Lena

Il barista alza gli occhi, guarda l’orologio a parete, poi, attraverso la grande vetrata scruta la strada e scuote impercettibilmente la testa: forse aspetta il cambio che non arriva. Fuori di vivo c’è solo il luccichio delle insegne luminose di alcuni locali peraltro già chiusi e le luci di un taxi in arrivo in fondo alla via che si ferma e scarica una piccola donna. Corpo minuto ma bello, capelli color melenzana tagliati a caschetto; il seno, fuori misura per una figura così esile, fa fatica a stare dentro la t-shirt bianca che indossa sotto un giubbotto di pelle slacciato davanti. Più che il grosso seno, due belle gambe bianche e nude che sbucano da sotto una mini e si piantano dentro due anfibi catalizzano me e il mio sguardo: una venere tascabile la definirebbe qualcuno. Con aria battagliera attraversa con passo veloce lo spazio che la divide dal bar, spalanca la porta e ordina un jack Daniel con acqua ancora prima di arrivare al bancone. Avrà ventidue, ventitré anni. Ha una pelle bianchissima, due occhi scuri cerchiato di nero e il naso all’insù. Quando viene servita sorride al barista, prende il denaro da una piccola borsa a tracolla di colore viola, paga e poi si adagia su un trespolo; appoggiato un gomito al banco, dopo il primo sorso, porta una mano alla bocca in atteggiamento pensoso e distrattamente con lo sguardo fa il giro dei tavoli. La osservo: è truccata con cura e ha le unghie smaltate del colore dei capelli, non è una qualunque. Aspetterà qualcuno? Mi domando mentre scende dal trespolo e passa a sedersi ad un tavolo e comincia a sfogliare il corriere. Tra una pagina e l’altra dà sempre un’occhiata all’orologio che ha al polso, alla fine, piega il giornale, lo posa sul tavolo, si alza e va fuori; accende una sigaretta e la porta alla bocca, dalla borsa estrae uno Zippo d’argento, fa scattare la fiamma e l’accende. Uno Zippo, chi usa ancora uno Zippo? La cosa mi intriga: “è un’artista? Una cantante?”. Continuo a pensare che aspetti qualcuno, ma non succede, finisce di fumare, getta il mozzicone per terra, torna dentro e va al banco, sorride di nuovo al barista, chiede un altro bicchiere e dopo essere stata servita si siede allo stesso tavolo di prima. Portando il bicchiere alla bocca incontra i miei occhi, fa il gesto di brindare e accenna un sorriso, io arrossisco e abbasso lo sguardo. A sessant’anni e ancora lo faccio quando una donna mi fissa, sono fatto così. Resto con gli occhi puntati sul fondo del bicchiere, ma sento addosso il suo sguardo. Prendo il coraggio a due mani, alzo gli occhi e mi accorgo che lei ancora mi guarda, la saluto con un cenno del capo, riesco persino ad abbozzare un mezzo sorriso. Lei allora si alza, attraversa la sala e si siede al mio tavolo.- Lena – Dice tendendomi la mano. Stringo la sua bella mano dalle unghie smaltate di viola e le dico il mio nome: – Lele –- Lena Lele, i nostri nomi cominciano entrambi con “le”, Lele sarebbe Raffaele?- Sì- rispondo – e il suo? –- Elena. Da bambina mi chiamavano Lenuccia, ma adesso sono per tutti Lena, lo preferisco.- È bello anche Elena – Dico.- Sì, ma si presta a…- pensare alla guerra di “Troia” … – sussurro piano – meglio Lena allora – Lei sorride.

– Sei pronto per uno della tua età, capisci al volo –

– Non sono poi così vecchio! – rispondo

– Scusa, non volevo dire questo, a volte le parole mi escono senza che io le controlli.

– Stai aspettando qualcuno? – Le chiedo

– No, non proprio, devo andare in un posto e… non vorrei andarci da sola.

-Perché? Oh, scusa tu, non sono fatti miei. Vedi? Anche dalla mia bocca escono parole senza controllo.

– Che ci fai qui a quest’ora da solo? Non hai una moglie? – Mi chiede eludendo la domanda.

– Sì, che ce l’ho, ho anche un figlio. Tu invece non dovresti essere a casa a studiare o al telefono con il tuo ragazzo? – Sorride ancora

– Non ce l’ho il ragazzo…

– Non ci credo! Là fuori chi stavi aspettando?

– Te l’ho detto, non aspettavo nessuno, fumavo. Tu invece cosa aspetti? Perché non torni da tua moglie? Hai litigato con lei? – Resto zitto per qualche secondo poi dico un no risoluto.

– Devi aver combinato qualcosa… l’hai tradita?

– Magari fosse questo –

– Cosa ci può essere di più grave?

– Ho perso il lavoro.

– Oh, mi dispiace, ma troverai qualcos’altro, e poi mi sembra che non te la passi male… dice ispezionandomi tutto. Hai la macchina qui fuori? Poi chiede.

– Sì, è qua dietro, perché?

– Mi accompagneresti in un posto?

– Dove?

– In stazione

– E’ vicina, perché non vai a piedi? – Lei mi fissa, tira indietro la testa, schiude le belle gambe spingendole avanti e domanda con voce mielosa:

– Davvero non ti va di accompagnarmi? – Lo sguardo mi scappa lì in mezzo, quando lo rialzo incontro i suoi occhi e arrossisco.

– No so, cosa vai a fare alla stazione? – Le chiedo cercando di riprendere il mio sangue freddo.

– Lo sai che fai un sacco di domande! Sei qui a far niente, che ti costa ammazzar un po’ di tempo con me? – Rifletto, vero, non mi costa nulla e mi alzo.

– Va bene, andiamo -. Le dico e mi avvio alla cassa, ma lei lesta mi anticipa e paga il mio conto, non ho voglia di fare la solita menata di chi non vuole, ringrazio e mi avvio alla porta; sull’uscio mi accorgo che piove e mi blocco, lei arriva, mi prende sottobraccio e mi trascina sotto l’acqua e mi chiede dov’è parcheggiata la mia auto; schiaccio il pulsante del telecomando che ho in tasca e le luci dell’auto si illuminano.

– Wow! Una 928! Dove l’hai trovata?!- Esclama.

– Era di mio padre- rispondo meravigliato che conosca il modello. Sale, infila la cintura, si sdraia e con il tono più naturale del mondo proclama:

– Chissà quante ne hai scopate qui dentro! – Non commento, le chiedo solo di dirmi dove devo portarla.

– Alla stazione. – Risponde. Mi avvio piano e quando siamo in prossimità della stazione mi fa svoltare in una stradina e mi chiede di accostare.

– Aspetta qui, ci metto in un attimo – dice, scende dall’auto, percorre pochi metri e si infila in un portone. Pochi minuti più tardi ne esce trionfante.

– Andiamo – dice – devo andare in farmacia – pensa che sia  a suo servizio.

– In farmacia? Dove la trovi una farmacia aperta? – Domando

– Ne conosco una, vai di qua, è a pochi isolati –. Risponde facendo cenno con la testa di andare. Arrivati alla farmacia, accosto, lei scende, si affaccia allo sportello e pronuncia la frase canonica:

– Una spada e una fiala! – Mi si gela il sangue al sentire la frase. “Che faccio?” Mi domando “La lascio qui e me ne vado?”  Mi chiedo. Invece sto fermo e aspetto che salga.

– Che ci devi farci con quella? – Domanda stupida.

– Secondo te? Dai andiamo – Risponde con sufficienza. Il suo tono mi indispone e le chiedo di scendere.

– Scendi! Non mi va di trasportare una tossica!

– Tossica? Guardami! Ti sembro una tossica?

– Perché ti fai? – Le chiedo.

– Dì, ma fai sempre domande? – Fa una pausa poi risponde:

– Lo faccio ogni tanto… ho bisogno di rifiatare, tutto qui

– Già, smetto quando voglio! – dichiaro e mi avvio, Mi dirigermi, un posto lontano da tutto e da tutti, e mi chiede di fermarmi.

-Ecco, qui non c’è in giro nessuno – dice.

– Vuoi che ti aiuti? – La chiedo. China la testa da un lato, fa una smorfia e fa cenno di no,  si toglie il giubbotto e con metodo si prepara a iniettarsi. Appoggia la siringa e la fiala sul cruscotto insieme a una scatolina di latta che estrae dalla borsa, e la apre; all’interno c’è una bustina con della polverina che strappa coi denti e ve la versa dentro; rompe la fiala, versa anche l’acqua nella scatolina e la agita leggermente. Da una tasca del giubbotto prende un pezzo di spago grosso e tenta di stringere il braccio, ma è maldestra, non riesce, , impreca e comincia a tremare.

– Stai calma – le dico – dai qua – Lei mi ringrazia con gli occhi, accende lo zippo e passa la fiamma sotto la scatolina di latta. Quando la droga è ben sciolta, prende la siringa, la aspira e mi chiede di stringere forte. La vena si ingrossa, infila l’ago e si inietta, poi si abbandona contro il sedile lasciando cadere le braccia.

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