Alla fermata del tram

Intere generazioni di “arrabbiati” avevano forgiato il metallo di quella panchina che, sotto l’acero, si adombrava se la frescura si respirava negli assolati meriggi d’estate.

Da un lato il prato con le sue timide violette nella più bella stagione, le sue foglie dalle sfumature dell’oro adagiate a manto sul terreno, quando le castagne facevano cadere i gusci e, per una credenza popolare, i capelli delle giovani mediterranee, la neve dai rami ad ogni folata di vento.

Dall’altro i binari anneriti, la fermata del tram.

Sedeva nelle ore più impensate; talvolta intenta nei suoi tomi con i capelli neri che le cadevano sul viso chino. L’espressione del suo volto mutava se s’addentrava nell’animo e nelle emozioni dei personaggi e le sue piccole mani, bianche e della morbidezza del cashmere adagiate sulle pagine impregnate d’un passato ormai troppo lontano.

Di tanto in tanto si destava. Alzava lo sguardo fissando un punto lontano o guardava con scarso interesse ciò che la circondava: il mondo che frenetico passava.

Quando il tram arrivava, alzava gli occhi ne controllava il numero e dunque la destinazione, si fermava ad osservare con più curiosità di quella dimostrata dapprima i passeggeri che trafelati cercavano un posto a sedere.

Le donne civettuole nei loro abiti all’ultima moda, gli uomini seriosi con i loro problemi stampati sulla fronte, l’ilarità che dimostravano i bambini verso “l’uomo del tram”.

Decideva di aspettare la prossima corsa.

Non era sicura fino a quando le porte non si chiudevano proprio davanti all’incertezza dei suoi pensieri. E, allora rimuginava. Eppure non durava che pochi minuti…o erano ore, giorni o forse anni quelli che passavano?

Ritornava ad alternare i sorrisi, le lacrime, il tedio, l’indifferenza quando via via quegli ammassi ferrosi e rumorosi nuovamente le sostavano dinanzi pronti ad accoglierla nel loro girone dantesco.

Contava di prender la prossima corsa ed ogni volta, come Goodman Lemon Novecento, non scendeva mai dalla sua nave.

In una notte di settembre, sgranando i suoi occhioni scuri con lo stupore che, tipicamente appartiene ai bambini, si accorgeva dell’uomo che da tempo la stava amorevolmente scrutando.

Correva nelle sue sconfinate Pampas, veleggiava sulla vastità del suo Oceano, camminava a piedi nudi sui tizzoni ardenti, s’immergeva nel buio dei pozzi più profondi, respirava l’aria pura delle montagne dopo una notte di tempesta, s’adagiava sui manti stellati che ricoprono le notti cicalecce del Sud, era donna e bambina, era ragazza ed era madre, era il giorno e la notte, l’isola di Chiloé e il deserto del Mojave, era tutto finalmente e senza indugi. Viaggiava il mondo ma in realtà era ben salda sulla sua panchina con i suoi occhi che le mangiavano l’anima.

Prendeva le sue mani e le portava al suo viso, alla sua barba curata che contornava le sue labbra.

Prendeva i suoi occhi e li posava sul blue della notte tempestata di stelle.

Prendeva il suo cuore e se lo metteva in petto strappando il suo per donarlo a lei.

Prendeva la sua anima e le sorrideva anche se una lacrima brillava e splendeva nella notte.

Prendeva il suoi pensieri e li colorava arcobaleno.

Prendeva tutto di lei e donava tutto.

Intere generazioni di “arrabbiati” avevano forgiato il metallo di quella panchina che sotto l’acero si adombrava se la frescura degli assolati meriggi d’estate si respirava.

Da un lato il prato con le sue timide violette nella più bella stagione, le sue foglie delle sfumature dell’oro adagiate a manto sul terreno quando le castagne facevano cadere i gusci e per una credenza popolare i capelli delle giovani mediterranee, la neve dai rami ad ogni folata di vento.

19/01/2008

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