
L’ultima notte di Leila
Quando Leila trovò la forza per piangere, lo fece in silenzio e senza disturbare, esattamente come aveva vissuto. Chiuse gli scuri della cucina, si assicurò che la porta fosse sbarrata, si tolse le ciabatte e le ripose ordinate vicino al lavello. Poi si sdraiò, si coprì con la coperta di lana di sua nonna e pianse.
Lo fece a lungo, minuti o forse ore. Fuori si fece buio e le voci dei bambini che giocavano in cortile si zittirono. La vita continuava, ma non per lei. Leila si era fermata e, finalmente, aveva pianto.
Quando Marietto morì, lo fece annegando nell’acqua gelida del torrente in piena.
«Non si esce oggi, il tempo non ci promette niente di buono.» La voce di Leila era calma, ma risoluta. Non era il tipo di madre che sbraita per farsi ascoltare. Lei preferiva guardarti con quegli occhi accesi e fissi nei tuoi e allora Marietto sapeva cosa andava fatto e cosa no.
«Non farmela un’altra volta che te végn a sercàt e ti faccio fare la strada a calci in culo.» La voce ferma di Leila e le parole aspre non ammettevano repliche.
Quando Marietto morì, lo fece mentendo a sua madre.
«Vado a dormire.»
«E perché così presto? Non stai a ciaciarà un po’ con me?»
«No. Stasera non ne ho voglia. Sono stanco e vado a dormire.»
Marietto aveva gli stessi occhi di sua madre e la stessa fermezza. Paola, dall’altra parte del cortile, diceva che quei due le facevano paura.
«Non avete visto come ti guardano? A mé me paren ol diàul in persona.»
«Zitta strega» le rispondeva la Lupi sibilando fra i denti.«Che te se te l diàul. Quelle sono brave persone, puarétt. Che devono fare?»
E che dovevano fare loro due? La Leila se l’era cresciuto da sola quel figlio strambo e bellissimo. Fin da piccolo quelle maledette glielo guardavano e dicevano che era pronto per diventare un uomo. Lei lo sapeva che la chiamavano strega perché le sentiva dalla sua finestra mentre cuciva i bottoni ai pantaloni dei signori.
Ogni tanto accendeva la radio perché le piaceva ascoltare le canzoni e aspettava quelle di Claudio Villa, che quando cantava che l’amore era così grande, lei si sentiva pizzicare nello stomaco.
E allora le veniva in mente il suo Piero che era andato per non tornare. Va’ in malóra Piero! pensava Leila.
Però quando quelle stramaledette si sedevano fuori, lei spegneva la radio e le ascoltava e si rodeva dentro. Diventava rossa dalla rabbia e si pungeva con l’ago perché non faceva attenzione. Pensava per loro i pensieri più brutti fino alla morte schiacciate in strada.
E invece a morire era stato il suo Marietto, che glielo avevano riportato a casa sopra a un carrettino. Sembrava un angelo che dorme e lei non pianse e chiese agli uomini di portarlo dentro.
Lo fece mettere sul letto e li mandò fuori tutti. «S’ciagurài tücc quanti!»
Spogliò il suo Marietto e prese una spugna con l’acqua calda della stufa per lavarlo. Lo asciugò e gli mise il vestito del matrimonio, quello di Piero.
Pensò che gli stava davvero bene e che padre e figlio erano uguali. Alti uguali e grandi uguali. E come se lo ripeteva orgogliosa, che quasi le veniva da ridere dalla contentezza.
A notte fonda le bussarono alla porta perché erano preoccupati per lei. Leila li fece entrare ed erano una manciata di ragazzotti, gli amici del suo Marietto e poi la Lupi che lei era sempre stata buona con loro.
«Ti serve qualcosa comare?» le chiese la Lupi.
«Pödem védar al Marietto?» la implorarono gli altri.
Ma la Leila disse che no, non c’era bisogno di niente perché lei e il suo Marietto stavano bene.
«Dovreste vederlo adesso con il vestito da sposo del suo babbo, l’é propi bèl.»
E loro che insistevano e allora la Leila che li guardò con quegli occhi che già sapete com’erano. I poveretti non poterono fare altro e se ne andarono con la coda tra le gambe.
La mattina presto che era ancora buio, se ne andò con la coda tra le gambe anche il prete che voleva benedire al Marietto e parlare del funerale. A quello, la Leila non gli aprì nemmeno la porta. Il prete bussò e picchiò, e chiamò tante volte. Erano lui e il dottore dietro, spazientito che aveva mille cose da fare. Ma niente.
E tutti che erano usciti fuori in cortile e guardavano, parlottavano, gesticolavano.
«Tornate dentro, balurdi, che non c’è niente da guardare per voi!» urlò il dottore e allora via di corsa, tutti dentro gli usci a spiare dai buchi.
«Torno più tardi Leila e vedi di aprire la porta o la faccio buttare giù.» E se ne andarono.
E fu allora che Leila vide camminare il giorno dalle sue finestre. Lo vide illuminarsi, lo vide accendersi e poi piano piano spegnersi.
E fu allora che chiuse bene gli scuri della cucina e sistemò le sue ciabatte. Si sdraiò sul divano e si tirò addosso la coperta della nonna che era bella calda. E poi pianse.
Silenziosamente, lentamente, sommessamente. Pianse, e infine pregò una preghiera che ricordava perché l’aveva sentita una volta da bambina al funerale di un ragazzino, recitata dalla sua mamma.
L’aveva impressionata tanto che era andata dal prete e gli aveva detto di raccontarla ancora e poi tornare a farlo così tante volte che quello si era stancato e l’aveva cacciata via.
Così tante volte che se l’era ficcata nella testa.
Quando Leila trovò la forza per piangere, lo fece con una preghiera e poi si addormentò.
Signore,
Te che tutto vedi e senti,
Tu sai che bravo figliol l’era.
Mica uno che stava con le mani in man.
Avea le mani forti,
che sapevano lavorare senza dire niente,
e rideva, come se portasse il sole in casa.
Ora la campagna è muta,
e la terra mi pesa sul cuore.
Tienilo lì con Te, vicino,
ché io adesso non lo posso più toccare,
e il vuoto qui dentro non me lo leva nessuno,
né il vento, né il tempo, né la preghiera.
E quando la viene l’ora mia,
fammi il dono di rivederlo,
col viso pulito e la camìsa della festa,
come l’ho sempre ricordato.
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Mi ha colpito molto la dolcezza trattenuta e la dignità silenziosa di Leila. È un testo che ti entra dentro piano, senza troppi artifici, ma con immagini forti e precise: le ciabatte ordinate, la coperta della nonna, il buio che avanza fuori mentre lei si ferma dentro. Tutto sembra sospeso, come se il dolore avesse un suo ritmo lento e inevitabile.
E’ un racconto che commuove senza forzare: non piange per farsi vedere, proprio come Leila. E questa coerenza emotiva, secondo me, è la cosa più bella.
Ciao Cristiana, come mi capita spesso con i tuoi personaggi, avrei voluto saperne molto di più su Leila e su Marietto.
Racconti con delicatezza e rispetto il dolore di una madre, dosi benissimo l’uso del dialetto e, con la preghiera finale, dai davvero voce alla tua protagonista.
Complimenti!
Ciao Cristiana, la storia di Leila e di suo figlio Marietto è raccontata con la delicatezza che ritrovo in tutte le tue storie. Hai scritto un racconto che colpisce non per il dolore in sé, ma per il modo in cui viene trattenuto, controllato e infine liberato con un rituale struggente. Immagino e comprendo il dolore che può aver provato mentre veste il figlio. Ma la forza di Leila non sta nell’evitare il dolore, ma nel decidere come e quando affrontarlo, in un’ultima, affermazione di controllo sulla sua vita sconvolta.
La struttura circolare (dal pianto al pianto) è perfetta. In mezzo, c’è tutta una vita di resistenza, orgoglio e amore materno che si scontra con la crudeltà del destino e del pettegolezzo. L’uso del dialetto dà linfa vitale ai personaggi, donando loro autenticità e senso di una comunità.
La preghiera finale, poi, è meravigliosa. È l’urlo silenzioso di una madre che dice a Dio: “Tu sai che bravo figliol l’era”, e chiede non la salvezza dell’anima, ma il dono di “rivederlo, col viso pulito”, esattamente come lei l’ha lavato e vestito per l’ultimo viaggio.
Eh niente, Cristiana. La tua scrittura è impeccabile sempre, ma quando la scintilla ti coglie e crei all’improvviso, dai il meglio di te. Mi ha colpita la struttura di questo racconto. L’immagine iniziale e finale coincidono, nel mezzo un cerchio che si apre e si chiude, e chiude fuori il resto del mondo. La sensazione è che tutto si svolga lì dentro, l’intera vita, l’intero cuore, l’intera anima di questa madre e della sua famiglia. Un cerchio, come un mondo, che si chiude su stesso. Non ha bisogno e non chiede altro. Questa storia urla la sua assenza di seguito. Non c’è più nessun figlio, non può più accadere nulla, dopo. Come è scordato il prima, quando non c’era nessun ancora nessun figlio. È l’amore più grande in assoluto che una donna, se lo prova, possa avere. Non resta che chiudere le finestre – cosa ne sanno, di tutto questo amore, là fuori? un bel niente… – lasciare che vadano avanti da soli, con i loro pettegolezzi, senza capirci un accidenti, come hanno sempre fatto.
Bravissima ❤️
Cara Irene, grazie. Questo racconto nasce e finisce esattamente come si è voluto da sé strutturare e come è giusto che sia. Si chiude assieme a quelle persiane e tutto il resto rimane fuori, perché Leila non ha più bisogno di niente, o meglio, non ha bisogno di altro.
Nella sua casa si tesse il filo delle relazioni famigliari che la accompagnano e la tengono viva. Reciso quello, tutto il resto non ha più importanza.
Un abbraccio.
Sempre bello leggerti!
Grazie Kenji, sei molto gentile 🙂
“Ogni tanto accendeva la radio perché le piaceva ascoltare le canzoni e aspettava quelle di Claudio Villa, che quando cantava che l’amore era così grande, lei si sentiva pizzicare nello stomaco.”
Questa frase mi ha rievocato l’ immagine di mia madre, mentre ricamava o rammendava, seduta accanto a una grossa radio a valvole, in attesa di sentire la voce del suo cantante preferito: Claudio Villa.
Anche la mia nonna e la mia mamma lo facevano. Io credo che quello stile musicale abbia un valore in sé, per la sua oggettiva bellezza, ma anche un valore fortemente emotivo per la sua capacità di evocare ricordi in chi la ascolta.
Grazie e un abbraccio.
Bello, triste e intenso. L’ amore materno che diventa struggente per la perdita del suo unico figlio e forse unica ragione di vita. Un racconto a tratti poetico che sembra ispirato da una storia vera, sentita e narrata col sentimento vivo di una madre.
Il racconto mi è stato ispirato dalla lettura di un testo di un altro openiano. Nel suo caso, si parla di dolore paterno. Io, l’ho immaginato dal punto di vista di una madre.
Grazie 🙂
Un racconto straziante. Una madre che ha come unica ragione di vita suo figlio. Ma la vita è spietata e glielo toglie. Forse mi sbaglio, ma non credo che Leila sia sopravvissuta a quel dolore. I suoi gesti precisi mi fanno pensare di no, così come il figlio, di cui non si sa se è stato il fiume a portarlo via o se lui si sia lasciato portare. Bravissima, Cristiana.
Cara Concetta, ti ringrazio tanto per le tue parole e sì, credo che di un tale dolore una madre possa davvero morire.
Emozionante. Bello, bello bello. Volevi commuovermi? Ci sei riuscita.
Grazie Antonio e, in un certo senso, felice di averti commosso. Ogni tanto fa anche bene 🙂
Cristiana, voglio farti i miei complimenti per questo tuo racconto. Semplice, emotivo e che ben rimanda il dolore lancinante di una feroce perdita, accolto con grande dignità. Con una prosa tersa e asciutta hai detto tutto quello che conta in questo tipo di vicende tragiche. E proprio grazie all’uso del dialetto (lombardo?), che conferisce realismo e vena popolare ai dialoghi, mi hai portato col pensiero al Sud del Verga, quello delle “Novelle rusticane” e della “Vita dei campi”. La preghiera finale, poi, nella sua compostezza è la chiusura ideale di questo tuo lavoro. Bravissima!
Grazie Simone per aver colto la semplicità della narrazione che accompagna una vita altrettanto semplice. Il dialetto è quello della bassa lombarda.
Il lombardo lo avevo intuito. Mi aveva un po’ confuso l’uso del babbo ma in realtà non lo usiamo solo in Toscana, anche in Emilia-Romagna, nelle Marche e in Umbria, e a quanto pare nella bassa lumbard.
Un bel brano, Cristiana. Per connotare l’ambientazione hai messo assieme una serie di cartoline, alcune nitide, altre un po’ sbiadite dal tempo. E a proposito di tempo, quello che mi è piaciuto molto è quell’attesa che hai creato, il momento giusto. Quando, finalmente, la povera donna si lascia andare al pianto, unitamente a un riuale, affidandosi alle parole di un’altra madre con la quale aveva condiviso il dolore. Grazie davvero per la lettura
Grazie a te Paolo per il tuo bellissimo commento.
Un racconto lacerante e intimista, che non si ripiega mai su se stesso, ma è sempre proteso in una sua tensione verso i toni lontani di una modulazione arcaica, ma perennemente attuale. Incantevole la personificazione del giorno che si incammina, così il canto in filigrana della preghiera finale. Davvero toccante e ispirato in ogni sua parte, Cristiana, come la musica cristallina di un carillon.
Grazie Luigi per il tuo splendido commento che accompagna il testo come fosse una nenia.
La composta tristezza di una donna semplice ma dignitosa, che si abbandona alla morte dopo avere perso la propria ragione di vita, descritta con soave delicatezza.
Una cruda mattonata nell”esofago scagliata con gentilezza
Ciao Gabriele, scagliare crude mattonate con gentilezza è proprio quello che adoro fare. Ma sai che non avevo mai pensato a questa metafora? 🙂
Grazie davvero per aver letto e lasciato un bel segno.
Presumo che tu sia abile a lanciare cotali mattonate, con sapiente malizia, anche in contesti più ludici (ad esempio, ovviamente in ambiti coscientemente scherzosi, comunicando, per mero diletto, una freddura dirompente ad un uomo dopo averlo reso vulnerabile e scodinzolante con voce caldamente sinuosa). In questo caso, la mattonata arriva, inevitabilmente, in tutta la sua potenza, detonando, con un silenzioso boato, lo stordente dolore di una comare di provincia (l’uso del dialetto rende il tutto ancora più nostalgicamente ed amaramente realistico) talmente profondo e pandemico da non potere essere elaborato al punto da rendere il relativo decesso l’unica conseguenza possibile
Se mi sono spinto troppo oltre, mi scuso 🙂
Bene, bene. Dizionario Treccani alla mano, sto tentando senza successo la trascrizione in lingua del volgo di questo tuo criptico scritto tale per cui mi sta salendo l’emicrania. Ma non c’è d’avere paura perché il gruppo di comari che è qui con me mi supporta e sostiene con una manciata di mattoni in mano 🙂
Ma scherzi, Gabriele! Perché dovresti esserti spinto oltre? Anzi, mi sono divertita a leggere il tuo commento.
Ancora mille grazie 🙂
Se scherzo o meno non lo posso scrivere in quanto non ho la possibilità di rispondere ai messaggi sottostanti ,🤷
Comunque complimenti ancora Cristiana.
Buona serata
Un testo di grande e palpabile emotività.
Il dolore di Leila, represso, esplode con dignità e forza commoventi. La preghiera conclusiva è una chiusura perfetta e struggente per questo racconto sul lutto, la resilienza e l’amore materno. Un bellissimo lavoro ben scritto.
Grazie Gianluca, per la tua lettura e le bellissime parole.