Il Collasso narrativo di San Velario

Serie: ATLANTE DELLE TERRE SOMMERSE


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Frammenti dall'archivio di Giorgio Traüber.

Il Collasso narrativo di San Velario è stato un fe­nomeno collettivo verificatosi tra il 17 il 23 otto­bre 1981 nell’ex comune italiano di San Velario (provincia di Potenza), durante il quale circa il 92%   degli abitanti ha improvvisamente smesso di ricordare la trama delle proprie vite.

Il fenomeno è considerato un caso unico di so­spensione temporanea della coerenza autobiogra­fica livello comunitario.

Contesto

San Velario era un piccolo borgo medievale (circa 1.300 abitanti) aggrappato una cresta di pietra   chiara sopra il Serrapotamo. 

Il centro, caratterizzato da una forte coesione sociale da tradizioni orali ben radicate, fu   storicamente in balìa di un peculiare isolamento, generato da condizioni geografiche linguistiche  uniche (gli abitanti avevano sviluppato una vera propria lin­gua indipendente, una derivazione dell’antico oscoestinto oltre 2000 anni fa). Molti studiosi ri­tengono che questi fattori abbiano contribuito for­temente all’insorgere del fenomeno.

I fatti

Il 17 ottobre 1981, durante il mercato settimanale, alcuni testimoni riferirono che la popolazione co­minciò a “dimenticare” gli eventi fondamentali della propria esistenza: non ricordavano più il loro nome, le relazioni familiari, l’indirizzo di residen­za e, non sapendo spiegare chi fossero, inventava­no retroscena totalmente implausibili.

Nei giorni seguenti, l’intero paese cessò di colpo ogni attività amministrativa, educativa e commer­ciale, poiché nessuno riusciva a stabilire “che cosa bisognasse fare”.

Conseguenze

Il 20 ottobre, una delegazione regionale fu inviata a San Velario. I funzionari, interagendo con gli abi­tanti, notarono un comportamento cortese e razio­nale, sebbene questi ultimi non celassero il loro to­tale smarrimento: nessuno, infatti, sapeva più nem­meno cosa fosse la Basilicata.

L’assenza di una narrativa interna rese impossibile la gestione della comunità.

Il 23 ottobre, senza spiegazioni, gli abitanti inizia­rono a “riassemblare” ricordi parziali. Tuttavia, i dati raccolti mostrano che circa il 38% delle auto­biografie ricostruite non corrispondevano a quelle preesistenti.

Teorie

Alcune ipotesi vennero formulate: la teoria della Sincope cognitiva di massa (Brunetti, 1985) ascri­ve il fenomeno a una fatale ridondanza del tessuto sociale. Una coscienza identitaria stagnante, che reiterazione e clausura hanno reso simile a una ca­mera di risonanza. Un po’ come quando si ripete all’infinito il proprio nome, fino a smarrirne del tutto il significato.

La tesi del Tracollo mnemonico locale (Jørgensen, 1987), invece, suggerisce che la disgregazione nar­rativa dell’identità si sia diffusa come fenomeno mimetico, in una sorta di effetto domino sfociato in psicosi collettiva.

Interpretazioni parapsicologiche, infine, suppon­gono un’interferenza a livello metafisico.

Eredità culturale

Il Collasso narrativo è oggi celebrato annualmente con la “Festa delle Nuove Storie”, durante la quale gli abitanti della valle del Serrapotamo si scambia­no biografie inventate.

Il fenomeno ha ispirato opere letterarie, come il romanzo Una vita ogni mattina di Lidia Portinari (1996) e il film L’orologio a sei lancette (1999, regia di Mario Fattorini).

Il borgo di San Velario oggi non esiste più.*

Bibliografia

¹ Brunetti, F. (1985). Sincope narrativa: un’ipotesi cogni­tiva. Latere Editore.

² Jørgensen, P. (1987). Il Simbolo e il Collasso. Edizioni Akheilos.

Voci correlate

• Memoria autobiografica

• Dissociazione collettiva

• Fenomeni mnemonici di massa

*Mi riallaccio a questa storia incredibile, catalogata da mio fratello, per introdurre un manoscritto trovato dagli inquirenti nel suo comodino, e che credo si possa tran­quillamente definire “l’ultimo messaggio di Giorgio Traüber”: una serie di farneticazioni illuminanti riguardo allo stato di salute della sua mente. L’inquietudine prova­ta dopo la lettura delle seguenti righe, mi ha spinto a cer­care in rete nuove informazioni sull’universo parascienti­fico che mio fratello ha tanto faticosamente delineato. È così che ho scoperto – per puro caso – che il villaggio di San Velario non è mai esistito. — G. T.

“Nulla è mai stato nostro”

Ero poco più che dodicenne quando scrissi la mia prima nota sul comportamento parassitario di certe immagini ricorrenti. Fu una riflessione senza pretese: osservavo come alcuni sogni sembrassero non appartenere al so­gnatore. Quasi fossero impiantati.

A trentaquattro anni proposi – con ingenuità quasi feb­brile – la prima definizione di Glossovirus A0. Un’idea che oggi tutti fingono di non ricordare – o peggio, citano come “esperimento narrativo” – e che fu allora derisa, ignorata, demolita pubblicamente da ogni voce autore­vole.

Ramieri scrisse che “Traüber confonde la poesia con la patologia”.

Marina Cossu mi definì “un entomologo delle allucina­zioni linguistiche”.

Pellacani arrivò a suggerire che io stessi sfruttando “un delirio borderline per ottenere visibilità negli ambienti digitali marginali”.

Non risposi mai a nessuno. Continuai a osservare.

Ora però posso dirlo: avevo ragione.

E se non fosse che il concetto stesso di “ragione” rap­presenta uno degli stadi del contagio, lo direi con orgo­glio, invece che con amarezza.

Tutto ciò che ho raccolto in questi anni si ricuce in un’unica diagnosi culturale: non siamo noi a pensare i concetti, bensì sono loro a usare noi per nascere, molti­plicarsi, e poi morire.

I concetti sono virus: questa è la tesi che non mi perdo­neranno mai e che io stesso ho impiegato trent’anni ad accettare.

Sono virus: entità parabiologiche che mutano, si repli­cano, s’installano nei tessuti cognitivi umani come in un corpo-ospite.

Quando l’ambiente si fa ostile – per saturazione, censu­ra, o rigetto sociale – vengono espulsi. Spariscono. Di­ventano concetti estinti, fossili linguistici, sogni residui.

Alcuni resistono nei margini. In dialetti, liturgie arcai­che, tic verbali… in quella che è la perfetta estensione sonora e strutturata del pensiero: la parola.

Altri, più recenti, si annidano nei sottotesti digitali, negli spazi dove la lingua si consuma troppo in fretta per es­sere controllata.

Là, mutano ancora. Là, nascono i glossovirus.

E non potrebbe essere altrove che nel linguaggio: il tra­smettitore per eccellenza.

Ne ho riconosciuti decine, poi centinaia.

Strutture verbali comparse spontaneamente in blog, chat, commenti e diari perduti.

Nessuna con etimo, nessuna con referenza, eppure tutte riconosciute, usate, condivise.

Segni senza autore. Simboli senza origine.

Unità semiotiche autonome, come spore linguistiche.

Nate per moltiplicarsi, non per significare.

E allora ho capito.

Le specie concettuali non si estinguono per oblio, ma perché rimpiazzate da concetti più adatti alla sopravvivenza virale.

Tutte le forme mentali, a un certo punto, non riescono più a contagiare.

Si tratta di idee troppo coese, troppo stabili per una mente liquefatta dai tempi moderni.

Così come un virus troppo letale muore col suo ospite, un concetto troppo denso si annulla con la realtà che in­fetta. E questo annullarsi comporta mutamenti impercet­tibili ai sensi, sebbene radicali.

La mente, allora, non è più il proiettore, bensì lo scher­mo.

La memoria è un archivio contaminato.

L’oblio, una disinfezione automatica.

L’inconscio, forse, è il vero laboratorio virologico del pensiero.

E i sogni, quei sogni assurdi, spezzati, pieni di linguaggi alieni e nascosti, non sono altro che il tracciato febbrile dell’infezione in corso. Il modo in cui i concetti ci pos­seggono.

L’unica via per intuire le cicatrici delle vecchie realtà decadute.

Cos’è l’arte, allora?

Cos’è un romanzo? E la Verità?

Sono idee “mie”?

No. Altri sfregi lasciati da un contagio ben riuscito.

Mi chiedono perché non scrivo più.

Perché non tengo più conferenze.

Perché ho smesso di partecipare ai convegni.

La risposta è semplice: ormai non so più se sono io a scrivere, o se sono le parole a scrivere me.

Forse anche questa confessione, fatta inevitabilmente di parole, non è altro che l’ultimo stadio di un’infezione narrativa.

Un glossovirus terminale che cerca solo un altro corpo.

Un altro lettore.

Tu.


Giorgio Traüber

(Manoscritto non datato, ritrovato nella cartella “quarantenario”, Taccuino Speculare n. 21)

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Discussioni

  1. Ciao Nicholas, mentre leggevo il tuo testo, ho avuto l’impressione di inciampare in un sogno che non sai più se hai vissuto davvero o solo immaginato. Il “Collasso narrativo di San Velario” sembra uno di quei racconti che iniziano con un tono da archivio storico, quasi burocratico, e finiscono per spalancarti davanti una vertigine metafisica.
    L’idea che un’intera comunità smetta di ricordare chi è per un esaurimento della coerenza interna del proprio racconto di sé, è disturbante, eppure mi è parsa stranamente plausibile.
    Ma è nel manoscritto di Traüber che tutto si spacca. Le sue parole sono dense, quasi febbrili, ma lucidissime. Sembrano scritte da qualcuno che ha guardato troppo a lungo dentro un pensiero e ha iniziato a vederlo vivere di vita propria. La tesi dei “glossovirus” è sconvolgente. Eppure, mi sono chiesta, quante volte ho pensato qualcosa e mi sono posta il dubbio che quel pensiero fosse davvero mio? Quante volte non sappiamo più se stiamo leggendo o se siamo letti da qualcuno?
    I tuoi testi mi fanno venire sempre un bel mal di testa e questo, in particolare, con la sua tesi che mi ricorda l’armadietto di ‘Men in black’, me lo ha fatto venire più di tutti.
    Aggiungo e chiudo, scritto benissimo, ineccepibile.

    1. Ciao Cristiana! Sono andato a vedermi la scena dell’armadietto di Men in Black perché non la conoscevo 😂 Grazie mille per la lettura e per il bellissimo commento🙏🏻 Anche in questo caso mi sono rifatto un po’ a tutte quelle tesi che girano sul web in questo periodo storico (Effetto Mandela; realtà come simulazione; glitch nella Matrix; teorie del complotto) intrecciandole con la filosofia di Wittgenstein e di Umberto Eco. Un altro senso profondo della serie, infatti, sarebbe quello di porre l’accento sulle mitologie moderne e sul cosiddetto zeitgeist attuale.🤗

  2. Ho trovato un parallelo con l’episodio precedente. Come i personaggi si “ribellavano” all’autore, qui i concetti assumo la forma di entità con vita propria. Noi esseri umani, che ci pensiamo pensanti, risultiamo nient’altro che veicoli. Non soltanto le idee non ci appartengono, ma ci a un certo punto ci lasciano pure. Come ci lascia il virus dell’influenza quando siamo guariti. Potentissimi questi concetti che ci esponi (Ed ecco l’esempio pratico. Concetti espressi da te ora diventano miei. Me ne approprio, rifletto, o sono loro che si appropriano di me? Mi hai contagiata 😂)
    Scherzi a parte, altro bellissimo episodio!

    1. Ciao Irene! Grazie mille della lettura e del bellissimo commento 🙏🏻 Hai colto un punto importante del mio discorso: la contagiosità delle idee. Spesso diamo per scontato che ogni nostro gesto provenga da risposte a stimoli che sappiamo rintracciare, mentre in realtà le azioni e i pensieri si muovono sotto la spinta di idee altrui assimilate e rielaborate a nostra insaputa. Ma esisterà un punto di origine? Un “autore” che abbia distribuito all’Umanità i concetti originari? Chissà 🤗

  3. Ciao Nicholas, un altro episodio di grande impatto, davvero originale. L’ho letto questa mattina e per tutto il giorno non ho smesso di ripensare a questa frase: “I concetti sono virus: questa è la tesi che non mi perdoneranno mai e che io stesso ho impiegato trent’anni ad accettare.” È un’idea che si incardina bene nella nostra attualità. Evoca in modo perfetto l’idea di un pensiero contagioso, che si trasmette da una mente all’altra, muta, e può sia debilitare che potenziare chi lo ospita, diventando poi quasi impossibile da sradicare. Come un’ideologia che parte da una persona e conquista le masse. Sto divagando… Bravo come sempre!

    1. Ciao Tiziana! Grazie mille della lettura e del bellissimo commento🙏🏻 Credo che questo periodo storico sia quello che meglio dimostra la “viralità” del pensiero (chiaramente la versione filosofica, non certo quella distorta presente nella mente del protagonista). La connessione massiva e perpetua tra le persone crea questa “infezione” costante. In uno dei prossimi capitoli ipotizzerò quale potrebbe essere la conseguenza paradossale di una connettività (e virtualità) portata agli eccessi🤗

  4. Wow, che idea interessante! Dimenticare la propria storia e persino il proprio nome deve essere terrificante. Insomma, io farei volentieri a meno di alcuni miei ricordi, però anche le esperienze negative hanno una loro utilità (così dicono). Bravo Nicholas! Anche questo nuovo capitolo costringe il lettore a porsi delle domande.

    1. Ciao Arianna! Grazie mille della lettura!🙏🏻 Sono felice di riuscire a suscitare interrogativi che vadano al di là della storia. Questo è da sempre il mio obiettivo primario🤗

  5. Episodio in due tempi. Nel primo: una favola, che paventa la perdita della personalità collettiva. Nel secondo l’approfondimento del primo tema, in una chiave delirante che evoca una sorta di Armageddon lessicale, e poiché il pensiero umano è funzione solamente dei termini che conosce, ecco che quella perdita del “concetto” trova una sua logica nel perdere sé stessi. Mi pare piuttosto evidente l’analogia con l’attuale (tristemente reale) depauperazione lessicale e culturale che contraddistingue la nostra più recente quotidianità. Grazie Nicholas per la lettura

    1. Ciao Paolo! Grazie mille a te🙏🏻 La serie è profondamente legata ai fattori e alle problematiche attuali: l’impoverimento lessicale, la perdita d’identità linguistica, l’appiattimento culturale, la proliferazione di dati, la falsificabilità delle fonti (e quindi del reale), il dogmatismo scientifico, l’abbassamento della soglia d’attenzione in una sorta di perenne ipnosi tecnologica. Il “mondo” di Traüber è (per ora) una specie di fuga alla rovescia dal nostro stesso mondo.

  6. Giorgio Traüber non era poi così lontano dalla realtà. In fondo ci contaminiamo a vicenda. Dicono che Federico II avesse fatto un esperimento: fece rinchiudere in una casa dei bambini appena nati. Queste povere creature venivano accudite in tutto e per tutto, ma nessuno doveva parlare in loro presenza. Lo scopo dell’imperatore era quello di vedere che lingua avrebbero parlato crescendo. Il risultato fu nessuna. Fa riflettere questa tua serie. Bravo, Nicholas🙂

    1. Ciao Concetta! Interessantissimo questo tuo aneddoto! Tra l’altro, uno dei prossimi episodi parlerà proprio di linguaggio in popoli isolati da tutto, anche da se stessi. Il cuore di questa serie è proprio il linguaggio😊 Grazie mille della lettura🙏🏻

  7. La frase “non so più se sono io a scrivere, o se sono le parole a scrivere me” mi è rimasta addosso come un post-it sulla fronte: dà alla teoria dei glossovirus una malinconia concreta, quasi fisica.