Il linguaggio dell’amicizia

Serie: Genio sovraumano


Sinisa in quei freddi giorni autunnali, era solito recarsi nei pressi di quella fitta sterpaglia che fiancheggiava i resti del mattatoio almeno una volta a settimana per raccattare fascine da ardere e nel favore della sorte qualche bel porcino di cui era goloso. Quella mattina si sentiva insolitamente inquieto, la notte prima aveva avuto un acceso diverbio con sua moglie Olga su questioni insignificanti, tipiche di una giovane coppia. Non si erano più parlati e questo un po’ gli pesava; il solo pensiero di sua moglie col broncio lo metteva di cattivo umore. Quella donna era capace di non rivolgergli lo sguardo per giorni interi. Una tale amabile cocciuta, un asinello con le orecchie lunghe ed i paraocchi. Adorava sua moglie ma certi atteggiamenti li riteneva francamente insopportabili.

Il giro era stato sempre lo stesso: veloce ricognizione del sottobosco per la raccolta delle fascine e poi puntata alle roccaglie nei pressi del mattatoio per i funghi. Doveva fare in fretta e rincasare di gran lena: a pranzo doveva mangiare assolutamente funghi e convincere Olga a cucinarli proprio quel giorno non sarebbe stato affatto agevole.

Il frastuono di uno sparo lo ridestò di angosciosa sorpresa.

– Razza di idiota non l’hai preso, non ti posso far fare niente, dammi quà lo faccio io.

Il proiettile aveva sfiorato il collo di Nicaor procurandogli un’evidente lacerazione all’altezza del lobo dell’orecchio sinistro. Il tentativo maldestro dei rapitori non era andato a buon fine. Nicaor era ancora vivo.

Non era certo la prima volta che Nicaor si era trovato in situazioni complicate, ma quella, Dio santo, non era soltanto una situazione complicata, sembrava piuttosto un vicolo cieco, una strada interrotta, come quelle raffigurate in certi cartelli stradali che ti impediscono di proseguire oltremodo, quelli ancor più tassativi del divieto di transito, quei cartelli blu e rossi con la T che mai e poi mai ti converrebbe tentare di oltrepassare; tanto si sa, dopo non c’è niente se non una strada serrata, oltre il nulla.

Sono quelli i momenti in cui non sai, non vuoi, o forse vorresti ma non immagini come ed allora rimani nella condizione di chi aspetta ed aspettando pensi, ma quello che pensi non produce senso. Sono quei rari momenti in cui la T davanti agli occhi pare l’unica via percorribile, anche se ti rendi conto che quella via non porta a percorsi tracciabili.

Ora non sentiva niente di più che un sibilo stonato e sordo. Poco male – pensò – tanto quel mucchio di “verbaglia” cacofonica e spigolosa che fuoriusciva dalla bocca dei suoi aguzzini non aveva mai avuto troppo senso per lui. Quello che più di tutto lo angosciava era piuttosto il ripulso maleodorante che gli risaliva dagli intestini, quello si che lo sentiva; quel senso di impotenza che accompagna la consapevolezza di non poter intervenire, di non poter adoperarsi per assecondare il più grande talento di ognuno: l’istinto di sopravvivenza.

Per Nicaor non si trattava più di tentare di sopravvivere, non c’era un sentiero aperto oltre quella T invalicabile. I suoi passi sul sentiero dell’esistenza li aveva esauriti lì, stretto nella morsa dei catenacci da macello di un lungo e spasmodico fine corsa. Non poteva più percorrere la sua via, ma la sua via stava per essere percorsa da altri.

Lo schianto dello sparo proveniva dall’interno del mattatoio. Il rimbombo nel vuoto del locale ne aveva prodotto un’eco estesa. Sinisa che maneggiava legna a qualche centinaia di metri, non avrebbe impiegato più di due minuti per arrivare. Le sue lunghe leve fecero il resto, in un balzo fu sul posto. Si posizionò in un punto alto di quel cumolo di macerie che era stato il mattatoio comunale: una feritoia sul muro gli offriva una visione perfetta.

Riconobbe da subito quella faccia mongola di Boris. Conosceva quell’uomo. Si può dire che fosse stato un suo collega, quando nei suoi primi tempi a Split lavorava come scaricatore. Era un portuale e più volte Sinisa lo aveva incrociato giù al porto; lavorava per un’impresa di logistica, tutto il giorno su quei muletti sotto il sole cocente a caricare e a scaricare container sulle navi cargo.

Boris era un Afgano, i tratti del viso un po’ orientaleggianti ne rilevavano la provenienza; Sinisa non aveva mai capito come e perchè fosse arrivato in Jugoslavia, ma non gliene era mai importato troppo alla fine. Quello che certamente sapeva di Boris è che fosse un completo inetto, per giunta inoffensivo; non sarebbe stato un problema per uno come lui neutralizzarlo. Più complicato era certamente ragionare con l’altro Tizio che invece non aveva mai visto prima.

Vide il compare di Boris affaccendarsi sulla 48, presto sarebbe partito un nuovo colpo e stavolta per Nicaor non ci sarebbero state speranze.

– Boris amico caro che succede?

esclamò Sinisa che nel frattempo gli si era parato davanti transitando per un uscita di sicurezza sul lato destro del locale.

– Stai indietro Sinisa, non sono cazzi tuoi.

– Non sono cazzi miei fintanto che non disturbate la mia raccolta di funghi.

– Lo sapete…I funghi sono come i pesci e i rumori, quelli forti, li disturbano, poi si nascondono nel sottobosco e io che mangio?

Intanto Sinisa fece per avvicinarsi ai due, che increduli indugiavano sul da farsi. Da un lato Sinisa ormai a due metri, dall’altro Nicaor steso a terra con le mani legate dietro alla schiena. Fu in quel momento che Nicaor, il quale nei minuti precedenti si era trovato in preda alla più ostinata disperazione di fronte a quella T che non sembrava offrire rimedi, capì che forse potesse esserci una piccola scappatoia e d’un tratto si ricordò di quello che era stato un tempo nei sobborghi di Medellin.

Dal basso fece partire un calcione proditorio dritto ai testicoli di quello che impugnava la 48. Lo vide accasciarsi su di un lato; la rivoltella cadde a terra a un centimetro dal suo piede; poi vide Sinisa che rapidamente si era portato su Boris ed incombeva su di lui in forma tentacolare, poi ancora Sinisa che spalancando la sua enorme apertura di braccia colpiva l’altro tizio con un fendente mortifero. Infine con un gesto a ritroso della gamba ritirò la 48 fra le sue cosce; era salvo.

Si trovarono in quel vecchio mattatoio, uno di fronte all’altro: Sinisa il Montenegrino e Nicaor il Colombiano.

– Vieni tirati su amico – gli disse Sinisa porgendogli per primo la mano e facendogli segno di alzarsi.

– A questi due penserò io dopo, non devi preoccuparti di nulla, non sono un pericolo per nessuno.

Boris e il suo complice erano stesi in terra, privi di sensi. La sportellata di Sinisa l’avrebbero accusata per diversi giorni a venire. Nicaor invece, riportava solo una piccola escoriazione sul lobo dell’orecchio destro e un grande spavento.

– Stasera starai in casa con noi, poi con calma ti troverò una sistemazione sicura, non devi avere nessuna paura.

Lo condusse verso l’uscita di quel casermone e raccolse la busta con i funghi che, nella concitazione di quei momenti, aveva lasciato cadere fuori dall’ingresso principale.

– A pranzo mangeremo questi; mia moglie Olga non si potrà certamente rifiutare di cucinarli per un ospite.

Nicaor non lo capiva bene, o almeno, non capiva molto bene il significato delle sue parole, ma da subito aveva colto nel suo modo affabile l’espressione di un linguaggio universale che non conosce barriere di etnia, idioma o religione: il linguaggio dell’amicizia. Non era tanto e non era solo perché lo aveva tirato fuori da un bel impiccio; era piuttosto per quello che leggeva nei suoi occhi e nel tocco rassicurante della sua mano sopra la sua spalla, che lo aveva riconosciuto amico. Ci si riconosce a pelle talvolta, attraverso quella chimica che in un baleno passa da occhio a occhio e da mano a mano: prima non si era niente l’uno per l’altro, dopo tutto.

Serie: Genio sovraumano


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Salvatore mi complimento per le tue doti da narratore, hai uno stile notevole, in certi passaggi in cui l’azione si fonde con riflessioni piú profonde mi ricordi Sven Hassel (il celebre romanziere della seconda guerra mondiale). Bravo!