TUNNEL

Entro così nell’illogico, come si entra nella morte: rivedendomi.

Il cappotto sulle gambe, le braccia strette al petto, come se il sonno fosse un luogo da custodire.

I passeggeri seduti, i bagagli stipati fra i silenzi pesanti delle partenze mattutine, quando le coscienze sono specchi appannati e “loquacità” è una parola che non figura nella grammatica dell’attesa.

Poi la falsa staticità dei treni, quel moto che illude di uno slittamento del mondo, con un cortocircuito cerebrale che innesca una vertigine.

Tutto accade al di là di due palpebre sigillate, eppure è come se lo vedessi.

È l’udito a sopperire alla vista, ma in un modo diverso.

L’udito non colma: espande. Dove l’occhio s’arresta, l’orecchio scava, osmotico, invaso a sua volta, per quella naturale assenza di schermi. L’occhio è pudico, l’orecchio sfacciato.

E questa realtà aliena, chiusa fuori di me, mi accade a intermittenza: è come se la stessi scrivendo. 

Sto sognando di scrivere o sto scrivendo di sognare?

La testa aderisce al finto cuoio blu elettrico del sedile, antica pelle di un pachiderma intergalattico dalle zanne giallo calabrone: i resti levigati delle maniglie, accanto ai poggiatesta, ne certificano l’autenticità. 

È tutto vero, ciò che demistifica il reale.

E intanto il mondo — il piccolo mondo del vagone — vibra dentro le mie palpebre come luce che filtra da acqua torbida.

Non dormo ancora?

C’è un conflitto tra il mio voler dormire e l’essere dormito, come se il sonno fosse un’azione imposta da fuori, una manovra paziente, chirurgica.

La carrozza sussulta, è un respiro trattenuto troppo a lungo.

«Non era questa la fermata?» Le due vecchie dietro di me non fanno altro che ripeterselo fin da prima di salire: talmente grande era la smania dell’arrivo da non aver fatto caso, alla stazione, di non essere ancora partite.

Due innamorati, nei posti affianco, non smettono d’ignorarsi.

Deve essere una storia seria, data la solerzia con cui il disinteresse di lui aggira quello di lei: il loro unico, tumultuoso figlio, non può che essere il silenzio agghiacciante di due sguardi persi altrove.

Qualcuno recita il Padre Nostro.

I versi proliferano in me, non come suoni ma come immagini d’infanzia: l’infanzia che sbeffeggia la vecchiaia con l’ironia di un moccioso. Occhi persi sulle mani vizze dei fedeli durante la messa, tra le risa soffocate per la buffa solennità della liturgia e il comico sussiego dei grandi.

Chi è che prega? E perché sembra che a parlare sia io stesso?

È un bambino. Lo fa per gioco: la miglior forma di preghiera.

Un passeggero scambia sguardi audaci con una donna sfiorita.

La tensione è palpabile: un bouquet odoroso sbocciato fra loro, così ingombrante da passare inosservato.

Il suono del treno è cambiato: sembra un urlo sommesso, spezzato da sbuffi scagliati a coppie di due. 

Scroscio costante, come di pioggia.

Il ritmo di marcia è calato.

Le orecchie mi esplodono.

Una galleria.

Il bambino della preghiera racconta una favola lugubre: la storia dell’uomo che scrutò in fondo a uno specchio vuoto.

All’improvviso, il tempo perde la sua leggerezza. Non c’è più il prima e il dopo: solo un dentro che si allunga.

Un tunnel può durare anni?

Sì. Un tunnel è come il pensiero: non ha lunghezza, solo profondità.

Allora è come se il vagone si condensasse.

Il silenzio deflagra in residui di voci, lucide come vetri rotti.

«Lo lasciai al porto, tra le reti. Aveva gli occhi bui. Giurai a me stessa che mio figlio si sarebbe chiamato come lui. Ora ho un figlio col suo nome, ma non credo che lo saprà mai.»

«C’è una crepa nel tempo, diceva mio padre. Una sola, ma sufficiente per scivolarci dentro.»

«Hai notato come s’è fatta roccia questa parete?»

Le due vecchie parlano e parlano, così concentrate da aver scordato di essere già sul treno che aspettavano. Ancora adesso lo aspettano: è per questo che non arriverà mai.

Il sogno non inizia, eppure il mio centro si dilata.

Sono l’uomo col cappotto giallo che sonnecchia seduto, ma anche il bimbo che prega; sono gli estranei che parlano la lingua del desiderio e gli amanti tornati sconosciuti. Sento i capelli crescermi dentro e soffocarmi il cervello; le unghie risalire le falangi; la pelle oltrepassare l’aderenza delle membra, fino a ingombrare il vagone. Foderarlo.

Implodo ma mi espando. Mostruosa-mente.

Poi non sono più.

Sotto le palpebre chiuse, anche il buio proietta le ombre.

Il tunnel non è più ingegneria: è geologia, storia della Terra. Il calcestruzzo diventa pietra nuda, puntelli di legno e lampade a petrolio.

Le gallerie sono il sonno dei treni?

Chissà se sognano i treni.

Qualcuno balza in piedi, terrorizzato.

Una miniera!

E intanto le pareti s’intarsiano di venature dorate, strati di ere geologiche, tracce fossili di creature di un tempo che mai fu umano.

Stiamo andando al centro.

Al centro di cosa?

Perdio: il centro è sempre il centro! Della Terra. Della Mente. Dell’Essere.

Il centro è di un nero primordiale, il nero esterno che esalta l’ingannevole profondità dei cristalli.

I nostri volti specchiati in un infinito artificiale di riflessi in altri riflessi, in questi finestroni di carrozza contrapposti, affacciati sul niente, come a dirci che noi siamo il sogno delle cose.

Sento che se vado un po’ più a fondo rischio di annegare nella realtà, di morire nel risveglio.

Ecco perché esiste il dormiveglia.

Le due vecchie devono essere già morte e rinate, tanto lunga è stata l’attesa, ma anche stavolta non se ne sono accorte.

Qualcuno insinua che il bambino delle preghiere sia scomparso: fuggito in Brasile – dicono – e ora è un cantastorie ambulante. Ha una moglie e sei figli, ma si diverte a mandare cartoline ai suoi genitori, ancora intrappolati su questo treno.

La coppia di amanti continua a ignorarsi, come è giusto che sia, e anche gli altri due, quelli che ammiccavano, hanno finalmente consolidato l’amore: pure loro si ignorano. Ma con passione.

***


In quell’alba di aprile, il vecchio treno merci arrivò ancora una volta puntuale alla stazione. 

L’aria era immobile, le banchine deserte.

Come di consueto, il convoglio s’arrestò con un fischio lagnoso, seguito da un placido sbuffo: primo sospiro dopo il risveglio dal sogno.

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Discussioni

  1. Eccolo qui: apro Edizioni Open e c’è Nicholas che, con la sua arte, riesce a strapparmi dal momento presente (stavo rifacendo il letto) e portarmi in un mondo parallelo. Hai questo dono: riesci a far sognare la gente con le tue parole. Complimenti.

  2. Mi colpiscono i molti ossimori presenti nel tuo testo, disseminati con finezza poetica e grande sensibilità linguistica. Alcuni sono esplicitati, altri più sottili, nascosti nell’intreccio tra immagini contrastanti, tempi ambigui, sensazioni opposte. “Essere ignorati con passione”, oppure “luce che filtra da acqua torbida”, i miei preferiti. Inoltre, sono colpita dai paradossi temporali, rendono il tuo testo, in un certo senso, una sinfonia di contrasti.
    L’ambientazione liminale diventa uno spazio di soglia da cui transitano i personaggi che hai sapientemente immaginato.
    Peccato, in un certo senso, che il protagonista altro non sia che adibito al trasporto di merci e non, romanticamente, di persone. Anche se il suo sogno è rumoroso come lo scroscio della pioggia. Un testo da applauso.

    1. Ciao Cristiana! Grazie per la lettura e per il bellissimo commento🙏🏻 Sempre a proposito di ossimori (e paradossi): trovo che le cose più romantiche siano quelle meno romantiche😆 e il mio amore per i derelitti e gli emarginati mi spinge a vederli come gli emblemi del romanticismo😅

  3. “I nostri volti specchiati in un infinito artificiale di riflessi in altri riflessi, in questi finestroni di carrozza contrapposti, affacciati sul niente, come a dirci che noi siamo il sogno delle cose.”
    Questo breve testo mi dà l’impressione di essere la stessa incarnazione del dormiveglia, custode delle sensazioni più assurde e inafferrabili che si possano avere. È un po’ come saggiare la poesia del sonno, ma con l’aiuto di una coscienza ancora non del tutto sopita.
    In particolare questo passaggio lo trovo particolarissimo, “come a dirci che noi siamo il sogno delle cose”. Hai una fantasia davvero notevole, Nicholas. E ben si miscela con la tua altrettanto notevole abilità nella scrittura.

    1. Ciao Gabriele! Grazie mille per la lettura🙏🏻 Hai descritto alla perfezione l’anima del racconto😊 E la frase che hai colto, quella sull’umanità come sogno delle cose, è la chiave di volta della storia, dato che il protagonista è proprio un oggetto inanimato (il treno merci del finale, ossia: la coscienza di un treno merci) che si risveglia da un sogno impossibile: essere un treno passeggeri 🤗

  4. Hai uno stile molto particolare😯Questa storia è un vortice di immagini e sensazioni che trascende la pagina. Ogni dettaglio è un eco che rinvia a qualcosa di ancestrale. Ciò che più mi affascina è come la narrazione non racconti, ma “evochi”. È un’esperienza più che una lettura. Complimenti!

    1. Ciao Tiziana! Grazie mille per la lettura!🙏🏻 In questo periodo sono incappato in un’autrice brasiliana che mi ha ricordato l’importanza di piegare la scrittura alle esigenze del proprio sentire😊 Per me è un ritorno a casa, dato che la mia smania di scrivere nasce dall’incontro con la letteratura di quel continente 🤗

  5. Riesci a restituire un flusso di coscienza con scrittura vivida e poetica al tempo stesso. Il passaggio dalla veglia al sonno si dilata, trasporta il lettore tra pensieri e sensazioni che in qualche modo appartengono a tutti. Complimenti, ottimo lavoro!

  6. Un piccolo gioiello di scrittura evocativa e onirica, in equilibrio perfetto tra poesia, filosofia e narrativa. È una meditazione profonda — e splendidamente surreale — sul tempo, sul sonno, sulla percezione e sulla soggettività del reale. Bravo.