Ritorno alle origini

Buonacosa Diotaiuti non era il suo vero nome, forse non ricordava più neanche lui che in realtà si chiamava Gerardo. Come saggio amministratore del Comune e del Contado Jesino, aveva scelto di farsi ricordare dai propri concittadini con un nome che fosse al contempo un plauso e un augurio. E tutta la popolazione lo amava per la funzione pubblica che ricopriva. Non avrebbe mai immaginato che l’Imperatore avesse risposto al suo invito. Quando aveva appreso che Federico era in zona per una campagna tesa a riconquistare i territori delle Marche acquisiti dalla Chiesa, gli aveva inviato un messaggio: “La città di Jesi, che vi ha visto nascere, rinnova la sua fede ghibellina e vi attende per ospitarvi con tutti gli onori.” L’imperatore Svevo aveva risposto con molta semplicità, usando il plurale maiestatis: “Jesi è la nostra Betlem. Verremo volentieri a visitare il suolo che ci ha dato i natali.” E ora che osservava le evoluzioni del falco da cui Federico quasi mai si separava, non credeva possibile che l’episodio che stava vivendo fosse reale. Magari era solo frutto della sua immaginazione.

Il regale volatile scese in picchiata verso il suo altrettanto regale padrone. Con un frullo d’ali, rimase sospeso, quasi immobile, poche spanne al di sopra della mano guantata di Federico. Con eleganza incredibile, i movimenti rallentati in maniera da lasciare chiunque a bocca aperta, discese fino a stringere gli artigli intorno al guanto del suo Signore, che non esitò a ricompensarlo con un bocconcino di carne cruda e poi infilargli il cappuccio sul capo. L’imperatore non poteva fare a meno della sua battuta di caccia con il falco e, quando aveva notato che la piana dell’Esino, a parte i piccoli centri abitati, era quasi del tutto ricoperta di fitti boschi, si era rammaricato, perché non erano luoghi per far levare in volo i suoi fedeli rapaci. Ma il magistrato jesino, colui che lo aveva invitato, era stato bravo e lo aveva condotto in un’altura al di là del paese di Vitodonum . Risalendo ancora la collina si usciva dal bosco di querce castagnole, guadagnando il castello dell’Orgiuolo , che dominava un ampio altopiano erboso. Aveva osservato, insieme a Buonacosa, il falco allontanarsi, fin quasi a divenire un puntino lontano, in direzione del mare, di cui si poteva scorgere la marcata linea azzurra, per poi far ritorno veloce. Nonostante la sua condizione regale imponesse una scorta armata, Federico aveva chiesto di essere accompagnato solo dal Magistrato perché, quando era con i suoi uccelli, non amava la compagnia, desiderava essere pressoché solo con loro. Già la presenza di Buonacosa era qualcosa di troppo, ma non poteva farne a meno, data la sua scarsa conoscenza del territorio. E non aveva avuto torto ad affidarsi a lui, che aveva subito capito dove doveva condurlo.

«Mi complimento con voi, messere! Data la natura del luogo, disperavo di poter far involare uno dei miei falchi!»

«Le vostre parole mi riempiono d’orgoglio, Vostra Maestà! Spero che i miei concittadini sappiano destare in voi gli stessi sentimenti di benevolenza, quando li incontrerete oggi nella pubblica piazza. Anzi, mi rammarica dirvelo, ma credo sia giunta l’ora di rientrare verso Jesi, o faremo tardi per la cerimonia a voi dedicata.»

Tornando ad attraversare Vitodonum, Buonacosa rivolse di nuovo la parola all’Imperatore.

«Sapete che si dice di Voi, Vostra Maestà, in questi luoghi? Che voi non siate il vero figlio di Re Enrico e di Costanza d’Altavilla. Si dice che vostra madre fosse vecchia e sterile e che, per dimostrare di aver dato alla luce un erede della casata Hohenstaufen, abbia fatto rapire un bambino appena nato in una famiglia di porcari e lo abbia presentato a tutti come frutto del proprio ventre:»

«Davvero?», fece Federico con noncuranza, esibendosi in un gesto della mano avanti al proprio volto, come per scacciare una mosca fastidiosa. «Sì, certe voci sono giunte anche alle mie orecchie. Invidia, tutta invidia, mio caro. Certa gente crede di far passare storie inventate come sacrosante verità. Ma la nostra mente illuminata sa discernere il vero dal falso. E queste affermazioni sono false.»

«Com’è vero che voi siete un vero Imperatore, e un grande uomo, mio Signore!», concluse Buonacosa, tornando in silenzio e spronando la sua cavalcatura al galoppo.

Il Magistrato, per far bella figura, avrebbe voluto far innalzare un arco trionfale in marmo, con tante belle figure, ornato di statue, guglie ed epitaffi, ma il tempo a disposizione era troppo poco. Nessuno scultore si era dichiarato disposto a realizzare l’opera. Così Buonacosa aveva messo al lavoro un falegname, che in pochi giorni aveva costruito, tra l’antico Cardo e Piazza San Giorgio, una costruzione lignea a tre archi a sesto acuto, quello centrale più alto, quelli laterali di altezza inferiore. Da un lato e dall’altro l’opera era stata del tutto decorata con disegni colorati. In alto garrivano gli stendardi della città di Jesi, raffiguranti il leone rampante su fondo rosso. Con tutta probabilità, l’Imperatore non si sarebbe neanche accorto che l’arco trionfale era di misero legno. E così fu, con grande soddisfazione del Magistrato, che stava giungendo verso la Piazza insieme al seguito imperiale. Nell’ultimo tratto del Cardo, Federico spronò la sua cavalcatura e guadagnò la piazza attraversando l’arcata centrale. Il manto d’ermellino sulle spalle e la corona ad adornare il capo, in sella a un elegante destriero nero, Federico fu accolto dalla cittadinanza jesina assiepata sotto le mura della Rocca, che delimitava tutto il lato orientale della Piazza. Giovani ancelle iniziarono a cospargere il suolo di coloratissimi petali di fiori, formando un tappeto dall’arco fin al sagrato della chiesa di San Giorgio, dove era stato realizzato il palco da cui l’Imperatore si sarebbe rivolto ai cittadini della sua città natale. Mentre il suo seguito guadagnava la Piazza attraverso le arcate laterali, già Federico aveva raggiunto il palco. Buonacosa faticò a farsi largo tra la folla, per poter raggiungere il suo illustre ospite ed essere al suo fianco prima che iniziasse a declamare il suo discorso. Osservò Federico, persona di grande magnanimità d’animo, lanciare il suo falco in alto per prendere tempo, permettendogli di sistemarsi a dovere. La folla acclamava. Ma spettava a Buonacosa presentare l’Imperatore alla cittadinanza, prima che egli prendesse la parola.

«Natus est hic nobis Federicus Secundus Imperator, semper Augustus et Aesinae patriae pater!»

Le ovazioni si fecero ancor più evidenti. L’Imperatore prese alfine la parola, esprimendosi non in latino, ma in lingua volgare.

«Questa è la nostra Betlem, questa piazza ci vide nascere. Desideriamo ricompensare questa città, sia per averci permesso di venire alla luce, sia perché il suo popolo ha rinnovato nei nostri confronti la sua fede ghibellina. Potremmo far realizzare un braccio di mare fin qui, in modo che Aesis possa avere un porto tutto suo.»

Qualcuno tra la folla acclamò entusiasta, ma le voci che si levarono non furono numerose.

«Oppure potrei far ottenere a Aesis il titolo di Città Regia.»

E a queste parole la Piazza esplose. Buonacosa era soddisfatto. Il titolo di Città Regia escludeva il Comune dal pagamento della maggior parte dei dazi e delle tasse. Da quel giorno in poi, l’economia cittadina sarebbe divenuta ben più fiorente. Notò l’Imperatore osservare gli stendardi che ornavano sia le guglie dell’arco trionfale, sia le mura della rocca.

«Sai ricamare, tu?», chiese Federico a una delle ancelle che avevano tappezzato il suolo di fiori. La giovane annuì. «Allora vai, prendi una di quelle bandiere e ricama una corona sopra la testa del leone.»

In breve tempo, la ragazza realizzò ciò che la Maestà Imperiale le aveva chiesto, consegnando il vessillo modificato nelle sue regali mani. Federico dispiegò lo stendardo e lo mostrò alla cittadinanza intera. E fu un tripudio di grida e di colori. Federico era con la piazza, e la piazza era con Federico. Fino a che, consegnò il falco al maestro d’armi del suo seguito, scese dal palco e balzò sul suo destriero, riattraversando l’arco e guadagnando il Cardo senza neanche più voltarsi indietro.

È un imperatore, pensò Buonacosa, ha già concesso troppo di sé a questa città e al suo popolo. Chiamò il falegname che aveva realizzato l’arco trionfale.

«Abbattete quel vostro manufatto. Non vorrei che cadesse in testa a qualcuno. È già un miracolo che abbia resistito per l’intera giornata!»

Il giorno successivo Jesi era ancora in festa. Tutti gli stendardi erano stati modificati, con la corona in testa al leone. Uno scultore aveva abbozzato una statua di Federico, con lo scettro in mano, la lunga tunica e un leone prostrato ai suoi piedi. Un pittore stava dipingendo su tela una figura regale, la corona in testa, il manto d’ermellino, un benevolo leone acquattato sotto il suo scranno e lo sguardo rivolto alle torri e ai campanili della città di Aesis. Della visita di Federico II alla sua Betlem sarebbe rimasta memoria per i secoli a venire.

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Discussioni

  1. Ricordavo che lo Stupor Mundi era nato a Jesi, ma non sapevo la vicenda di Buonacosa Diotaiuti, che (sono andato a chiedere a google) è esistito realmente, e risulta esser stato il primo sindaco Jesino. Bel racconto, una piacevole versione romanzata della storia, con un plauso particolare per la descrizione del volo del falco!

  2. “La città di Jesi, che vi ha visto nascere, rinnova la sua fede ghibellina e vi attende per ospitarvi con tutti gli onori.””
    “Io, ghibellino che son io, guelfi in casa non ne ho…” (cit. Bardo Magno) 🙂

  3. Il racconto è ispirato a quanto affermato dallo storico Pietro Grizio, che riporta, nel suo “Ristretto delle istorie di Jesi”, come nell’anno 1216 Federico II sarebbe tornato a Jesi perché di passaggio per la Marca al fine di riconquistare territori sottratti dal Papa all’Impero: accolto con straordinari onori, egli avrebbe in quell’occasione adornato il Leone, simbolo della città, di una
    corona reale.