Tartarughe (2)

Serie: L'Urlo Muto delle Ombre


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Tartarughe - 2 Marco deve lasciare casa sua per due settimane, ma chi si occuperà delle sue tartarughe? Intanto il sole cocente di agosto arroventa la pianura...

Quando Marco si affacciò alla soglia della camera da letto dei genitori, suo padre stava preparando i bagagli. “Marco, mi faresti un piacere?” chiese soppesando due borse da viaggio.

“Dimmi, papà.”

“Prendi questa e mettila nel baule” disse porgendogli la borsa più leggera.

“Papà?”

“È troppo pesante?”

“No, no…”

“Stai bene, Marco?” domandò il padre notando l’espressione del figlio. “Questo faccino…

“Non sei contento di partire dai nonni?” chiese. Poi capì, e le sopracciglia gli scattarono all’insu, come se una lampadina si fosse accesa nella sua mente.

“Hai ragione” disse in tono di scusa. “Ieri ho parlato con Gastaldo… si occuperà lui delle tue tartarughe.”

Marco indugiò interpretando quelle parole, ma soprattutto il tono con cui le aveva pronunciate. Non riuscì a scacciare l’impressione che nemmeno suo padre fosse convinto della sua stessa dichiarazione.

“Gli hai spiegato cosa c’è da fare?” mormorò Marco.

Il padre iniziò ad elencare con le dita: “Acqua nuova ogni giorno; insalata nuova ogni giorno; pulire il guscio ogni due giorni.” Sorrise. “Ho dimenticato qualcosa?”

“Pulire il guscio con una spugna morbida.”

“Oh, ma certo” disse. “Senti, perché non glielo dici tu? Anche se non credo che penserebbe di usare una spazzola di ferro.” Se voleva suonare divertente, non ci riuscì. Marco si rabbuiò.

“Dai che sto scherzando” disse arruffandogli i capelli. “E adesso sbrighiamoci. Non vorrai che la mamma mi tiri le orecchie” disse ammiccando.

Marco annuì in silenzio. Tutti che lo rassicuravano, tutti che gli facevano l’occhiolino. Eppure Gastaldo non gli piaceva. Per nulla. Se ne stava tutto il giorno stravaccato su quella vecchia sedia cigolante nel suo lato del cortile comune, fumando e sputando per terra, e lanciando occhiatacce oblique alle spalle di chi attraversava il cortile, come se gli desse fastidio la loro presenza.

In effetti, Marco aveva interpretato alla perfezione i segnali che sua madre gli aveva inconsciamente svelato, poco prima. Appena giunti alla casa nuova, successe una cosa. Sulla facciata principale della casa, nel punto in cui una linea immaginaria divideva le due proprietà, erano installate due prese per la corrente (una per casa). Un giorno di sole suo padre aveva deciso di falciare l’erba del prato. Aveva frugato tra gli scatoloni del garage rinvenendo il tosaerba elettrico – quello a benzina era stato rottamato su richiesta di Marco. Giunto alla presa di corrente per collegarvi il caricabatterie, la trovò occupata da una spina, e un cavo serpeggiava fino in casa di Gastaldo. Il padre e il vicino si erano chiariti velocemente, e così non se ne era più parlato. Una sera però Marco aveva origliato una discussione tra mamma e papà. Lui sosteneva che Gastaldo avesse usato la loro corrente per chissà quanto tempo senza che se ne accorgessero; Lei gli aveva risposto che era un paranoico.

Pensando, Marco camminò fino al retro dell’auto e posò la borsa. Stava tornando in casa quando vide Gastaldo. Sedeva su quella vecchia sedia in plastica, mangiandosi le unghie e sputandole sul cemento. Non si accorse di Marco che si avvicinava.

“Signor Gastaldo?” chiese timidamente.

“Dimmi” brontolò subito l’altro, posando lo sguardo sul bambino. Trafficò con un pezzo di unghia incastrato fra i denti, lo estrasse e lo osservò tenendolo tra pollice indice. Con uno scatto dell’indice lo lanciò lontano.

“Allora?” ripeté Gastaldo.

“Volevo dire,” riprese Marco, faticando a guardarlo negli occhi per più di un istante, “che i gusci vanno lavati con qualcosa di morbido.”

Gastaldo lo scrutava, lo sguardo vuoto e la bocca contorta in una smorfia. Marco ricambiava lo sguardo fissandolo negli occhi, e gli sembrò di vedere in essi qualcosa di viscido e selvaggio. Qualcosa che aveva già visto ma non riusciva a ricordare.

“Di che stai parlando?” brontolò Gastaldo.

Marco deglutì. “Delle tartarughe” mormorò.

“Ah” sbuffò Gastaldo tornando alle sue unghie. “Ma è ovvio.” Il suo volto si contrasse in un sorriso malizioso, e allora Marco ricordò a cosa gli sembrava che assomigliasse la sua faccia. Una volta al telegiornale avevano dato un servizio sul disagio dei ratti nelle città, e sullo schermo erano state trasmesse alcune scene ritraenti gli abitanti del sottosuolo delle metropoli. Il cameraman aveva ripreso un ratto dalle dimensioni di un gatto adulto aggirarsi in un vicolo, ravanando tra i rifiuti. Il topo si era voltato e, come infastidito dalla presenza umana, si era alzato sulle zampe posteriori guardando dritto nella telecamera. Il suo muso era lungo – proprio come quello di Gastaldo – e ai lati del busto peloso spuntavano due zampette (sembravano quelle del suo t-rex di plastica) dalle unghie lunghe come artigli. E in quel momento, a Marco sembrò di trovarsi di fronte quel sorcio, solo molto più grande.

Gastaldo continuava a guardarlo con quel ghigno sulla bocca, divertito dalla sua incertezza. “Una spugna morbida” ripeté, poi sogghignò.

“Credi che avrei usato una spazzola di ferro?”

* * *

Più tardi, i genitori di Marco lo stavano aspettando in macchina con il motore acceso.

“Stiamo partendo!” gridò sua madre dal finestrino dell’auto.

“Guarda che ti lasciamo qui!” aggiunse suo padre infilandosi gli occhiali da sole.

“Un momento, arrivo!” rispose Marco, e si sbrigò a contare le tartarughe.

Dieci in tutto. Nove piccole e una grande. 

Serie: L'Urlo Muto delle Ombre


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Discussioni

  1. Hai creato una tensione palpabile grazie ai diversivi delle unghie e dei ratti. Il bambino che indugia, il vecchio che sogghigna, il tempo che sembra rallentare fra una frase detta fra i denti e l’altra accompagnata da un ghigno sinistro. Non presagisco niente di buono. Il racconto si regge benissimo sul centro di tutto, il bambino, e sui suoi tentativi di relazionarsi al mondo degli adulti, di farsi ascoltare. Dietro alle tartarughe, come in ogni tuo racconto, c’è molto di più. Sempre bravissimo.