BRON NELLA FORESTA DIMENTICATA

La foresta era un posto da brivido.

Intorno a Bron l’oscurità del crepuscolo incombeva, fitta e minacciosa, con la neve a imbrattare il suolo rendendo impossibile riconoscere la minima traccia di un qualsiasi sentiero, se mai ci fosse stato e i rami spogli che si artigliavano al mantello. Una raffica di vento soffiò sulla radura spoglia portando con sé l’aroma pungente dei pini. Tutto di quel posto era ciclopico, gli alberi, i tronchi, i problemi… La scorsa notte il cavaliere era riuscito sventare l’attacco di un lupo dal proprio bivacco ma la paura non se ne era mai andata via del tutto e anche adesso, sebbene faticasse ad ammetterlo, Bron aveva ancora il timore di quegli occhi che spiccavano nel fitto buio insieme ai rumori delle cose vive pronte a assalirlo, divorarlo, frantumargli le ossa.

Bron incurvò la schiena in avanti, come piegato da un inaspettato peso sulle spalle, gli anni di guerra, di stenti e fatica, qualcosa che gli fece percepire un gusto di bile in bocca. Anche Castor, il suo cavallo, doveva provare la stessa cosa perchè l’uomo lo vide rallentare il passo, la coda bassa aderente al corpo. Aveva paura.

Il cavaliere incitò l’animale oltre una fitta macchia di salici, là dove la luce del giorno cominciava a svanire in un tenue bagliore grigiastro lasciando spazio solo al passo felpato dei suoi abitanti; una volpe che sbucava fuori dal nulla, una lepre che scavava nella neve in cerca di erba ghiacciata, un corvo intrappolato in un cumulo di neve che fendeva l’aria con i suoi lunghi artigli, a pancia in su, in un pallido tentativo di liberarsi… poi, un torrente.

Il ruscello scorreva sotto ad un mastodontico tronco sospeso nel vuoto. La neve e il ghiaccio incrostavano la superficie ruvida del fusto, da cui spuntavano deformazioni e monconi. Ma non fu questo che costrinse Bron a fermarsi. In fondo al lato opposto del precipizio, due lupi se ne stavano immobili a fissarlo, uno bianco e uno nero, gli occhi rossi fissi su lui.

Poi, all’improvviso, il lupo bianco ululò.

L’urlo, cupo e lamentoso, spaventò Castor che si agitò inquieto arretrando di un passo e Bron portò la mano all’elsa della propria spada, su eterna amica. I lupi, tuttavia, non si mossero. Bron aggrottò la fronte. In tutti i suoi anni di guerra e di caccia non aveva mai visto due bestie comportarsi in un modo tanto strano quanto inquietante. Ma in fin dei conti tutto di quella foresta lo era.

«Dobbiamo fidarci» sussurrò il cavaliere all’orecchio del baio maculato, che in risposta pestò gli zoccoli a terra emettendo un lungo gemito. Bron atterrò con un balzo sul manto soffice e puro e tirò Castor per le redini costringendolo ad avanzare cautamente sopra a una robusta asse di legno ai margini della sporgenza rocciosa, quindi sul fusto. Sotto di lui i blocchi di ghiaccio trasportati dalla corrente delle acque scure riecheggiavano nel baratro, ora più forti, più insistenti e ovunque c’era odore di freddo e di pericolo.

A Bron lo spaventava l’idea di cadere, di morire annegato, l’agonia e il tormento della morsa del freddo dentro i polmoni. Eppure era per quello che era giunto fin lì, per morire, quindi perchè preoccuparsi? Eppure…

Erano arrivati circa a metà strada quando Castor esitò di fronte al moncone di un ramo spezzato. Sulle prime l’animale oppose una certa resistenza, ma anni di guerre avevano abituato il cavallo al pericolo rendendolo più coraggioso degli altri animali, per cui dopo un pò si lasciò persuadere dal suo padrone a seguirlo. Dall’altro lato i lupi non davano l’idea di voler essere una minaccia, con le orecchie dritte sul capo e le zampe rigide piantate al suolo a guardarli. Bron continuò ad avanzare, il fiato che si condensava nell’aria, notando di come al termine della traversata il bianco si diradasse, forse per merito degli alberi che in quel punto ostacolavano il moto della neve esponendo la corteccia alla vista, con le sue ramificazioni e i suoi trucchi. Fu una fortuna, poiché proprio alla termine della traversata si apriva una biforcazione singolare che se nascosta Bron non avrebbe avuto alcun modo di prevedere. L’uomo serrò le dita con forza attorno alle redini del suo destriero, pronto a trattenerlo di fronte al timore delle bestie e discese dall’altra parte, la mano pronta sull’elsa della propria spada in caso di attacco.

Non accadde.

Bron vide i lupi risalire a nord con il lupo nero alla guida e il bianco che lanciava di tanto in tanto qualche fuggevole occhiata indietro per accertarsi che loro li seguissero.

«Sei stato bravo» sussurrò a Castor che emise un soffio gentile dalle narici ampie con l’abituale atteggiamento rilassato di quando erano soli, come che lì non vi fossero altri se non loro. Come era possibile?

Bron si accodò alle bestie in un oscuro sentiero dove i rami andavano a intrecciarsi sopra la sua testa in un elaborato tetto naturale che in quel punto impediva al vento di entrare e l’uomo provò un moto di sollievo, quasi gratitudine, nel non sentire più il freddo insinuarsi sotto gli spessi strati di cuoio, stoffa e ancora cuoio. Era quasi felice.

Poi all’improvviso, aggirata a una macchia di fitti salici, comparve di fronte a lui un tempio. L’edificio era antico e diverso da qualunque altra cosa Bron avesse mai visto, costruito con mastodontici blocchi di pietra e il tetto piatto, del tutto privo degli ornamenti che egli era solito vedere nelle chiese della sua gente. Alla base una figura spiccava in piedi all’ingresso in cima alle scale, il fuoco delle lucerne che proiettava fitte ombre sulla tonaca color rosso porpora.

Bron vide i lupi appostarsi al suo fianco e il cavaliere affrettò il passo per avvicinarsi, il ghiaccio scricchiolava sotto gli stivali. Quando gli fu davanti Bron vide che l’uomo non era nient’altro che un vecchio, basso e magro, il capo calvo, caratterizzato da sottili occhi a mandorla e da un inestinguibile sorriso che gli irradiava il volto e le rughe. Bron si domandò che cosa ci fosse tanto da ridere.

«Che cosa cerchi?» gli domandò lui, il tono calmo e pacato.

Il cavaliere andò subito al punto. Non aveva affrontato la solitudine per perdere tempo in inutili beghe, così disse: «Voglio morire.» Sulla sommità dei gradini l’ecclesiale lo fissava strano, il sorriso grinzoso non scomparve dal suo volto.

«Perchè cerchi la morte?» gli chiese. «C’è tanto di cui vivere.»

«Non per me» gli disse Bron, la voce bassa e strana, i denti che tintinnavano per il freddo. «So che è questo il tuo compito, quassù…ora ti prego, fammi entrare.»

Il prete ammutolì rimanendo al suo posto nella sua espressione da ebete e Bron sentì un covo di rabbia fomentargli dentro le viscere dello suo stomaco. Aveva fame, aveva freddo e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di starsene lì in piedi a farsi prendere per il culo da quel vecchio bacucco che gli rideva in faccia senza dire niente.

Il mondo si fece scuro, tenebroso, con la faccia della luna piena inghiottita da spesse nubi e un vento rabbioso che prese a soffiargli contro un pulviscolo nevoso così fitto da non vederci più niente. Bron percepì la propria spina dorsale tremargli tutta da capo a piedi come una foglia avvizzita d’autunno.

La rabbia prese il sopravvento e per un’istante a Bron gli balenò in testa l’idea di uccidere il vecchio, la mano pronta sull’elsa della propria spada. All’improvviso il lupo nero gli ringhiò contro snudando le fauci, bramose di carne e di sangue, gli occhi rossi che incutevano terrore solo a guardarli. Bron allontanò la mano dall’arma, sua eterna amica.

«Fammi entrare» ripetè Bron, la voce un sussurro. «Ti prego.»

«Se è questo ciò che desideri…»

Bron aveva la testa confusa, la vista annebbiata. Non capiva più niente. Il cavaliere cadde a terra in ginocchio, ancorandosi disperatamente alle redini del suo destriero per non cadere. Poi improvvisamente il mondo divenne bianco, privo di colore e lui ebbe la sensazione di cadere vittima di un sortilegio. Chiuse gli occhi, precipitando disteso al suolo, per qualche minuto forse, o intere ore, quando all’improvviso intuì che doveva aver smesso di nevicare perchè sulla sua pelle non sentì più il freddo tocco del ghiaccio, né acqua né vento. Non udiva alcun suono.

Bron si riscosse in un mondo bianco, soffice e caldo, l’esile sagoma del vecchio torreggiava su lui, scortato dai lupi. «Dove sono?» gli chiese Bron. «Sono morto?

Il monaco si chinò in un gesto gentile, gli tese la mano e gli disse: «Sei a casa.» 

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Discussioni

  1. Belle descrizioni accompagnate da un’ottima prosa. Migliore, a mio modesto parere la prima parte. Forse un po’ affrettata l’ultima. Sicuramente il limite delle parole a volte ci costringe a sacrificare la narrazione. In ogni caso, molto interessante

    1. Come preferisci Cristiana, mi fido del tuo giudizio. Io revisionerei il testo anche domani per vedere di abbreviare ed eliminare eventuali errori, ma poi la tiriamo per le lunghe. Facciamo come vuoi tu 😉