A casa della zia Carmela

Serie: Mia cugina Elena


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Elena torna in sicilia

Molto spesso ci trovavamo a parlare di Elena, di quanto sia stata traumatica la sua partenza. Aveva lasciato un vuoto nel nostro gruppo. Ci guardavamo con rassegnazione, ci facevamo pena, noi che non avevamo avuto quella forza necessaria, vitale, di andare via. Un cervello promettente era volata fuori dall’isola, con tutti gli altri, cervelli o meno. Tanti. Erano stati ragazzi che non avevano trovato l’angolo giusto, la svolta della loro vita. Noi, gli amici di Elena, seduti davanti ad una birra, guardavamo i nostri visi spenti, sentivamo le nostre parole inutili, sentivamo ribollire il sangue. E una domanda aleggiava sulle nostre riflessioni: dovevamo andare via anche noi?

«No. Mai.» Alla fine chiudevamo quelle crisi con queste due parole.

«Dobbiamo provarci porca puttana, dobbiamo ingegnarci, prendere un po’ di terra tra le dita e gridare «tu sei il mio pane!»

Una voce in me si fece spazio, da coprire i miei sensi.

«Elena, amica nostra, cugina mia, ti aspettiamo. Cambieremo questo mondo. Sai, ci sono dei movimenti politici per sensibilizzare i giovani a rimanere, faremo del mare un’immensa pesca, dei campi, un immenso raccolto, delle bellezze naturali, un immenso clamore culturale. Arriveremo dove nessuno è mai arrivato, scaveremo dove l’acqua stessa non arriva, in fondo, fra le radici dei nostri avi. Porteremo sollievo ai nostri bimbi, daremo un futuro, un domani degno di questo nome. Correremo in mezzo a strade alberate, pieni di fiori, di colori, di profumi. Renderemo la nostra terra un paradiso, dove gli angeli verranno a cantare le loro lodi. La beatitudine regnerà in ogni dove e in ogni essere.»

Annusando un fiore tra le mani, inebriato da quell’olezzo sublime, mi accorgo di essere sprofondato in un pozzo profondo, avere gli occhi chiusi, serrati dentro un sogno bellissimo.

«No, non aprite i miei occhi, no.»

«Tu sarai la mia rivalsa in questa vita, tu vedrai i nostri sorrisi.»

Appena sentii questa frase fra i campi fioriti della mia notte, trovai il letto madido di sudore. Una calda notte d’estate aveva dato i geni ad un sogno che svanì in un istante.

Gli occhi mi finirono sulla finestra di Elena, dirimpetto alla mia. Chiusa, senza parole né luce.

Le albe, con il loro chiaro accecante, cancellavano i tormenti della notte, coprivano con la loro luce intensa tutto il fuoco, nostro soffrire. Le notti si fecero sempre più corte. Il giorno dominava le nostre estati, senza riparo e consolazione.

Elena, ci dicevamo, sarebbe stata in grado di dirigere forze umane, capacissima in ogni suo ipotetico impiego, beh, però, che fosse finita a fare l’operaia, senza per questo voler sminuire questo ruolo, per noi si era trasformato in delusione. Noi eravamo convinti che lei avrebbe meritato ed avrebbe potuto ottenere molto di più. E questo era la sorte di tantissimi giovani meridionali. Ma lei, sembra, ci arrivava notizia, fosse soddisfatta.

Erano cinque anni che si parlava di Elena ma non avevamo avuto la possibilità di rivederla, fino a quando non scese dal taxi in un giorno di una calda estate.

La mia casa si trovava nella zona antica della città, dove il mondo si era stancato di girare. Tutto era rimasto fermo, dalle strade dissestate ai muri sporchi e scalcinati, dagli edifici pericolanti ai locali serali accesi dalla luce dell’alcool, meglio identificati da qualche grido di mocciosi appresso all’ubriacone di turno. Tutto mostrava le ossa, ambiente scarno e malaticcio.

Però, quello che valorizzava l’aria che dal vento veniva spinta verso la sua anima, era la semplicità delle persone, l’amore fraterno ancora vivo e forte. Non di rado si vedevano ragazzi, seduti a terra davanti all’uscio di casa, a mangiare nello stesso piatto mentre giocavano a carte, a dama o a scacchi. Le donne, tutte con il proprio pettegolezzo appiccicato sulla testa, alla fine risultavano forti e anima della città antica. Anzi, da loro, dalle loro bocche, usciva solo miele per le loro strade dissestate e per i loro muri sporchi. Si percepiva un amore nell’aria dal sapore di famiglia. E questo per noi, gente dimenticata, era una grande forza, una colonna portante per i nostri giorni di difficile gestione.

In una via angusta stava la mia piccola casa, dove davanti all’uscio stava mia madre, ad aspettare la sua amata nipotina e il suo unico figlio.

Appena ci vide entrare la traversa, ebbe come un sussulto di una quarantenne e corse verso di noi, gridando il nome di Elena in maniera non del tutto discreta. Gridò a tutti la sua gioia. Eh, le nostre care madri!

«Ghoia mia, Elenuccia da zia, comu stai?» e abbracciando la nipote tanto forte da farla quasi cadere per terra. Elena, non è che mancasse da chissà quanto tempo, cinque anni sono un batter di ciglia negli anni appesantiti di un’anziana donna di paese. Cinque anni sono cinque giorni, la sua nipotina, per mia madre, era la diavoletta, la piccola diavoletta che rompeva tutto. Per Elena, cinque anni, erano stati come se fossero trascorsi venti di anni. La vidi in faccia mentre mia madre l’abbracciava forte. Diventò rossa, non so se per la stretta o per pudore o per paura di rovinare qualcosa di quello che indossava. Io stavo a due passi da loro. Mia madre non smetteva di parlare, di blaterare un’infinità di parole, tutte veloci, una dietro l’altra, caricandole di amore, passione, ricordi bellissimi. Ma non di cinque anni fa, no, chiaramente, ma di venti anni prima. Le sue lacrime la portarono a chiamare anche sua sorella e baciando la sua figliola, mandava con gesti eloquenti dei ringraziamenti all’amata defunta.

«Zia Carmela, ciao. Ti vedo bene. Sembri una ragazza di trent’anni, dai, quaranta. Sei davvero bellissima.» disse appena liberatosi da quella morsa che la stava soffocando.

«Vieni, amuruzzu miu, trasi, entra nella mia casa, dammi la valigia che ci pensu iu.» E andò dritta verso il bagaglio di Elena. Beh, certo io non ero il figlio del vento, ma non feci muovere mia madre e in un attimo mi trovai davanti alla stanzetta destinata ad Elena con il trolley in mano.

Serie: Mia cugina Elena


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Ciao Nino, molto bello il passaggio del sogno, questo desiderio di combattere per non lasciare la propria terra; così come sono belle ed evocative le parole che usi per descrivere il quartiere. Bravo!

  2. Quanti ricordi! Sai, io sono siciliana e vivo all’estero da dieci anni. E sono dieci anni che non vado in Italia. Quindi il tuo racconto mi ha fatto tornare in mente tante cose. Mi ha colpito molto questo passaggio: “Tutto mostrava le ossa, ambiente scarno e malaticcio. Però, quello che valorizzava l’aria che dal vento veniva spinta verso la sua anima, era la semplicità delle persone”, sembri descrivere la città in cui vivevo, era esattamente così. Complimenti, mi è piaciuto molto.

    1. Ciao Arianna, grazie per la lettura. E’ un racconto dove cerco di immedesimarmi nei ragazzi, come te o tantissimi altri, magari ecco senza aver assunto l’atteggiamento di Elena della prima parte della storia, e immergersi, oltre che nei ricordi nostalgici, in quello che, seppur in un ambiente avaro di futuro, ha accompagnato la nostra formazione, quei valori quali potrebbero essere le cose più insignificanti che invece lasciano, almeno agli occhi della mia protagonista, un solco al cuore forse inaspettato. Grazie e ciao.

    1. Ciao giuseppe, sì, l’amore c’è, come giusto che sia, ognuno ama la propria terra, ma qui siamo in una terra che è molto distratta, si fa voler bene quanto maledire. Io sono in Sicilia con mia moglie e il nostro cuore viaggia tutti i giorni per 1500 km, va sù, dove ci sono i sentimenti forti. Bene, nonostante mi abbia privato, almeno per il momento, degli affetti più cari, quando parlo o scrivo di lei, della amata terra natìa, mi piange il cuore. Grazie Giuseppe.

  3. L’arrivo di questa cugina che potrebbe essere considerata il riscatto di una generazione, ma che pare piuttosto essere diventata una delusione per i coetanei, sicuramente smuove il povero quartiere dalle fondamenta. La zia l’accoglie come se il tempo si fosse fermato e la scena mi commuove. Quante volte nella nostra vita siamo stati oggetto di questo trasporto amoroso magari scomodo, ma che poi, da adulti ci manca tanto?

    1. Ciao Cristiana, vorrei far emergere in questo racconto il distacco, che si ha quando si lascia la propria terra, con i valori dimenticati, riposti in cantina, quelli che hanno accompagnato la tua infanzia. La cugina, realizzata nel lavoro, troverà anche di meglio, ma travolta da affetti e ricordi, avrà da riflettere, non nel tornare sui suoi passi, ma sicuramente nei comportamenti, questo si. Grazie per la lettura e del tempo che dedichi. Grazie