IDENTITÀ

Serie: Bianco Gesso


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Una squadra di ricognizione; un edificio abbandonato; una minaccia impalpabile. Episodio finale.

Seguo Miccia tra cassette di plastica vuote.

«Lei c’era, professore? All’inizio», chiede.

«Sì.»

«Com’era?»

«Non ce ne accorgemmo: era nelle ombre, prima ancora che nei corpi. Gli occhi furono gli ultimi a capire. Eppure, bastava guardare a terra.»

Miccia scruta la sua ombra, come se si auscultasse in cerca di una malattia.

«E poi?»

«Poi qualcuno cominciò a cambiare. Fisicamente. Si scatenò qualcosa di orribile.

Le ossa si spezzavano, riorganizzandosi in forme nuove. Le giunture cedevano. La carne si spostava, adeguandosi alla fisionomia della propria ombra. Alcuni si accartocciavano su se stessi, a mezzogiorno. Altri si allungavano, al crepuscolo. Gli occhi svanivano. Le bocche si squarciavano fino al collo. Non sempre morivano. A volte sopravvivevano per mesi, in quelle condizioni.»

Miccia deglutisce. Il Sergente ci chiama.

Detersivi. Sapone, candeggina. Tutto infetto. Niente che si possa toccare.

Ogni cosa dotata di un’ombra è potenzialmente organica.

Le confezioni sono coperte da un velo grigio: polvere e muffa secca. I codici a barre sembrano occhi spalancati. Tutto dà l’impressione di essere dimenticato.

«Gli sciacalli non sono ancora passati,» osserva Miccia.

Il Sergente lo ignora.

Nella spoglia cella frigorifera, l’illuminazione è incostante. La zona è impraticabile. Putredine nera sulle pareti, stratificata come corteccia. Sul pavimento, una scarpa da donna. Il tacco piegato come un artiglio.

Usare una torcia sarebbe un suicidio.

«Quanto manca?»

«Sette minuti», m’informa il Sergente.

Procediamo nel reparto ortofrutta.

Tutto marcio. Le cassette sono piene di bucce. Un topo stecchito vicino alle banane, pressato e secco come una foglia.

Un neon lontano sfarfalla. Emette un suono intermittente. Un rantolo elettrico.

«Férmati! Stai proiettando verso la mia diagonale!»

Miccia blocca il passo, mi guarda confuso.

«Controlla l’asse, dannazione. Non te l’hanno insegnato cos’è un indice di tangenza

Scuote il capo, poi si scosta lentamente, fino a riallinearsi con la colonna di luce.

«Ne ha mai visto uno? Uno stadio terminale, intendo», riattacca.

«Sì. Più di uno. Quando la carne cede, e non c’è più nulla, in loro, che somigli a un uomo… quando l’ombra si stacca come un’anima. Non lo dimentichi.

È per questo che gli infetti vengono subito soppressi.

E sai qual è la cosa più terribile?

Non sapere nemmeno se si tratta di una malattia… o di un’invasione.»

«Ma perché proprio le ombre?»

«Non ne ho idea, Miccia… Forse perché sono le ombre a far di noi ciò che siamo… a renderci riconoscibili. Immagina un mondo senza ombre. Anzi, no: immagina un’umanità di facce immobili e bianche. Bianco gesso. Credo fosse stato il Bernini a dirlo. Lo scultore. Disse che ciascun volto, se dipinto di bianco, sarebbe irriconoscibile. L’identità è nel colore, nel movimento… nell’ombra. È l’ombra a scolpirla nella carne.»

«Zitti!» La voce del Sergente ci blocca.

Clic. Un neon esplode in luce.

Bianca, fredda, violentissima.

L’equilibrio delle ombre si stravolge, una scaffalatura proietta la propria in avanti, come un’onda nera, investendo quella di Miccia. Sommergendola.

Le ombre non devono toccarsi. Mai!

«Merda!»

Alzo il fucile e sparo. Schegge di vetri, cartongesso e polveri fluorescenti c’investono.

Ritorna il buio.

Lo scanner ronza, ma Miccia non se ne cura.

Resta immobile, col fiato sospeso.

Il Sergente ci raggiunge e guarda a terra.

Lo spettrovisore emette una serie di impulsi bassi, regolari.

«Tranquillo,» dice al ragazzo.

«Tutto sotto controllo.»

Miccia espira forte. Io abbasso l’arma.

Fa un mezzo sorriso. Sembra sul punto di dire qualcosa, una delle solite ingenuità.

Poi la sua testa deflagra. Un getto scuro schizza sulle mele ammuffite accanto a noi, assieme a un rettangolo di cranio, liscio e curvo come un coccio.

Il suono è quello di un cocomero spaccato a martellate.

Il corpo crolla in avanti, col rumore flaccido della carne che cede. Le gambe tremano spasmodicamente, come elettrizzate.

Il Sergente impugna la sua Desert Eagle.

La tiene alta, ferma, quasi fosse pietrificato.

La canna ancora sbuffante.

«Non potevamo rischiare.»

Annuisco e rimetto lo scanner nello zaino.

Qui abbiamo finito.

Il Sergente prende l’arma di Miccia.

Solo le munizioni. Il resto lo lascia.

Niente parole. Nessuna pietà.

Usciamo. Il sole è ancora alto, ma l’edificio a ovest piega già la luce. Le ombre dei semafori si allungano innaturalmente, come falangi nere.

Attraversiamo il Settore.

Sento un soffio. Forse il vento, forse no.

«Cosa scriverà nel rapporto?»

«Che Miccia è morto per una disattenzione. Nient’altro.»

Non rispondo. Camminiamo.

Verso la fine del viale, butto uno sguardo al suolo.

La mia ombra è cresciuta.

Sembra cercare quella del Sergente.

Non glielo dico.

«Lei crede davvero che l’Umbrosis si sia attenuato?» riattacca.

«Io riporto solo delle evidenze.»

«Lei non ha prove», taglia corto lui.

«Gli studi parlano chiaro, Sergente: non esistono più animali colpiti dalle mutazioni. I loro corpi s’infettano, certo, ma restano asintomatici: l’ho visto coi miei occ–».

«Ha visto solo gli stadi iniziali, professore. Tutto qui. E si è voluto convincere di questa teoria. Altrimenti, non si spiegherebbe il motivo della cautela di poco fa… non trova?»

«Forse è perché neppure io ho il coraggio di ammetterlo, Sergente.

La verità è che la paura ci ha assuefatti.

E combattiamo paura con altra paura, in una recita infinita.

Recitiamo il terrore di un male incurabile, ora, solo per giustificare ciò che siamo diventati. Per scacciare l’orrore di guardarci allo specchio.»

«No. Lei sa cos’è successo. Lo raccontava poco fa… non ricorda?»

«Perché è ciò che ho visto… all’inizio. E poi: cosa avrei dovuto dire a quel soldato? Certo, non di ignorare il protocollo. Anche se non credo che sarebbe andata peggio di così…» m’interrompo, prima di dire qualcosa di cui potrei pentirmi.

«Sta insinuando che Miccia è morto invano?»

Ci fermiamo. La strada termina in un dirupo.

Un cratere lasciato da un’esplosione.

Si è provato anche così: con le bombe.

Un blindato dell’unità di recupero si avvicina.

Il Sergente sembra aver già dimenticato tutto.

La mia ombra è tornata normale.

Lo è sempre stata.

Poco più in là, sull’asfalto, qualcuno ha scritto col gesso: conta le ombre, prima di fidarti della luce.

Serie: Bianco Gesso


Avete messo Mi Piace7 apprezzamentiPubblicato in Sci-Fi

Discussioni

  1. L’ombra è ciò che ci rende umani, ci da una consistenza. A contatto con luce l’ombra proiettata dal corpo è la prova che esistiamo davvero. Ma non qui.
    L’ombra è anche il simbolo della nostra parte oscura, quella che non conosciamo. Mi è venuta in mente una frase di Jung: “rendi cosciente l’inconscio”. Fare luce sulla propria “ombra” per lui era indispensabile nel processo verso l’individuazione del sè. Qui accade il contrario. A contatto con la luce l’ombra si decostruisce, ci si spappola e non si esiste più.
    “E chissà se è una malattia o un’invasione…” Potente e molto originale. Complimenti.

    1. Grazie ancora, Irene! Bellissima analisi👏🏻. La frase che citi (quella sull’invasione) è un piccolo inserto che ho aggiunto successivamente, e volevo che rendesse la natura di quella minaccia. Sono felice che tu l’abbia colta! Tutto sta nel capire se l’invasione arriva da dentro o da fuori.🤗

  2. Riesci sempre a stupire e a cogliere nel segno con la tua originalità che riguarda sia la scelta dei temi che il modo di trattarli.
    Questo racconto corre rapido e si sposta insieme alla luce del sole che proietta ombre infette e letali. Il simbolismo è forte e lo si può cercare in ogni singola immagine. L’ombra come proiezione dell’io, come parte completante e al contempo facente parte del nostro essere. Ho pensato, leggendoti, che senza le ombre che mi disegnano e delineano, il mio viso non avrebbe una tridimensionalità. Ho pensato anche all’ombra persa da Peter Pan e ricucita al piede da Wendy. Insomma, anche questa volta sei stato bravissimo a farmi venire il mal di testa 🙂
    p.s. la tua esperienza cinematografica si sente particolarmente forte in questa mini serie.

    1. Ciao Cristiana! Grazie mille per la lettura e per il bellissimo commento!🙏🏻 Sono contento di essere riuscito a trasmettere il concetto di questa storia apparentemente (nella forma) semplice. Anche io avevo pensato a Peter Pan!😆 Soprattutto, volevo accennare alla paranoia che ogni situazione (guerra, crisi, epidemia, catastrofe climatica) porta con sé, e alla manipolazione che ne consegue (il vero killer, nella ristretta finestra di eventi che è concesso visualizzare, è un essere umano)🤗

  3. Ciao Nicholas.
    L’ombra è l’archetipo più potente della psicologia analitica junghiana. E’ parte della nostra personalità, la zona che tentiamo di tenere lontana dalla coscienza. Il riconoscimento e l’integrazione della propria ombra è fondamentale nella dottrina di Jung.
    In questa mini-serie sei riuscito a personificarla: i protagonisti hanno riconosciuto l’ombra. Adesso dovranno re-integrarla nella loro complessa personalità.
    Questo è ciò che mi è venuto in mente leggendo questo racconto. Notevole!

    1. Ciao Antonio! Grazie mille della lettura e della bellissima interpretazione.🙏🏻 Volevo proprio rimanere su un livello simbolico, sono contento che tu abbia colto queste implicazioni psicologiche (e psicanalitiche)😊

  4. Molto bello Nicholas. Bella l’idea generale e l’ambientazione. Geniale usare le ombre come una sorta di virus o presenza aliena apocalittica che allo stesso tempo diventa simbolica per tante altre riflessioni sull’indole umana. Complimenti. Secondo me l’ambientazione sarebbe perfetta per una storia ancora più lunga

    1. Grazie ancora, gentilissimo!🙏🏻 Sì, la storia potrebbe ampliarsi notevolmente, ma spesso preferisco la brevità, così da rimanere a livello metaforico e dar risalto al concetto (e alle considerazioni che ne potrebbero nascere)😊