L’amore mio negato
Aveva finito per sposare un uomo più vecchio di lei, la Rosa.
Il suo moroso di prima, con cui giovanissima aveva avuto una figlia, era tornato malconcio da Mauthausen alla fine della guerra. Ma, poveretto, non era per quello che non lo aveva sposato.
Dopo la buriana della guerra, l’era stada a lungo al sanatorio, mica si scherza con la tubercolosi… e la figlia era finita in via temporanea dalla nonna paterna che, siccome già durante il conflitto, l’era ciapàda a fa’ danee con una privativa nel centro di Milano, intanto che un figlio finiva in campo di concentramento e un altro andava fuori di testa perché l’era on poeta e anche omosessuale, aveva a sua volta affidato la nipote a una scuola di suore, e alla portinaia, che non avendo figli suoi, in definitiva, aveva dimostrato più affetto alla piccola dei suoi parenti.
Il nonno, dato disperso, non tornò mai dalla Russia. E la nonna, poi, si brucerà tutto, privativa compresa, per l’amore di un giovane spiantato, ma con un sacco di idee innovative. Forse troppo per l’epoca. Ma questa chi l’è on’altra storia.
Tornando alla Rosa, cosa c’avesse trovato in quest’uomo, che‘l pareva vecc giammò de giovin, ce l’eravamo chiesto tutti: amici, conoscenti e innamorati, lei che l’era inscì ona bella tosa!
È vero che non aveva studiato, ma era una cosa piuttosto comune: a tredici anni eri già a lavorare in filanda, dodici ore al giorno! e poi col fascismo e la guerra di mezzo… Ma la Rosa, oltre alla bellezza, dalla sua c’aveva la grazia, una semplicità che la rigida educazione aveva trasformato in un’armonia di garbo e leggiadria, insieme a un carattere deciso: doti racchiuse in un corpo statuario. Tutto questo le conferiva piena corrispondenza al fiore che avevano scelto per il suo nome.
L’Arturo veniva della sponda occidentale del lago Maggiore, dalle parti di Baveno, dove la madre gestiva una locanda. Anche lui, sbarbato, aveva avuto un figlio, da una donna che non aveva fatto in tempo a sposare ché il parto se l’era portata via. Il pargolo finì in Svizzera da certi parenti, mentre lui indossava la divisa nera della milizia. Il che lo portò dapprima a Milano, dòpo l’hann mandaa in confinaria, nella 29ma Legione Alpina di stanza a Pallanza, e di nuovo a Milano, dove stavolta conobbe la Rosa.
“Le Camicie Nere di frontiera sono in maggioranza ex combattenti delle regioni alpine, animate da uno slancio ammirevole, benché vivano tra privazioni e disagi. Né tormente, né geli, né intemperie attenuano il loro coraggio e la loro insonne vigilanza. Autentiche sentinelle della Patria e del Regime esse hanno dimostrato in ogni occasione alto spirito di abnegazione”[1].
Inscì el diseva l’Attilio Teruzzi, ma l’Arturo non era stato un combattente, non aveva mai sparato nemmeno una cartuccia e, per dirla tutta, i suoi compagni erano più che altro ona banda de barlafus… che dalle storie che contava, poi, non se la passavano così male.
Sarà stato il fascino della divisa, e chi lo sa…? La Rosa s’era invaghita de quell’omett de nient.
Lui non la finiva più di ciarlare delle sue esperienze in confinaria e lei pareva affascinata da quei racconti; a noi sembravano disperati come la propaganda del fascio quando la guerra volgeva al termine, ma si voleva far finta che de giovinezza ghe n’era ammò. Fatto sta che, in un istante, s’era scordata dei suoi amici.
E l’era compàgn che l’avess desmentegà anca mi, che dopo la guerra ero l’unica che l’andava a trovare al sanatorio, ché ‘l sò ganzo el g’aveva minga temp… Lei era felice di vedermi, ma era come se dovesse camuffare quella gioia parlandomi di lui; ricordandomi che adesso c’era lui e, in qualche modo, prendendo la distanza dalla sua amica, sapendo bene che per lei ero ben di più, o forse, proprio per quello.
Sulle panche di quei vagoni scassati, al ritorno dal nosocomio, che fuori dal finestrino scorreva la campagna lombarda, mi chiedevo dov’erano finiti quei giorni in cui ci confidavamo le nostre cose più intime, le nostre paure, con sincerità; mi aveva detto persino che suo fratello nascondeva nel camino un mitra di un amico partigiano. E mi aveva sfiorato con le mani che, non so come facesse, aveva lisce come il velluto. E in quel momento lì, non avevo avuto il coraggio dirle che l’amavo.
Era uno splendido giorno di primavera quando si sposarono. Io c’ero, tra pochi amici e conoscenti, e pensai che il proverbio “sposa bagnata, sposa fortunata” non fosse mai stato più vero.
La Rosa era bellissima, cont el sò vestidin che la sartina c’aveva sistemato a pennello. L’Arturo el pareva uno spaventapasseri vestì de la festa: la giacchetta coi manic curt e anche un po’ gobbo.
È normale, c’è chi piange ai matrimoni. Così, non mi ero vergognata troppo accorgendomi che avevo le guance bagnate e avevo pensato che, tra quelli con gli occhi lucidi, io ero quella che ne aveva più il diritto.
Poi, dopo il brindisi, l’Arturo rivolto ai commensali: «So nò se v’ho mai contaa de quella vòlta, quand che seri in confinaria…».
[1] A. Teruzzi – La Milizia delle Camicie Nere e le sue specialità, A. Mondadori Editore, 1933
Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Sposo la ‘fantasia’ di @Dea e immagino proprio quel finale li, l’unico che mi suona giusto.
La prosa è molto bella anche se, a mio avviso, c’è, in questo specifico caso, troppo stacco fra il dialetto e la lingua italiana. Mi spiego: la narratrice è una sola e risulta molto credibile nella forma dialettale. Quando invece si esprime in lingua italiana, forse lo fa in un’espressione che risulta troppo perfetta. Io mi sono immaginata che se una persona parla il dialetto, alla fine l’italiano non lo conosce proprio benissimo e quindi, qualche inciampo grammaticale o di forma le capita sicuro. Però prendimi con le pinze che, attorno a una storia così bella, ci puoi fare tutto quello che vuoi.
“E mi aveva sfiorato con le mani che, non so come facesse, aveva lisce come il velluto. E in quel momento lì, non avevo avuto il coraggio dirle che l’amav”
Ciao Paolo. Accanto alle tue narrazioni piratesche, quelle ‘milanesche’ sono le mie preferite. Questa è una storia dolce, mai raccontata e nemmeno sussurrata all’orecchio di chi, ‘sola’, meritava di ascoltarla.
Forse Rosa ha sposato un uomo insignificante perché per lei uno valeva l’altro. Il suo vero amore, all’epoca, era proibito. Bello anche l’uso del dialetto: mi è sembrato non di leggerlo il racconto, ma di ascoltarlo raccontato da una persona incontrata in una sala d’aspetto. Bravo, Paolo🙂
Ciao Concetta, son sempre lieto di ritrovarti a leggere i miei esperimenti. E credo che sia verosimile la tua chiave di lettura… purtroppo, i personaggi cui s’ispira la storia non sono più qui per poterglielo chiedere. Mi ha inorgoglito la tua considerazione sulla sensazione di ascoltare la vicenda raccontata in una sala d’aspetto, grazie davvero! 🙏🏻
La nostalgia di un amore insostenibile ed inconfessabile per l’epoca.
Una goccia salata nel profondo ed amaro mare dei rimpianti
Grazie, Gabriele, per il tuo tempo e la tua attenzione nella lettura. A presto
Ciao Paolo, un brano struggente ma bellissimo. La scelta di raccontare la storia attraverso lo sguardo di chi ama in silenzio è geniale. Sposta il focus dalla storia d’amore convenzionale al dolore dell’amore non corrisposto. Le espressioni dialettali, poi, creano un’atmosfera di verità e immediatezza che ti trasporta direttamente in quelle case, in quelle vite. Una scelta stilistica che dà anima e corpo alla narrazione.
Grazie molte, Tiziana, per il tuo apprezzamento. L’ho davvero gradito, come il tempo e attenzione dedicati alla lettura. Ciao, a presto
Una prosa che è poesia, l’uso del dialetto la rende quasi una melodia. Mi ha colpito il sentimento di chi narra, forte, dall’inizio alla fine. Si staglia, vero, senza preoccuparsi di essere impossibile, ferito, (forse) non ricambiato. Ama e basta. E piange, più forte degli altri, con quel diritto a soffrire che è solo dei cuori infranti. Hai descritto l’amore più difficile, quello che in cambi non chiede niente. Forse quello che dovrebbe essere sempre.
Sul finale, l’omett de nient prende parola e mi fa già sbadigliare. Spero vada a letto presto, e Rosa trovi una scusa per uscire. Magari per andare a trovare l’amica. Che nel frattempo ha trovato il coraggio.
(Perdonami ma è più forte di me, quando le storie mi catturano, la fantasia parte e mi invento i sequel).
Grazie per questa lettura!
Meno male (o forse è un peccato…) che via chat non mi si vede, ma ti giuro che, leggendo il tuo commento, sono arrossito. Il che vale un grazie enorme 🙏🏻 . Mi colpisce ogni volta la sintonia con cui riesci a cogliere ciò che mi emoziona scrivendo, in questo caso la capacità di certe persone di provare un sentimento così intenso… come dici tu: “quello che dovrebbe essere sempre”. Quanto al tuo epilogo, forse sognante, credo possa essere successo davvero, i personaggi cui la storia è ispirata sono reali. Un abbraccio, a presto
Ciao Paolo, il tuo racconto è molto bello e ”vivo” grazie all’utilizzo del dialetto. Molto bello davvero, complimenti ancora!
Ciao Alfredo, grazie per il tuo tempo e per il commento lusinghiero.
Ciao Paolo, mi ispirano sempre tanta simpatia le vecchie storie raccontate con un linguaggio ibrido o dialettale. Non ho capito ogni singola parola, peró ho intuito il senso. Sul nome di lei – Rosa – avevo già commentato, sbagliando racconto e autore. Dopo la prima lettura di “L’amore mio negato” (questa é la seconda), subito dopo, ne ho letto uno di Giuseppe Salemi, confondendo i nomi dei personaggi.😢
Ciao Luisa, e grazie per il tuo tempo. Spero che le parti dialettali non siano risultate troppo invadenti… ho sempre il timore, quando le utilizzo, di farmi prendere la mano. Per quanto attiene la confusione tra i personaggi, non sai quanto mi consoli sentirtelo dire! Saltellando da un racconto a un altro, a me capita spesso. Grazie e a presto
Capisco molto bene il protagonista del tuo librick
Ciao Kenji, grazie molte
Mi è piaciuta la voce , limpida e ferita, e quel filo di dialetto che dà carne ai personaggi. Dal mio punto di vista (opinione personalissima) porterei una scena in presa diretta (il treno dal sanatorio o il matrimonio) con due battute di dialogo, così l’albero genealogico e il contesto storico arrivano come eco di ciò che abbiamo già visto. Magari valuterei anche di inserire la citazione di Teruzzi dentro la voce di un personaggio (o come documento trovato) per non spezzare il flusso. Parere personalissimo, naturalmente. Meriterebbe un continuo.
Ciao Lino, Grazie molte per la tua lettura attenta e per i consigli, sui quali ci ragiono perché trovo che meritino un approfondimento. Quanto al continuo, questo di fatto è uno stralcio (più o meno autonomo) di un racconto più articolato che, però, temo non si presti per una pubblicazione a puntate o, quanto meno, che non credo sarei in grado di frammentare nella size da 1000 parole. Grazie ancora e a presto
Che delizioso racconto, Paolo! E che belle quelle frasi in lombardo a dare un’anima quasi contadina e, comunque, ormai lontana. Una perla, tra sentimenti umani e riferimenti storici, che va letta e riletta per gustarsela a fondo! Grazie!
Ciao Giuseppe, grazie a te per aver letto. E sono davvero contento che tu l’abbia apprezzato.
L’ho appena letto e mi ha trasmesso una profonda malinconia. Hai condensato in breve spazio una tragedia ordinaria dei tempi di guerra, quando le vite vanno un po’ come possono andare, mangiate sui bordi da tutto ciò che le attornia e che non ha pietà. Al centro rimangono una sconfitta e un amore che non avrà futuro (a differenza del fascismo): e forse per Rosa quell’amore poteva essere aria fresca da respirare, se mai l’avesse accettato. Un panorama dolente appena addolcito dal dialetto: il dialetto addolcisce sempre tutto, non so se sei d’accordo.
E in ultimo l’insopportabile pupazzo del fascistello di frontiera che anche il giorno delle nozze si gloria non si sa bene di che: ed è impossibile perdonarlo.
Ho molto apprezzato la voce narrante femminile che si svela via via e in generale l’intero racconto , che ha le impronte tutte tue di ironica e sincera partecipazione e che mi ha ricordato alcuni film della nostra migliore stagione. Un gran bel lavoro, secondo me.
Ciao Francesca, grazie per il tuo commento articolato e davvero gratificante. Condivido il punto dove dici “il dilaletto addolcisce tutto”, o quanto meno, stempera certe situazioni con la sua emozione; forse una sensazione soggettiva che deriva dal proprio vissuto. Per contro, ho temuto che mal si conciliasse con il punto di vista femminile, essendo oggi desueto soprattutto tra le donne… ma poi me ne sono infischiato. Grazie ancora e a presto