Presenza
Serie: Una città di perdenti
Quelle stesse parole, Letho Deemer le aveva pronunciate in un freddissimo e luminoso sabato pomeriggio del marzo 1980, due anni esatti dalla morte della moglie, davanti ad una fotografia dai colori vivaci protetta da una sottile lastra di vetro incurvata, incollata ad una lapide la cui base affondava nella terra soffice del cimitero di Saint Jude a Looser, Pennsylvania. Ma questa volta non c’era stata alcuna domanda.
«Va meglio, Sarah.»
Aveva rivolto lo sguardo a terra con le mani affondate nelle tasche della giacca, calciando senza convinzione con la punta degli scarponi una montagnola bianca che era stata neve e che ora era un cumulo di ghiaccio, duro, difficile da scalfire nella sua superficie ostinata resa liscia dal sole.
«Mary sta meglio. Non me lo dice perché è combattuta tra il sollievo per il dolore che si attenua ed il senso di colpa che questo provoca in lei, ma io me ne accorgo e so che sei d’accordo se ti dico che ne sono felice. Penso che la cosa che le faccia più male sia il cominciare a rendersi conto con gli occhi di una ragazzina di 15 anni non più bambina di tutti gli ostacoli che si frapponevano fra te e lei, e che senza di te rimarranno per sempre lì dove sono. Parliamo spesso di te, anche se di solito lascio che sia lei ad iniziare il discorso. Sai, non voglio forzarla, voglio che si prenda il tempo che le serve, lasciare sedimentare sul fondo la sabbia che inevitabilmente rimestiamo ogni volta. Per vederci più chiaro attraverso il bicchiere la prossima».
Si strinse nelle spalle e si guardò intorno senza soffermarsi su un punto preciso. Il rombo di un aereo decollato dal vicino aeroporto locale si fece sentire in lontananza, trasportato dal vento che a tratti ne enfatizzava il suono e a tratti tentava di nasconderlo.
«Non so se sto facendo bene, ma faccio del mio meglio. E poi dovresti vederla ora. È cambiata molto ultimamente, sai? Quasi non la riconosceresti. Voglio dire, è sempre lei, però qualcosa nel suo carattere, non so… si è aperto. Non ti saprei nemmeno dire quando è successo. So solo che un pomeriggio è entrata in casa, io ero in cucina e la sento che urla “Papà, siamo arrivate!”. Io penso “Come siamo? Siamo chi?” e non faccio in tempo ad aprire bocca per chiederglielo che vedo spuntare Mary dal soggiorno che mi dice “Questa è la mia amica Elisabeth, ma mi ha già detto che se vuoi puoi chiamarla Liz. Io la chiamo Liz”. È una compagna di scuola, è arrivata da Harrisburg lo scorso anno. Suo padre fa il medico e si sono trasferiti qui, ma non chiedermi perché gli sia venuta questa strana idea» aveva detto Letho accennando una risata. «Vanno molto d’accordo, ho anche conosciuto i suoi genitori. Lui si chiama Ed e sua moglie Doreen, è una maestra elementare. Mi hanno invitato una sera a cena da loro, eravamo noi adulti e le ragazze. È stata una bella serata, mi sembrano gente a posto, credo che ti sarebbero piaciuti.»
Letho aveva inspirato a fondo, e quando aveva esalato il fiato gli era uscito dalla bocca in una nuvola densa che era rimasta ferma a mezz’aria un paio di secondi prima di essere spazzata via da una folata di vento. Poi aveva tirato fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di Chesterfield, lo aveva aperto e se ne era infilata una tra le labbra.
«Sì, lo so, non serve che dici niente, c’è già tua figlia che mi fa una testa così: ho ricominciato a fumarne un paio ogni tanto. La sera sotto il portico, e qui. Fartelo vedere mi sembrava il modo migliore per dirtelo, senza girarci tanto intorno». Aveva estratto dalla tasca una bustina di fiammiferi, aveva aspettato un momento in cui il vento era in pausa dal lavoro e ne aveva acceso uno sfregandone la capocchia contro la striscia ruvida alla base, avvicinandolo immediatamente alla sigaretta. L’odore di zolfo gli aveva riempito le narici, ed il tabacco aveva preso subito a sfrigolare. Era stato colto da un piacevole, leggero capogiro, che lo aveva accompagnato durante le parole che erano seguite.
«Quanto a me, beh, ecco, c’è anche un’altra cosa che ti volevo dire. Io, vedi… il fatto è che ho deciso che verrò a trovarti un po’ meno spesso. Questo non vuol dire che non avrai più i tuoi fiori, o che non passerò più. Solo non come ho fatto finora. E non sto dicendo che mi sia pesato venire qui da te in questi due anni, tutt’altro. Ma penso che adesso sia giusto così, che sia arrivato il momento di continuare con la mia vita. Tu non ci sei più e Dio solo sa quanto questa cosa mi faccia soffrire, chiediglielo quando lo incontri se non è vero. Ma io sono ancora qui, non so ancora per quanto ma ci sono, e devo, voglio dedicarmi anima e corpo a Mary. L’ho trascurata Sarah, sento di averlo fatto. Mi sono infossato nel mio dolore come si fa quando ci si ostina a sedersi su una poltrona sdrucita ma comoda, che ha assunto la forma perfetta del nostro didietro, e da quella poltrona non ci si alza più se non nella pausa fra un quarto e l’altro, per prendere un’altra birra. Poi finisce la partita e ne comincia sempre una nuova, e la giornata se ne va così, mentre fuori c’è il sole. Mary ha ancora bisogno di me, non è più una bimba e proprio per questo è in un momento troppo delicato della sua vita per lasciare che se lo gestisca da sola alla meno peggio mentre io ho la testa da tutt’altra parte. Anche se quella parte sei tu. Volevo dirtelo di persona.»
Si era baciato indice e medio della mano sinistra e aveva posato le due dita sulla superficie della fotografia, e con la stessa mano aveva carezzato la parte superiore della lapide.
«Ti amerò sempre ranocchietta mia. Ciao Sarah.»
Poi si era voltato, incamminandosi senza fretta verso l’uscita.
Serie: Una città di perdenti
Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Colpisce quanto sia difficile smettere di aggrapparsi al dolore. Un racconto che sa di rinascita.
Vero, non si riesce mai facilmente a staccare le mani dalla presa. Grazie per la lettura Maurizio.
Sempre gradito leggerti!
Sempre gradito che tu lo faccia Kenji. Grazie!
Mi hai fatto riflettere su quanto sia più facile, (e meno doloroso, paradossalmente) continuare a soffrire piuttosto che tornare a sorridere.
Un bellissimo ritorno alla vita.
… e ti è venuta una riflessione bellissima. Grazie per avermela detta!
“Mi sono infossato nel mio dolore come si fa quando ci si ostina a sedersi su una poltrona sdrucita ma comoda, che ha assunto la forma perfetta del nostro didietro, “
Bellissima
Grazie!
Mi fai inumidire gli occhi. Vado a trovare i miei vecchi e parlo con loro come se fossimo a tavola, quindi, il dialogo di Letho con la moglie non solo lo capisco, lo interpreto con la mia voce. Hai una mano delicata e incisiva e non è un ossimoro: usi la dolcezza delle parole per scolpire personalità e concetti. Hai il dono della migliore affabulazione, Roberto, e nel leggere i tuoi racconti partecipi alla storia. Grande!
Accidenti a te Giuseppe, sei tu che mi fai inumidire gli occhi, e qua al lavoro è ben difficile raccontare che è colpa delle cipolle. Grazie perché ci metti sempre il cuore nei commenti, e così facendo arrivi a quello degli altri.
“Non so se sto facendo bene, ma faccio del mio meglio” e “Tu non ci sei più e Dio solo sa quanto questa cosa mi faccia soffrire, chiediglielo quando lo incontri se non è vero”. Evidenzio solo queste due frasi, ma ho amato ogni singola parola pronunciata da Letho.
Ciao Roberto, hai scritto in dialogo di una dolcezza e bellezza incredibile. Questo padre e marito merita un applauso e tu con lui.
Cara Melania, non sai quanto i tuoi apprezzamenti mi rendano orgoglioso, tu che stai scrivendo una storia come Lascia che passi la notte. Ti ringrazio qui per questo commento e per l’altro.
L’inizio è davvero forte: il parallelismo tra la “stretta gentile” iniziale e il monologo sulla lapide è toccante e stabilisce subito l’emozione del racconto. La scelta di Letho di concentrarsi sul futuro con Mary è credibile e commovente.
Grazie Mariano, è bello che tu ti sia soffermato su tutti questi aspetti. Grazie davvero.
Grazie Teresa, sei molto gentile. Non ti preoccupare, la lettura deve essere un piacere e uno deve fare quello che riesce in ragione dei propri impegni e dei propri gusti. Ciao!
Se non sarà troppo lunga, la leggerò fino alla fine. Domani mi recupererò la prima parte, per ora mi basta il riasunto, grazie per questa storial. Oltre a farmi molto piacere e a commuovermi sai cos’altro hai ottenuto? Mi hai fatto rimpiangere che, a meno che io non decida di riprovare a scrivere una serie (non so: l’ultima volta ho toppato alla grande il tentativo), e forse neanche in quel caso, non riuscirò mai a mettere in un racconto postato qui tutte le descriziioni, sensazioni ed emozioni che vorrei (ammettiamolo: è molto stringente il limite di mille parole, tu sei riuscito comunque a farcela qui, ma io? vedremo…)