Le sorelle Mordesi
In una cittadina di provincia, dove molti tendevano a mettere il naso nei fatti altrui, alterando così la verità, avvennero in tempi non troppo lontani degli eventi che misero in subbuglio il tranquillo vivere degli abitanti del luogo. Caso volle che mi trovassi per ragioni personali nella cittadina e ascoltassi con interesse le vicende di cui ancora oggi si mormora. Sono curiosa per natura e amo per diletto analizzare i fatti cercando di scrutare nei particolari per poi giungere, a volte, a ricostruire la verità. Così cominciai ad indagare di qua e di là per scoprire ciò che accadde alla sventurata famiglia Mordesi.
Mi trovavo nel modesto appartamentino che avevo preso in affitto per l’occasione; affacciata alla finestra osservavo il paesaggio circostante: il sole rosso calava dietro una nera collina indorando lo specchio del lago. Nel mentre riflettevo sul da farsi, la prima cosa che escogitai fu di carpire notizie tra i villici frequentatori assidui della vicina trattoria, per poi, chissà, ricavarne una novella. L’appetito fu mio complice.
Mi recai in quell’osteria e sorrisi leggendo l’invitante insegna: “Il Taccuino e la Penna”. Immaginai fosse il posto più consono per intrufolarmi nei fatti altrui. Ordinai il piatto del giorno (penne alla stizzita) e l’anziana cuoca, che realmente credette fossi una scrittrice in cerca di spunti, mi servì con solerzia, desiderosa di ciarlare un poco, sciorinandomi molte delle cose che di seguito leggerete:
– In questo luogo circondato da un incantevole lago e da superbe colline sempreverdi, una costruzione a foggia di castelletto (ora un ammasso di rovine e arbusti infestanti) regnava solitaria. Nella pretenziosa abitazione viveva la famiglia Mordesi, composta da due sorelle (Marianna e Rolanda) e il loro padre Antonio, vedovo da molti anni (la povera moglie morì di crepacuore in circostanze non del tutto chiare), mentre il personale di servizio era giornaliero.
All’epoca in cui si svolsero i fatti, la proprietà era un esempio di lusso pacchiano, come del resto lo erano le due sfiorite e nubili sorelle, zitelle fin dalla nascita. La più giovane, di nome Marianna e di anni sessanta, per suo vezzo si faceva chiamare Marilù e al contrario di quanto si poteva pensare ora al vederla, era stata fiorente e gagliarda ma da sempre sfacciata e prepotente; mentre l’altra di nome Rolanda, di soli due anni più anziana, era di volto scialbo, d’aspetto e portamento dimesso e soprattutto aliena nel colloquiare, ma da sempre fornita di un animo graziosamente fanciullesco. “Rolanda Desolata” veniva bollata dalla affettuosa Marianna, e per sua sciagura in vero era assai lontana dall’esser vispa al pari della sorella Marilù.
Le sorelle godevano di un certo agio ma erano come prigioniere nella loro tenuta che per timore di intrusioni era circondata da un’alta recinzione, rendendola simile ad una ricca casa circondariale. Antonio Mordesi, fondatore dell’azienda ortofrutticola “Orti Fiorenti”, a causa dei debiti accumulati da tempo si trovava in cattive acque e i creditori reclamavano il dovuto. Nonostante le preoccupazioni l’imprenditore si mostrava cordiale e magnanimo con il personale dell’azienda e con i villici, ma a causa di una tara genetica riconducibile a tutti gli uomini della sua progenie, non lo era stato con la povera moglie, né tantomeno lo era con le figlie, sin dalla nascita.
Le due sorelle non si erano mai interessate all’azienda paterna, poiché il signor Antonio che attendeva per le figliole un buon partito, riteneva più consono che si dedicassero allo studio delle belle arti (ad un anziano insegnante l’arduo compito di erudirle); ma, grossolane com’erano, non riuscirono in nessuna attività artistica né tantomeno ad accaparrarsi un marito facoltoso oppur spiantato che fosse. Le povere e sfiorite ragazze erano in perenne disaccordo con il padre ma a volte riuscivano a mitigare le sue sfuriate per sfilargli denari e lui, a denti stretti, cedeva alle loro richieste, ma solo in parte poiché il Mordesi era davvero un tanghero spilorcio. Raramente, sperando di non essere troppo scocciato dalle due vecchie zitelle (come amava chiamarle sovente), apriva il portafogli e le accontentava con alcune banconote, come si usa dare ai cagnolini viziati qualche biscottino. Negli ultimi tempi però le amorevoli figliole erano diventate più avide, avendo maturato a sua insaputa un progetto riguardante il loro futuro.
Camminando per la cittadina, con vistosi cappelli, addobbate come fossero in procinto di andare a una festa, si recarono alla bottega artistica di un noto ritrattista, noto non di certo per il suo talento, a dire il vero assai modesto, ma per la sua avvenenza. Difatti Rodolfo, sebbene fosse un quarantenne ben fatto, prestante, sempre in tiro, possedeva un difetto: la vanità. Millantava di possedere un tal fascino da incantare qualsiasi donna, in special modo quelle più mature e disposte, pur di essere ritratte da lui, a pagare somme che non giustificavano davvero il mediocre risultato. Ma forse bramavano altro.
Le voci, si sa, corrono e i pettegolezzi raggiunsero, tramite una fidata domestica, i vigili orecchi delle annoiate sorelle Mordesi. Chi meglio di loro poteva farsi immortalare nei panni di gran duchesse, come Marilù e Rolanda avevano sempre desiderato nella loro scialba e inutile esistenza.
Finite le mie penne assai stizzose, la cuoca Teresa si mise a suo agio e proseguì la narrazione:
– In breve, mi disse che le due cocotte (così le apostrofò), promisero una considerevole somma di denaro che convinse il bel Rodolfo a ritrarle nei loro appartamenti. È così il malandrino divenne l’amante di entrambe le sorelle, a dispetto dell’irruento padre ignaro della loro tresca.
Poi avvenne il fatto. Fu a causa di un malore avuto in azienda che il signor Mordesi rientrò nella villa in un momento inopportuno (ma dalle figlie da tempo architettato). Privo di forze fece il suo ingresso nella sala dove l’artista era intento a pittare le sue figliole. Ma ciò che vide peggiorò lo stato della sua precaria salute: la sfacciata Marilù e la timida Rolanda in vesti adamitiche, come del resto lo era il gagliardo pittore Rodolfo.
Di cosa le accusarono? Di aver fatto schiattare il padre di crepacuore! Come del resto, conoscendo i vizi del Mordesi, aveva fatto lui stesso con la povera moglie. Ci fu uno scandalo, poiché la non molto fidata cameriera, sentendo delle grida, vide di nascosto il corpo disteso e Marianna sfilare le chiavi del segreto ripostiglio dalla tasca del padre. Inutile dire che la delatrice, riportando l’accaduto, ne fece un romanzo d’appendice.
La cuoca fu chiamata altrove; ne approfittai per ordinare una birra e vedendo sul tavolo un taccuino, presi degli appunti. Teresa tornò a narrare:
– Se le due sorellastre avevano escogitato il misfatto, caso volle che il diavolo ci mettesse lo zampino intralciando il loro piano: le orfanelle si illudevano infatti che alla morte del padre avrebbero ereditato le sue proprietà e con i proventi della vendita, più il denaro accumulato dal taccagno genitore, avrebbero ottenuto l’agognata vita da gran signore.
Fu un vero smacco per la scaltra Marilù e la sciocca Rolanda una tale acrobatica messa in scena per un risultato che si rivelò invece disastroso: per i debiti del Mordesi l’azienda fallì e a breve termine fu confiscata assieme alla loro proprietà. Però, non fu mai chiara la causa che generò l’incendio della casa quella notte. Forse una incidente, oppure la disperazione delle sorelle dopo lo scandalo.
La cuoca d’un tratto, al rimbrotto del marito, si alzò. La trattenni ancora un momento e le chiesi se conoscesse la sorte delle due sorelle dopo la disgrazia. E lei frettolosamente rispose:
– Dopo la morte del padre, colpito in pieno da un infarto, Marianna e Rolanda, in attesa del sequestro dei loro beni, abbandonate da tutti, dileguatosi Rodolfo, si segregarono nel castelletto. Tutti son certi che le diavolesse morirono bruciate assieme alla casa. Ma, quell’allocco di mio marito, sempre lì a bere sino alla chiusura della trattoria con i suoi accoliti ubriaconi, suppone di aver visto, la notte dell’incendio, una appariscente vettura condotta da un uomo con berretto da autista e a bordo due donne del tutto somiglianti alle sorelle Mordesi. Dice persino di ricordare la targa, guardi lì, dove è appeso quel foglietto; di tanto intanto prova a giocarsi i numeri al lotto. Figuriamoci! Le visioni di un mentecatto. Comunque, se da tutto ciò ne venisse fuori un racconto, non dimentichi di menzionare nella sua storia la trattoria del “Taccuino e della Penna”.
Teresa stizzita tornò ai suoi clienti lasciandomi dubbiosa e spiazzata. E così, masticando la sconfitta, ripresi il mio lavoro di semplice (ahimè) assistente del capo: un investigatore privato.
Ma la fortuna girò e due anni dopo i fatti narrati, la mia agenzia mi spedì per lavoro in un prestigioso luogo turistico. Ebbene, volle il caso, che un mattino sotto il mio naso si fermasse una appariscente vettura. Il sentore di qualcosa di familiare mi portò ad attendere che i passeggeri scendessero. L’avvenente autista, abbronzato e con occhiali scuri, aprì la portiera a due carampane vistosamente abbigliate. Per sfatare ogni dubbio non mi restava che verificare… la targa corrispondeva! (anch’io tentai di giocare quei numeri al lotto).
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Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa
Il finale è sospeso, le sorelle son morte o conducono una nuova vita, libere dal padre? Un racconto che scorre piacevole e ben costruito, a mio avviso.
Grazie del giudizio positivo ma ho dimenticato di inserire l’immagine di copertina e non capisco se la storia è stata è comunque pubblicata.
Puoi cortesemente aiutarmi ?Grazie Mara