Senza Marta.

(Ma quegli occhi, Marta, io me li ricordo.)

Marta mi torna nei pensieri tante volte quante sono le ore del giorno.

Scruto i suoi lineamenti nei visi della gente, senza trovarli.

Mi manca l’aria, di lei non c’è traccia.

Di anni ne sono passati nove.

Non ci sarà altro tempo. Senza Marta.

Ho steso la sua biancheria al sole, lo faccio ogni settimana, in ogni stagione. Presto se è inverno, approfittando del sole timido; d’estate a qualunque ora. Lo faccio per cacciarne via l’odore e perché sia tutto pronto caso mai tornasse. Sono troppo piccoli quegli abiti, non le starebbero più: stretti sui fianchi e corti fino al ginocchio. Marta ha sempre avuto delle ginocchia grasse che si fregavano insieme quando correva. Visibilmente inadatti, quei vestiti. Come me. Mi guardo allo specchio e nel mio viso c’è lei, come dicono tutti; non si stancano mai di ripetere che Marta mi somiglia, per questo sono inadatta. E’ lei che dovrebbe trovare me nelle sue forme, non il contrario. La gente parla. Usa parole.

«Poverina… stai su, eh e se ti serve qualcosa», le ultime parole di Monica, la mia collega.

«Sai cosa mi serve Monica» dico senza neanche alzare lo sguardo dal monitor.

«Sì… ma potresti svagarti un po’.»

«Mi serve Marta!», dico senza mezzi giri di parole. Monica sta zitta, finalmente.

Chiudo il discorso con la stessa velocità con cui spengo il pc. E’ venerdì e ho fretta di andare al mercato in piazza della Repubblica come ogni settimana da allora.

Monica scuote la testa.

A piedi mi faccio due isolati. Camminare mi stanca, deterrente contro i pensieri. Di giorno funziona, di notte il letto si trasforma in una prigione. C’è spazio solo per Marta. Per la galassia che era nei suoi piccoli occhi; la vedo ovunque, come fosse tutta la luce del mondo.

Di quel pomeriggio ricordo solo un viso dai colori chiari a due passi da me. Pochi secondi in cui sono sicura che due occhi azzurri mi hanno guardata, mentre ero china a rovistare tra i tendaggi a poco prezzo. E’ inspiegabile come certi istanti rimangono impressi nella mente.

Tutti mi stavano addosso con le loro richieste.

«Ma com’ erano?»

Silenzio.

«Allora, descrivili.»

Ancora silenzio. 

«Li hai visti o non li hai visti?»

Non mi uscivano le parole.

Quante domande. Va’ a spiegare alla gente che cos’è una ragionevole sensazione. Le due cose insieme non stanno bene. Intorno avevo la gente, le voci, i suoni di un mercato locale nel giorno di fiera; chi urlava il minor costo, chi l’occasione del giorno, odore di hot dog appena grigliati. Qualcuno mi ha urtata e mi sono distratta, voltandomi indietro. Ho afferrato la borsa, ma non te, Marta. Non eri più dove dovevi stare, lì al mio fianco. Il tempo banale di un urto, si è portato via i tuoi quattro anni e tutta una vita. Ho chiamato, ho pianto, ho tremato, ho imprecato. Non avevo più voce dinanzi al carabiniere che mi tempestava di domande. Ho urlato, ho perso i sensi, ho vomitato, sperando di buttare fuori il male che cresceva prendendosi il cuore.

Non ce l’ho avuto più un cuore da mostrare. Nemmeno a tuo padre. Ha fatto bene a lasciarmi. Per lui non c’è più spazio. Lo hai preso tutto tu.

Ma quegli occhi, Marta io me li ricordo. Setaccio i volti di tutti i passanti, delle vecchie che si lamentano, dei figli che non vogliono somigliare ai padri; dell’ambulante che allarga il telo colorato sopra la testa dei clienti, del mendicante che cerca il suo posto tra noi, guardo anche negli occhi delle madri che non hanno tempo. 

Li troverò, Marta. E poi li accecherò.

Dovranno dirmi dove sei.

Forse sei in uno di quei luoghi dove tutto è possibile e gli occhi non esistono.

Un luogo dove gli uomini guardano col cuore. 

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Discussioni

  1. Grazie Luisa. Quando è venuto giù questo racconto ho provato dubbi e timori nel renderlo disponibile, mi sono sempre chiesta che diritto io avessi di parlare di un dramma che non conosco (per fortuna), mentre appartiene davvero alla vita di molte persone, perché questo è uno di quegli eventi credo impossibile da superare. Un caro saluto.

  2. Un racconto struggente. Poche volte credo di aver letto una storia cosi` toccante, come un graffio che arriva fino in fondo all’ anima. Forse solo leggendo il romanzo di Valerie Perrin
    “Cambiare l’ acqua ai fiori”, ho provato la stessa lacerante empatia.

  3. Leggendo questo racconto, non ho potuto che associarlo alla vicenda della piccola Denise Pipitone. Penso che perdere una figlia in quel modo sia peggio di saperla morta. Probabilmente questo mio pensiero potrebbe risultare crudo. L’angoscia di non sapere non lascia possibilità di respirare, è una piaga aperta purulenta che non può essere sanata in nessun modo: nemmeno dalle lacrime. Esiste la speranza vero, ma dovrebbe essere affidata alla dimenticanza. Ecco, figlia mia, da oggi non mi appartieni più ma voglio credere che tu sia viva. Sii felice. Impossibile, lo scenario che ti si para davanti è sempre il più crudele.
    In poche righe sai saputo tratteggiare l’abisso in cui è caduta la tua protagonista alla perfezione. Io, mentre leggevo, mi ci sono sentita dentro

  4. Mamma mia, che sassata! Questo brano arriva diretto come un pugno alla bocca dello stomaco.
    Una scelta azzeccatissima del ritmo narrativo, martellante, incalzante, che trasmette la sensazione di apnea emotiva della protagonista.
    Davvero ben scritto.

  5. Ciao Bettina, complimenti per questo racconto. Riesce a catturare l’interesse e, a man a mano che procedi, anche la preoccupazione del lettore. Non ci sono eterne descrizioni e per me ciò funziona benissimo perché in questo modo il racconto trasmette con forza le emozioni negative provate. Ancora i miei complimenti! Se fosse una serie sarei davvero intrigata a proseguire e scoprire qualche dettaglio in più.

    1. Ciao Linda, ti ringrazio per il tuo commento. Mi fa piacere che nella sua brevità il racconto sia arrivato generando tali sensazioni che sono quelle che ho provato anche io che l’ho scritto. È un racconto, non fa parte di una serie… almeno per il momento. Di nuovo, grazie.

  6. Per mio padre anche Laura se ne era andata. Portata via dalla gente, dagli amici, dai manifestanti, dalla ACNA a Colle don Bosco, e non era tornata più. La aveva cercata ovunque anche se vedeva crescere il suo corpo ogni giorno. Anche se vedeva i vestiti ingrossarsi sopra quel corpo gonfio a metà dal cortisone e dai miorilassanti. E quando se ne era andato via anche lui, corroso dalla colpa, Daga non aveva detto nulla alla mamma, non aveva chiesto se avesse bisogno di qualcosa, l’aveva semplicemente baciata nella bocca.
    “Una Laura ce l’abbiamo avuta tutti nella vita” diceva Nek nel 1997.
    Non tutte le Laure però hanno gli stessi occhi. Babbo i miei li ha sempre avuti davanti eppure da quel 2 giugno 1988 non li ha più trovati. Ora che è là dove tutto è anima e cuore, sono certa che anche per lui c’è tempo, altro tempo per me e per i miei occhi.

    1. Ciao Cosi, grazie per la tua lettura e per il tuo commento. Apprezzo moltissimo perché lo avverto vero e tirato fuori da un parallelo sentire e vissuto personale. Sono certa che i tuoi occhi avranno tempo per trovare ciò che è mancato e che altri non hanno saputo o potuto vedere. Grazie

  7. Di questa storia forte e struggente mi è rimasta la sensazione di un pugno nello stomaco. Ha prodotto delle emozioni veramente forti. La letteratura è capace anche di questo, di lasciarti dei segni addosso, anche fisici.

    1. Grazie. Il difficile nello scriverlo era non valicare quel confine di totale rispetto verso chi ha vissuto o vive esperienze tali. Ho immaginato si dovessero provare certe emozioni…la letteratura deve fare anche questo, battere forti colpi nel silenzio.