Alla ricerca di me stesso – parte 2

Serie: Per tre punti passa l'infinito


Sguardo spaesato, spalle corrucciate e contratte verso il collo, a nascondere il più possibile il petto che un giorno forse andremo fieri nel mostrare nei nostri combattimenti tra galli nelle arene del quotidiano vissuto, ma che in questo momento vorrebbe mostrare (o celare) la lettera del supereroe, la S di SuperInvisibile.

Potessero le spalle avvolgere anche le orecchie dal baccano estatico dei piccoli delinquenti che, al contrario dei pochi angelici poppanti abbandonati al portone della scuola, hanno loro stessi dato un calcio nelle terga del loro angelo custode prima ancora di arrivare a scuola, dimostrando che la loro ghianda primordiale, il loro bozzolo, in realtà sarà l’alcova di birbantaggine e mala educazione.

Primo giorno di scuola media, l’atrio di un edificio che i più perversi chiameranno scuola mentre i realisti o veterani chiameranno caserma.

Il corpo auto risucchiato nel vano tentativo di implosione e successiva sparizione, scenario di guerriglia ad ogni angolo raggiungibile dalla visuale, professori autoritari e impotenti che tentano di risucchiare i propri futuri allievi nelle rispettive classi, il nostro caro spirito guida che nel frattempo ha preso un lungo periodo di ferie. Il momento e il luogo peggiori per cercare se stessi (ma ci sono anche le rare eccezioni).

Il mio sé ha più o meno fatto cosi, lasciandomi in quello stato misto tra il catatonico e l’adrenalinico, concedendomi le ultime forze necessarie per spostarmi da quell’ingresso al banco della classe a cui ero stato assegnato.

Seduto in ultima fila, come a mettere in chiaro già da subito che nella vita gli ultimi saranno i primi e che bisogna guadagnarselo l’avanzamento.

Dietro di me una parete. Impossibile indietreggiare, nessuna via di fuga da qui. Alla mia destra percepisco un mio pari catapultato anche lui suo malgrado in quel girone dantesco, senza che desse segni di vita. Si era già rassegnato, o rassegnata, difficile dirlo quando cappuccio e tasche nascondono eventuali caratteri distintivi di una persona ancor prima di un genere e i vestiti larghi e tatticamente coprenti nascondono potenziali protuberanze adolescenziali ad identificare che si trattasse di un lui o una lei.

Davanti a me file di indemoniati alternati a povere vittime silenziose, in una sorta di scacchiera dove le pedine sarebbero avanzate o cadute nel giro di poco tempo.

Restava il lato sinistro, unica via dove trovare l’ultima possibile via di fuga, appiglio, salvezza, qualcosa.

Oriento timidamente lo sguardo a ore nove, e mi accorgo che un altro commilitone facente parte suo malgrado di quell’esercito di involontari si stava domandando cosa ci facesse lì, e vedo che si muove con gli stessi miei movimenti, quasi a specchio, orientando lo sguardo da sinistra poi davanti e infine a destra, incrociando il mio.

Nessuna parola, forse un codice o una regola per cui il primo che mostra segni di debolezza perde. Solo lo sguardo che tenta un cenno di fierezza ma si arrende subito al disagio e all’incredulità di trovarsi involontariamente nello stesso posto nello stesso momento, abbandonati entrambi davanti al portone della scuola.

Entrambi non avevamo ben chiaro come doverci comportare in quei momenti, quale reazione avrebbe scatenato una parola o un gesto, quali conseguenze avrebbero potuto avere nell’ambiente circostante. Una parola era poca e due troppe. I gesti contenuti e misurati. Senza saperlo seguivamo un protocollo, le istruzioni di un manuale che non avevamo mai letto e che suggerivano inconsciamente il modo corretto di comportarsi in una situazione sconosciuta.

È quello che fanno i guerrieri samurai sin dal periodo Kamakura (dodicesimo secolo, antichissime tradizioni) seguendo l’etichetta dell’inchino (Ojigi, che vuol dire proprio inchino).

Quel giorno sapevo poco di samurai e di ojigi, ma anche io ero lì che attendevo il mio momento opportuno di fare qualcosa, seguendo con lo sguardo il mio compagno di banco. E lui evidentemente aveva avuto la stessa intuizione di attingere a qualche oscura consapevolezza del lontano passato, un primordiale richiamo al libretto di istruzioni che più rapidamente potesse trovarsi a portata di mano, per superare quel momento di crisi.

Mentre la professoressa tentava inutilmente di soffocare gli ultimi spasmi di ribellione a quella classe di esagitati (a distanza di anni mi è rimasto il dubbio che non fosse lei stessa che si ribellava a quella condizione, piuttosto che reprimere la nostra) mi arrendo a quella presenza con cui avrei condiviso il banco ed eroicamente pronuncio il mio nome.

“Luca”.

“Simone”.

Tanto è bastato, un reciproco saluto. Benvenuto all’inferno, ma ci mancherebbe, grazie anche tu.

Non sono servite molte altre parole. Da quel momento in poi avremmo combattuto le nostre aspre battaglie tra scuola, famiglie, amici e nemici, adolescenza, maturità.

Abbiamo implicitamente riconosciuto che sommando gli addendi il risultato non è uguale ma superiore, che le cose vanno affrontate sì secondo regole e criteri, ma che in qualche modo bisogna pur sopravvivere e allora diamoci da fare e avanziamo verso il nemico con tutte le armi a disposizione.

Da qui forse ci abbiamo preso un po’ la mano con la sovversione alle regole, perché i confini non vanno superati ma i limiti sì.

Come diceva il XIV Dalai Lama rappresentando il pensiero dei monaci buddisti tibetani all’interno dei suoi precetti, “impara le regole affinché tu possa infrangerle in modo appropriato”.

Ecco, segui le regole ma prima di tutto sopravvivi. Anche se per farlo devi infrangere le regole.

Probabilmente l’abbiamo riscritto cosi quel primo giorno di scuola, quel precetto. Paraculi. Siamo un po’ andati in deroga. Ma a fin di bene.

Sicuramente ci è servito per superare quell’assedio, quella battaglia per la sopravvivenza, quell’ostile esercito di adulti che si frapponeva a volte con indulgenza a volte con rigore e severità, ma che in ogni caso rappresentava il guscio dell’uovo dentro il quale cominciavamo a stare stretti e che dovevamo necessariamente rompere per scoprire cosa ci fosse fuori, e per scoprire come il nostro piumaggio inesistente si sarebbe dovuto strutturare per diventare la nostra nuova corazza.

Uscire dal guscio per entrare nella matriosca.

Ed andare alla ricerca dei nostri daimon, che nel frattempo, cellulare spento, sorseggiavano un mojito sulla spiaggia.

Serie: Per tre punti passa l'infinito


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Discussioni

  1. Intelligente, e anche ironica, descrizione di un incontro, e poi sodalizio, fra due studenti particolarmente spaesati.
    Pregnante la citazione matematica della somma degli addendi dal risultato superiore, che rimanda a una cultura innegabilmente scientifica dello scrivente.

    PS chissà che fine avrà fatto quel buffo commilitone?