Uomini vuoti.

Serie: Cyberfobia - capitolo 1


Da quanto tempo era diventata così indifferente?

Da quanto aveva smesso di vivere da umana ed aveva invece, iniziato a vivere come un topo?

Jutta non voleva realmente sapere che cosa vi fosse dentro quel contenitore, ma sapeva che nella sua mano aveva un jolly, qualcosa che presto le forze dell’ordine avrebbero cercato senza sosta e tanto le bastava.

L’interno di quel mini-frigo per lei, rappresentava una chiave per la sua libertà ed anche se sapeva a che tipo di pericolo aveva esposto sé stessa e probabilmente anche la sua famiglia, anche se sapeva che avrebbe vissuto con l’ansia di essere trovata ed anche se era consapevole del fatto che sarebbe potuta finire molto male per lei, si sentiva piena di nuove energie nonostante il fiatone stesse ancora scemando: aveva qualcosa tra le mani, non si sentiva più un vuoto a perdere.

E soprattutto, si sentiva nuovamente umana, di nuovo in grado di intendere e di volere.

Dopo essersi assicurata che quel suo tesoro fosse ben nascosto da qualche straccio e da un mobile rotto, mentre ella tornava al suo appartamento prima attraverso i lunghi, vuoti ed umidi corridoi delle cantine e poi su per le scale del palazzo dove dimorava, continuò la sua riflessione.

Perché avevano smesso tutti di essere umani?

Perché tutti vivevano come degli automi, soprattutto in quell’infernale dopoguerra e dopo essere rimasti in così pochi in vita sulla Terra?

Avrebbero dovuto gioire tutti del fatto di essere riusciti a salvarsi dai più grandi bombardamenti nucleari mai visti al mondo, avrebbero dovuto tutti prendere coscienza di ciò e provare a ricominciare insieme, ad essere finalmente una comunità, a vivere per costruire qualcosa insieme, per lasciare finalmente un messaggio, un lascito di storia positivo su quel pianeta che tanto aveva sofferto a causa loro…

Invece tutt’intorno a lei, ogni cosa si stava bloccando e marciva alla velocità della luce.

Una volta girata la chiave nella serratura e liberato Atum della sua maschera antigas e del guinzaglio, ella gettò a terra il pesante zaino con all’interno le provviste mensili che aveva recuperato dal locker e constatando che non vi era nessuno in casa, dopo aver fatto mangiare il giovane meticcio che nonostante le infinite camminate con la padrona, aveva sempre energie da vendere, Jutta tolse il volume al televisore che non poteva essere spento, poi si mise a sistemare le poche provviste nei mobili semi distrutti nella credenza della cucina: un tempo, quel luogo era stato con tutta probabilità una abitazione carina che lei si immaginava con tende colorate alle finestre, mosse da brezze primaverili leggere, odore di verdure cotte al forno, mattonelle dipinte a mano,banconi in legno e un piccolo monitor della tv appeso con un gancio in un angolo in alto di quella cucina, impostato su un canale musicale…

Jutta scosse la testa e mentre scioglieva i capelli castani dalla coda che portava sempre per essere più comoda nei lunghi cammini che doveva fare ogni giorno per arrivare al mercato nero, liberò anche il proprio viso da quella maschera antigas – che ormai era da cambiare dal momento in cui i filtri dell’aria non funzionavano bene e la lasciò cadere a terra, andando infine a massaggiarsi la nuca gonfia per lo sforzo di aver trasportato tutto quel peso da sola.

Si avvicinò a quella grande finestra semi-distrutta davanti alla quale passava tante ore della sua esistenza ed emise un udibile sospiro avente una nota di disperazione.

“Eccolo qui, il sogno che vorrei”, pensò sarcastica tra sé e sé, osservando il paesaggio desolato.

Niente colori sgargianti, nessun suono che potesse anche vagamente rassomigliare a quello di una melodia, nessuno con cui scambiarsi un sorriso, niente di niente.

Sebbene Jutta si trovasse al quinto piano di altezza e quindi non sarebbe mai riuscita a vedere i dettagli dei volti delle persone che camminavano intorno al palazzo o verso l’hub di ritiro che poteva intravedere in lontananza, non le serviva affatto un binocolo per sapere cosa fosse ricamato su qui volti spenti: rughe, macchie della pelle, sopracciglia incurvate, espressioni di rabbia, di dolore o di sconforto…

Una volta alla radio, il poeta ermetico aveva preso il titolo di una poesia di T.S. Eliot per trovare una rassomiglianza che vedeva nei volti dei sopravvissuti e questa portava il nome di: “Uomini vuoti”.

Jutta si domandava se potesse esistere un paragone più azzeccato di quello e la risposta della sua mente era sempre un sonoro “no”.

Ma non smetteva mai di sperare.

Anche se tutto intorno a lei, pareva essersi arreso alla mera sopravvivenza.

Anche se tutto taceva.

Di solito, Jutta vedeva i suoi cari solo di sera, perciò nell’arco della giornata si prodigava nel cercare di tenere tutto in ordine e di far trovare loro dei pasti caldi al loro rientro a casa: era una cosa che doveva fare perché mentre loro lavoravano per conto di una fabbrica appena fuori dai distretti, il lavoro di Jutta era quello di cercare provviste, di cercare scambi e baratti vantaggiosi al mercato nero, di restare sempre informata sulle nuove disposizioni del Governo Ombra, di occuparsi delle riparazioni in quell’appartamento semi distrutto, di mettere del cibo commestibile in tavola e soprattutto di cercare di essere il più silenziosa possibile, di non portare mai un problema in casa e di non essere mai una preoccupazione per la madre ed il fratello.

Serie: Cyberfobia - capitolo 1


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