36 ore (parte II)
Serie: Prima della fine del mondo
- Episodio 1: Il mio mestiere
- Episodio 2: 36 ore (parte I)
- Episodio 3: 36 ore (parte II)
- Episodio 4: La terra di Caino
- Episodio 5: Fuori, una sera
- Episodio 6: Un lavoro pulito
- Episodio 7: Colpo di grazia
- Episodio 8: Una scia di virtù
- Episodio 9: Posto di blocco
- Episodio 10: À rebours
STAGIONE 1
Orib Kettelsen, il morto, conosceva Ianos. Lo avevo letto in un verbale di pedinamento di qualche mese prima: Orib era uno degli attivisti del centro sociale ‘Il Ponte’ e, proprio quel centro, Ianos lo aveva frequentato qualche anno prima, quando ancora cercava di sbalordire il mondo stringendo mani colorate, callose, o semplicemente sporche. Il pedinatore aveva scorto un cenno di saluto tra i due che si erano incrociati in centro. Avevamo in archivio, come ovvio, una scheda su Kettelsen: un provocatore verbale, articolista su fogli decisamente schierati, collezionista di querele. L’individuo non era tra i più raccomandabili, ma, al massimo, poteva essere qualificato come sovversivo, peraltro sempre attento a evitare le vie di fatto. Nulla a che vedere con i reati di cui si voleva incolpare Ianos.
Tuttavia, tuttavia…Mi aveva colpito il fatto che Ianos e Orib fossero nati esattamente nello stesso giorno. Le loro storie sembravano completamente diverse, ma, ammettiamolo: qualche anno prima il giovane Hutter si mette a frequentare il centro, conosce Kettelsen e, per caso, i due scoprono di esser nati nello stesso giorno. «Non è poco», si saranno detti. Avranno parlato della loro infanzia, dei programmi della tv, del liceo, fatto magari in scuole diverse, ma con lo stesso contorno di proteste sociali, di crisi internazionali, di titoli sui giornali. Allo stravagante Ianos bastava molto meno per considerare qualcuno degno della sua amicizia. Ecco, magari l’insospettabile Kettelsen aveva coperto Hutter, aveva offerto la sua casa come porto sicuro. L’idea era debole, non che non me ne rendessi conto, ma quella coincidenza, la data di nascita: non poteva stare lì a caso. Io solo l’avevo individuata, era come se una mano invisibile mi guidasse alla scoperta della verità. L’improbabile era pur sempre possibile.
Diciamolo, il mio ruolo nelle indagini era stato, fino a quel momento, marginale. Certo, avevo seguito il complicato zigzag delle cifre su conti esteri dai nomi bizzarri. Ma l’idea di controllare l’auto di Ianos per ogni dove non era venuta a me, né quella di pedinarlo: io privilegiavo le singolari somiglianze, le coincidenze, gli incroci insospettabili e, in questo campo, eccellevo. Il ruvido pragmatismo dei colleghi mi avviliva: conoscevo Hutter da molto tempo, conoscevo il suo ambiente e sapevo quanta cura quelle persone impieghino in dettagli apparentemente futili. I dettagli, invece, insegnano molto sui percorsi delle menti fini. Il fatto che Hutter avesse investito Kettelsen poteva essere casuale, certo, ma la conoscenza tra i due no. Due persone che scoprono di avere esattamente la stessa età non possono rimanere estranee a lungo. Urgeva controllare la casa di Kettelsen: forse nell’ispezione avrei trovato tracce delle attività illecite di Ianos e così sarei diventato, finalmente, il responsabile delle indagini. In fondo, che potevo rischiare? Al massimo i colleghi mi avrebbero accusato di zelo eccessivo: Ianos era in carcere, non grazie a me. Dovevo ribaltare il mio ruolo. L’Improbabile era la strada che dovevo seguire. Era la redenzione dalla mediocrità.
Telefonai all’avvocato di Ianos appena prima di entrare. La legge prevede che, qualora l’indagine comporti una perquisizione, un legale del fermato debba essere comunque presente. Volevo godermela di persona la scoperta, meglio se accanto a un fedelissimo degli Hutter. Erano le sei di mattina: un’alba insolitamente fresca per l’estate. Avevo poco tempo. Poco tempo per dimostrare il collegamento tra i due, poco tempo per rovistare e scoprire il sancta sanctorum di Ianos. L’avvocato arrivò trafelato, scuro in volto, come chi è in balia della tempesta e sa che deve arrivare l’uragano. Buon segno: niente poteva salvare Ianos, questa volta.
Gli ambienti conservano talvolta l’orma profonda dei loro abitanti. L’appartamento si rivelò buon testimone: disordine, mobilia sciatta, ovunque l’odore di frequentazioni pensose. Mi colpì una grossa libreria in quello che doveva essere il soggiorno: scaffali ripieni di raccoglitori ad anelli, tutto insolitamente ordinato.
Fu allora che l’avvocato mi chiamò. Aveva gli occhi sottili e gli angoli della bocca tesi. Non capii subito che si trattava di un sorriso. Aveva un foglio di carta in mano: accanto a lui, lo sguardo smarrito, il giovane ispettore che aveva fatto il sopralluogo. Sventolò il foglio blaterando qualcosa con aria di trionfo. Ne aveva tutti i motivi. Il foglio riportava poche righe firmate da Kettelsen, ed era datato col giorno e con l’ora: il giorno era quello dell’incidente, il biglietto era stato scritto poche ore prima che Orib morisse:
Cari tutti,
Avrei voluto andarmene in una maniera migliore, magari facendo qualcosa di grosso e di bello. Invece ho deciso così. Non voglio nessuno al funerale. Non piangete, scolatevi piuttosto una bottiglia.
Ciao
Orib.
Era uscito di casa con l’intenzione di suicidarsi: Ianos non aveva mentito. Che avesse trovato la fine proprio sotto le ruote della Bugatti poteva essere un caso, certo. Magari avrei potuto sostenere che voleva buttarsi dal ponte in realtà, che aveva intenzione di morire in tutt’altro modo. Patetico. Per liberare un fermato qualsiasi bastava molto meno, figuriamoci un Hutter: avremmo dovuto addirittura scusarci. Il processo avrebbe avuto luogo sicuramente, non foss’altro per l’omissione di soccorso, ma Ianos, allora, sarebbe stato già lontano.
L’aereo che si portava via Ianos passò sopra il mio ufficio in piena notte: più o meno nell’ora in cui avremmo dovuto far partire l’operazione. C’ero solo io, ovviamente. Mi circondavano parecchi faldoni scartabellati, parecchie cicche fumate a metà, l’odio silenzioso delle pareti. Tornai con la mente agli attimi che avevano preceduto la mia sconfitta nell’appartamento di Kettelsen. Ricordai il disordine, il disgusto che avevo provato. Ma non era il disgusto l’ultima cosa che ricordavo prima della voce dell’avvocato. Era invece una sensazione piacevole, un brivido di eccitazione: era stata la libreria in soggiorno a provocarmelo. Sentii che avrei dovuto tornare in quella casa. Volevo vedere cosa custodivano quei raccoglitori. La mia carriera era finita, la credibilità presso i colleghi era esaurita del tutto. Ma su quegli scaffali poteva esserci la prova che cercavo, la prova che il porto sicuro di Hutter e della sua banda era proprio la casa di un agitatore di piazza, mediocre e pavido. Avevo ancora le chiavi, nominalmente l’indagine non era stata sospesa e in ufficio c’ero solo io: ero l’unico responsabile in quel momento.
C’erano cose che, evidentemente, Orib Kettelsen amava conservare con cura. Aprii un raccoglitore a caso. C’erano decine di foglietti, ognuno in una busta trasparente. Ogni foglietto aveva una data. Il primo che lessi portava la data del 13 marzo di tre anni prima:
Carissima Rosy,
Non era più vita. Cercati un altro uomo e sii felice. Credimi, non cambia molto per me: la mia era un’esistenza inutile…
Addio
Orib.
Il cuore mi saltò in gola. Lessi il successivo:
14 Marzo
Cari compagni
Non avevo che voi. Da dove sto adesso vi invio un saluto. Alla nostra maniera…
Ancora:
24 marzo
Caro Jan,
Se mi cercherai…
6 Aprile
Cari Paul e Ines…
22 aprile
Caro cugino…
Quando mi accorsi che Kettelsen annunciava il suo suicidio mediamente una volta la settimana ormai da cinque anni, che ero stato giocato da un grafomane depresso, invece di disperarmi mi misi a ridere.
Al processo per omicidio colposo – che comunque si svolse – non fummo in grado di dimostrare alcun collegamento criminale tra Hutter, latitante, e la sua vittima. Emerse, anzi, che Kettelsen conosceva Hutter perché avevano frequentato la stessa parrocchia al tempo, morto e sepolto, in cui entrambi riverivano l’autorità dei genitori. Ci volle poco per convincere la giuria che un depresso “vive sempre sul bordo dell’abisso”, che “una sera può succedere ciò che si è paventato per anni”. Ianos ne uscì praticamente pulito. L’altro processo non si celebrò nemmeno. L’équipe delle indagini fu dispersa. Qualcuno aveva messo in giro la voce che avevamo cercato di incastrare Hutter, che i nostri metodi erano stati poco ortodossi.
Avevano ragione. Almeno i miei metodi erano stati, per poche ore, poco ortodossi. Però la mia pista alla ricerca dell’improbabile si era rivelata buona, a suo modo. A suo modo, appunto.
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L’indagine è un classico non solo del giallo, ma del romanzesco in generale. La ricerca dell’ “improbabile” la si può trovare addirittura nelle tragedie greche. È molto attraente questa storia, addirittura per me che ordinariamente non sono una lettrice di letteratura “gialla”, ma qui c’è qualcosa di più che scoprirò via via. Il suicio-omicido, se è tale, apre lo scenario sul ruolo del caso nelle vicende umane? Non so, mi è venuto in mente.
Grazie mille. Il caso non esiste. Come dimostra la vicenda narrata l intuizione si è rivelata corretta. Il primo sopralluogo era stato superficiale. È indispensabile ricercare connessioni improbabili ed estreme. I fautori della casualità, del ‘non c’è nulla dietro’, nascondono qualcosa. La casualità è ideologia.
Vi è una strana e affascinante combinazione di influenze, se così le si può definire, che emerge dal tuo stile narrativo: una particolare miscela di elementi appartenenti a Frank Miller, uniti ad altri di Alan Moore e forse anche di Poe.
Leggendo il racconto me lo immagino proprio come un film in bianco e nero, in stile Sin City, ma con l’umorismo tagliente di Watchmen.
Mi rivolgo a chi scrive a nome di Ian Elias per complimentarmi di fronte a una scrittura così corretta, precisa e particolareggiata da ‘sapere’ quasi di vecchia Inghilterra. Non so esattamente il perché di questa mia impressione, tuttavia il gusto assaporato è quello misto fra la spy story americana e il romanzo storico inglese. La narrazione è complessa e richiede attenzione particolare durante la lettura, richiede immersione. Bisogna faticare, ma poi la soddisfazione arriva presto. Attendo anche io un ringraziamento da parte di chi scrive richiedendo però che mi si dia tranquillamente del tu. 🙂
Chi scrive sente di doverti ringraziare (uso il tu, come hai richiesto) a nome di Ian Elias per il commento molto ricco di spunti. In effetti Ian Elias sostiene di nn essere un’intelligenza artificiale, ma neanche un’intelligenza personale. Abbiamo a che fare, evidentemente, con un’intelligenza collettiva. Ciò spiega, forse, la difficoltà di definire stile e genere della scrittura.
Innanzitutto grazie per il ‘tu’ che avvicina maggiormente in questo ambiente. Mi spiacerebbe molto se Ian fosse una intelligenza artificiale, piuttosto preferisco ‘collettiva’. Mi spingo un po’ più in là e bada che ciò che sto per dire vuole essere un complimento e magari uno spunto. Il caos sano che si respira all’interno delle tue narrazioni lascia intravedere una penna molto più umana di quanto magari non ci voglia svelare. In ogni caso, ho deciso di partecipare al gioco.