione lungo il Juruá, il percorso a piedi nella foresta, l’accesso al fiume misterioso, la ricerca affannosa di una sorgente o di una foce, la certezza matematica e spaventosa della circolarità di quel corso d’acqua… fino alla perdita della ragione.

Nei giorni seguenti, cercai di parlargli. A vol­te, per brevi istanti, la sua mente pareva tornare: mi domandava di Kew Gardens e di un certo pub a Oxford, dove avevamo discusso di Linneo e Dar­win. Poi il suo sguardo si spegneva di nuovo, e ri­peteva: «Un anello. Un anello perfetto. Quel posto, Edward… quel posto non appartiene al nostro mondo.»

Dopodiché, immergeva il bambù nell’acqua, lasciandolo lì, verticale, e mi fissava inespressivo.

«Ricordi il vecchio Masterson? Il professore di geometria… quando ci mostrò il cubo illumina­to dalla lampada.»

Tracciava nell’aria un disegno con la punta della dita.

«Sulla parete proiettava un’ombra piatta: pri­ma un quadrato, poi un triangolo, infine un rombo. Tutto dipendeva dall’angolazione della luce. Noi ridevamo, perché era chiaro che il cubo fosse sem­pre lì: immutabile, nonostante l’ombra variasse.»

Infine, indicava il bambù.

«Se noi fossimo la superficie dell’acqua… cosa percepiremmo, ora?»

«Intendi: se fossimo pura bidimensionalità?»

Blackthorne annuiva.

«Coglieremmo solo una circonferenza.»

«E il bastone? Il cielo? La foresta?» chiede­va, cercando conferma.

«Sarebbero al di là della nostra percezione.»

Ogni volta restavo invischiato in quella logica: una logica che soccombeva al mistero.

«E se non si trattasse di un fiume, Edward? Se fosse la sezione di qualcosa che interseca il nostro spazio? Un’entità smisurata, liquida, tanto complessa da risultare inconcepibile alle menti tridimensionali? Proprio come un anello d’acqua perpetuo…»

A quel punto, subentrava il silenzio a salvare la ragione: i nostri sguardi cedevano, rapiti, al tremito dell’acqua attorno al bambù.

Un mattino, Kanuiri ci condusse in una ca­verna poco distante dal villaggio. Lì, alla luce va­cillante di una torcia di resina, vidi qualcosa che mi provocò una vertigine: un’incisione rupestre, antichissima, attribuita a «genti venute da lonta­no», molto prima che i portoghesi solcassero l’Atlantico.

Era un disegno semplice ma inequivocabile: un fiume rappresentato come un cerchio chiuso, con piccole canoe stilizzate che lo percorrevano all’infinito. Ai lati, figure umane danzanti, e sim­boli che riconobbi come affini a certi motivi incaici osservati su ceramiche del Perù centrale.

Non seppi cosa pensare. Poteva trattarsi di una leggenda trasmessa nei secoli, un mito locale cristallizzato in pietra. Oppure una testimonianza concreta di un fenomeno idrografico unico, se non impossibile.

Alla vista dell’incisione, Harold rise piano, poi s’accasciò, come svuotato.

«Lo sapevano da sempre…» mormorò.

Restammo al villaggio ancora qualche setti­mana. Gli Yawanawá non cercavano di trattenerci, ma non incoraggiavano nemmeno la nostra parten­za.

Blackthorne, benché fisicamente debilitato, iniziò a seguirmi per brevi passeggiate, senza ma­nifestare mai il desiderio di tornare a Londra.

La sua volontà sembrava essere rimasta in­trappolata nell’anello d’acqua, come una foglia in un vortice eterno.

Il 13 dicembre, annotai sul mio diario queste poche parole: Ho trovato Harold Blackthorne. Vivo. Ma non sono riuscito a salvarlo.

Partii il giorno dopo, con Tupiri, portando con me solo una copia disegnata dell’incisione rupestre, assieme al peso di un mistero che la scienza – temo – non potrà mai spiegare.

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Discussioni

  1. Ogni volta che termino i tuoi racconti ho la sensazione di essere a tanto così da afferrarne il significato, ma questo sfugge viscido. È come se mi titrovassi sempre ad un passo dalla verità.
    Le descrizioni mi hanno ricordato quelle di Solaris di Lem, non perchè le due tematiche siano simili, anzi, ma per l’accuratezza delle parole, la loro complessità e l’attenzione maniacale ai dettagli.
    L’andare del fiume mi ha fatto pensare ad una spece di centro di gravità invisibile attorno cui ruota come fosse l’orbita di un pianeta. Poi ad un certo punto ho avuto la sensazione che l’acqua, in realtà, collassasse e rientrasse in sè stessa, come se andasse avanti, sprofondasse e si ripiegasse verso l’interno.
    Complimenti Nicholas, anche questa volta mi hai fatto implodere le meningi! 😹

    1. Ciao Mary! Confesso di essere un po’ sadico, a volte😂 È che spesso mi piace perdermi per primo nel concetto che voglio trasmettere. Solo così sento di aver reso efficacemente il mistero. Grazie mille per la lettura e per il bellissimo commento!🙏🏻🤗

  2. Il racconto più squisitamente weird che abbia mai letto qui su EO. Parti da un’idea semplice, un fiume circolare, che potrebbe benissimo nascere da una fantasia di bambino, e la sviluppi facendola sconfinare nei territori della weird fiction con una maestria e una cura per i dettagli che mi lascia esterrefatto. Ogni parola, ogni frase è scelta e costruita con grande meticolosità, oltre alla ricchezza nei vocaboli, talvolta ricercati, che da sempre ti contraddistingue. Come dice @cristiana , a volte serve proprio il dizionario sotto mano per leggere un tuo testo.
    Quel breve scambio di battute tra Blackthorne e il protagonista, verso la fine, snocciola tutta la questione, e lo fa nel migliore dei modi: attraverso domande. Il concetto ha sempre affascinato molto anche me, e più di una volta mi sono ritrovato a chiedermi: “se le talpe sono cieche e non sanno cosa sia il sole, allora anche noi umani potremmo essere come talpe, rispetto a un oggetto che è fuori dalla nostra percezione sensoriale?”. Qui invece ci si addentra nel territorio delle forme e della geometria, con questo splendido esempio della proiezione di oggetti. Inutile dire che questo elemento mi ha riportato alla mente alcuni scritti di Lovecraft, specialmente quelli in cui coinvolge le geometrie non euclidee, come La Casa Stregata.
    Complimenti Nicholas, vale sempre la pena di leggerti 🙂

    1. Grazie mille, Gabriele! Della lettura e del commento!🙏🏻 Ti confesso che ho un debole per tutte quelle teorie vertiginose che riguardano la matematica e la geometria (Borges e Lovecraft avevano molto in comune, in questo caso, v. il racconto La casa di Asterione, di Borges). E qui, sulla falsariga di Conrad, ho voluto unire Escher, Borges e Crowley (l’esempio del bastone e della superficie dell’acqua l’ho ripreso, semplificandolo e adattandolo, da un romanzo misconosciuto del leggendario “Frater Perturabo”🤗).

      1. Borges lo citi spesso, e devo ammettere che di lui conosco molto poco: lo terrò a mente la prossima volta in cui mi ritroverò a scorrere qualche vetrina online di libri.
        Tra l’altro, anche a me affascinano quegli argomenti legati alla matematica, tanto che quando avevo provato a studiarla all’università, un po’ mi entusiasmava l’idea che sarei arrivato, ad un certo punto, a imbattermici. Ma poi è sfumato tutto… 😅

        1. Io avevo provato il liceo scientifico proprio per amore di queste tematiche, poi ho scoperto che erano queste tematiche a non amare me, e ho ripiegato su ragioneria. Un errore dietro l’altro🤦🏻‍♂️

  3. Quello che più mi affascina della tua scrittura, è la capacità di passare da uno stile all’altro con una naturalezza sorprendente, e dimostrarti ogni volta all’altezza della prova. Mi ha colpito come l’idea di viaggio si muova su più livelli. I protagonisti attraversano un intero Oceano, si spostano e si muovono esplorando un nuovo continente e i suoi abitanti. Il racconto si apre in infiniti spunti e tutti varrebbero la pena di essere esplorati. Di contrasto, quel: non finisce mai. L’immagine, quasi immobile, di questo fiume che scorre su se stesso, una sorta di grado zero del viaggio. Gira su se stesso ma resta immutabile. Cambia forma senza cambiarla. Arianna ci ha visto un portale, io ci ho visto un punto di arrivo. Ho avuto la sensazione che se qualcuno diventasse quel cerchio, avrebbe raggiunto esattamente il punto in cui nulla più esiste, neppure il concetto di materia o di tempo. Resta soltanto l’esserci.

    1. Ciao Irene! Grazie mille della lettura e del bellissimo commento!🙏🏻 Quando ho immaginato il fiume, mi sono visto davanti un quadro di Escher, uno di quelli con le scale che salgono e contemporaneamente scendono, in un perenne adattamento del nastro di Moebius. Volutamente non ho descritto (e non ho saputo descrivere) ciò che può aver sperimentato Blackthorne. L’Aleph, un portale, il grado zero (o massimo) dell’esistenza… Chissà🤷🏻‍♂️ 🤗

  4. “Aveva accettato di accompagnarmi, a patto di “rispettare i silenzi nelle ore in cui la foresta ascoltava””
    Una frase stupenda Nicholas. Anche il resto del racconto mi ha tenuto incollato allo schermo, è interessantissimo. Complimenti

    1. Ciao Roberto! Mi sono proprio ispirato a “Cuore di tenebra” di Conrad😆 È stata una ventata d’aria fresca la lettura di quello scrittore. Grazie mille per la lettura!🙏🏻

    1. Mentre la scrivevo, mi sono accorto che ci sarebbe stato tanto materiale da riempire un romanzo😂 Il fiume è l’elemento di maggior impatto, ma avrei voluto dilatare l’esperienza del protagonista (soprattutto il viaggio con l’ayahuasca, che è solo accennato), delineare meglio i personaggi di Tupiri e Kanuiri, descrivere l’esperienza di Blackthorne sul fiume quadridimensionale… insomma: una roba fatta bene sarebbe stata molto impegnativa… troppo per uno pigro come me😂

  5. Wow, un’avventura in piena in regola, con descrizioni molto curate che mi hanno dato l’impressione di essere dentro la storia e quel pizzico di mistero che adoro. Dei tuoi racconti recenti questo è quello che preferisco. Spero di leggere altre storie simili, bravissimo!

    1. Ciao Melania! Grazie mille della lettura e del commento!🙏🏻 Hai assolutamente ragione: secondo me è il migliore degli ultimi 6 o 7 che ho scritto😊 Ho voluto lasciare più spazio alla storia e meno al concetto. Spero di avere presto occasione di ritrovare questa alchimia 🤗

  6. Molto coinvolgente. La foresta sembra un tempio e insieme una prigione, e i personaggi trasmettono un mistero che si percepisce fino in fondo. Tra fiumi e rituali, il viaggio diventa un’esplorazione del mondo e insieme di se stessi.

  7. Ciao Nicholas. Ho letto il tuo testo con tanta emozione perché mi ha trascinata dentro un’America Latina che sento mia, con i suoi fiumi che non sono mai solo acqua ma memoria, mito e destino.
    Le tue parole rimandano alla forza di un realismo magico che si intreccia alla precisione scientifica, e questo incontro rende la scrittura viva e inquietante.
    La storia è affascinante e ricorda la letteratura di viaggio, soprattutto quella britannica.
    Ci racconti un enigma che prende corpo nel fiume e nel mistero della foresta e mi susciti una domanda. Mi sono chiesta se ti sei lasciato ispirare dall’autrice che tu stesso mi hai consigliata, Clarice Lispector, e prometto che la leggerò per conoscerla meglio.

    1. Grazie, Cristiana, della lettura e del bellissimo commento!🙏🏻 No, stavolta ho seguito lo stile di Conrad (ho appena finito due suoi famosissimi racconti, tra cui “Cuore di tenebra”) e sono tornato alle tematiche del mio amato Borges🥰 (con un pizzico di fantascienza magica alla Bioy Casares). La Lispector è completamente diversa (credo che non parli mai del Brasile, pur avendoci vissuto tutta la vita). Il mondo della Lispector è tutto interiore: ermetico, appiccicoso, pneumatico, egoico, orbitante attorno ai suoi tormenti esistenziali; legato al potenziale della parola e al flusso di coscienza🤗

  8. Un fiume chiuso a cerchio: potrebbe rappresentare l’infinito? Forse Blackthorne ha scoperto un punto dove osservare il tutto e il suo significato, come ne “L’Aleph” di Borges, e perciò è finito nel vortice della follia. Molto bello questo tuo racconto, Nicholas👏👏🙂

    1. Ciao Concetta! Grazie mille della lettura🙏🏻 Sono tornato nella mia narrativa di riferimento (Borges è uno dei miei due autori preferiti, in assoluto) e volevo farlo incontrare con Conrad, dato che ho appena finito di leggere due sue opere😊

  9. Scrivi davvero bene: vedi le scene, fai sentire odori e suoni, e mantieni la tensione senza eccessi. Realtà e mistero si mescolano con naturalezza; la voce narrante resta credibile dall’inizio alla fine. Non hai bisogno di orpelli, non ti compiaci e, per fortuna, non sei mai eccessivo (ahimè io lo sono)!

    1. Ciao Lino! Grazie mille per la lettura e per il bellissimo commento!🙏🏻 Io adoro l’eccesso😂 Qui, su EO, cerco di allenarmi a una democratica asciuttezza, ma se dovessi scrivere un romanzo punterei sull’eccesso (e anche sull’autocompiacimento: i miei scrittori preferiti sono degli egoici senza speranza)🤗