Èramo semplici

Marta guidava ormai da mezz’ora,  eppure suo nonno non accennava a dirle di fermarsi.

Stava tranquillo, seduto al posto del passeggero mentre masticava un bastoncino di liquirizia. Era attento a indicarle quale strada seguire, avvisandola con il giusto preavviso di ogni curva e di ogni svolta. Evidentemente conosceva a menadito dove stavano andando, seppur Marta non potesse dire lo stesso: ormai da quando si erano lasciati l’asfalto alle spalle, in favore di strade a sterro immerse negli alberi, i luoghi le erano estranei.

Ogni tanto Gerardo si lasciava andare a dei commenti, a bassa voce, come se parlasse a sé stesso, tenendo di conto il silenzio che si era creato nell’abitacolo.

«Il bosco è cambiato, col tempo. Prima c’erano più faggi», oppure ancora: «Questa centralina non c’era, cinquant’anni fa», ma dopo quei borbottii si chiudeva nuovamente nella contemplazione.

Nonno Gerardo – ormai noto ai nipoti come nonno ‘Rardo – era sempre stato un po’ strano, ma forse la proposta che le aveva fatto quel giorno batteva tutte le bizzarrie. Dopo il classico pranzo della domenica, che avevano condiviso con la famiglia riunita, le si era avvicinato chiedendole col suo solito fare burbero di portarlo “in un posto”. Nessuna specifica, nessuna premessa sulla distanza o sul fatto di portare una giacca: Marta aveva acconsentito, ed eccola in mezzo al bosco, sola in auto con suo nonno.

Erano rari i momenti che potesse ricordare di aver condiviso unicamente con l’uomo: era sempre stato un personaggio schivo, di rare manifestazioni d’affetto, che non aveva certo contribuito alla cura dei nipoti nel modo caloroso della moglie.  Gerardo era sempre stato lì, silenzioso, quietamente fiero della sua famiglia, eppure restio a qualsivoglia contatto aperto.

«Accosta» disse all’improvviso, e per poco non mancò la piazzola da lui indicata.

«Facciamo due passi.»

«Nonno, ma che ci siamo venuti a fare qui?»

«Siamo alla Madonnina» rispose lui, indicando una piccola croce in pietra che le era sfuggita. Era poco più di una statuetta, piantata a terra e parzialmente coperta dal muschio.

«Quando èramo giovani, ci davamo appuntamento qui». Si chinò goffamente per togliere le foglie dalla croce, rinvenendo la pietra grigia erosa dal tempo e l’incisione recante Mater Nostra.

«Tua nonna stava su, alla magione, io giù, vicino al fosso. Mi facevo tutta la salita a corsa per arrivare in tempo dopo aver aiutato il mio babbo a innaffiare i pomodori. Sudato fradicio, ma a lei andavo bene lo stesso. Bastava stare insieme, capito?»

Marta annuì, in silenzio. Iniziava a capire, forse, dove stavano andando a parare. Al ricordo della nonna il suo cuore si strinse un po’, e gli occhi lucidi di Gerardo sembrarono riflettere quella stessa sensazione. Non aveva mai visto il nonno piangere.

«La riaccompagnavo a casa su per quello stradello, vieni.»

Si incamminò in un sentierino coperto di sterpi, scansando i rovi col bastone e pestando le foglie con piede improvvisamente sicuro. Nel frattempo, parlava.

«La incontravo al paese quando s’andava a comperare la fettina di carne, una volta al mese» ansimava un po’, ma gli occhi erano vivi. «Nonna era bella, sai? E io le facevo la corte tutti i giorni. Quando mi dichiarai èramo  alla Madonnina.»

«Ecco, qui ci abitava lei», disse poi, indicando un vecchio casolare che iniziava ad intravedersi tra le fronde. Era malmesso, con un fico arrampicato sulla parete esterna e un paio di mura franate.

«Stai bene nonno?», chiese Marta, nel sentire il respiro irregolare dell’uomo.

«Vado avanti», rispose lui, evasivo, come se la domanda della nipote fosse generica e non relativa al suo affanno di quel momento. «Te come stai, nini

«Sto bene», rispose automatica.

«Mica tanto; ti vedo sai?»

«Cosa vedi?»

«Che sei assente.»

«Sono qui. Anzi, mi fa piacere che tu mi abbia raccontato, mi fa sentire nonna più vicina.»

«Anche a me… io non sto così bene, invece. Mi manca nonna, ma sono meno orgoglioso di te e lo ammetto. Che ti manca, nini

Sul fatto che suo nonno fosse meno orgoglioso di lei, Marta aveva i suoi dubbi, eppure dovette riconoscergli che in quello specifico momento aveva fatto un passo avanti notevole, aprendosi forse per la prima volta da quando ne avesse memoria. Era sorpresa, così tanto da desiderare di non esserlo, in virtù del disagio profondo che sentiva permeare le risposte che sorgevano alle labbra.

Che cosa le mancava? Tutto, avrebbe voluto rispondere. Pensò alla sua vita in quel momento e pensò che avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un solo frammento che andasse al suo posto.

Non c’era un tassello che percepisse compiuto.

Tasselli.

Marta era un puzzle scombinato, di cui forse qualche pezzo si era perso nel caotico tentativo di unire almeno qualche tessera.

«Mi manca un po’ d’ordine, nonno», espirò profondamente, liberandosi sia dell’aria che di quella sensazione di costrizione che la opprimeva ormai da mesi. Ammetterlo fu forse più appagante di quanto non lo sarebbe stato trovare una soluzione.

Era tutto troppo frenetico, attorno a lei. I cambiamenti premevano imponenti sulle sue spalle, richiedendole al tempo stesso capacità di adattamento e di stabilità, indipendentemente dalle condizioni. Eppure, poteva sentire che oscillava, quasi fosse realmente in bilico sulle punte dei piedi, e di questo Marta si sentiva terribilmente in difetto.

Poteva percepire chiaramente la delusione ardente in seguito alla sua incostanza nelle relazioni, nel lavoro, nei progetti… in seguito alla sua incostanza nell’esserci. Persa in un’incoerente e mutabile emozione, percepiva la delusione del non saper afferrare sé stessa.

Nemmeno si rese conto di non aver offerto specifiche a quelle frasi nella sua mente: percepire la delusione… di chi? Non importava. C’era e basta, aleggiava minacciosa. Ed era ovunque: Marta nemmeno sapeva dove lei stessa fosse, eppure quell’inadeguatezza riusciva a trovarla, persino nella sua perdizione.

«Mi manca tanto ordine», rettificò.

«Perché hai troppe cose in testa e vuoi farne ancor di più. Dov’è che lavori ora? Non importa. Mi è quasi dispiaciuto che ti abbiano presa.»

Marta lo guardò, stupita.

«Ti avrebbe fatto bene, una sana batosta; non sei abbastanza abituata.»

Avrebbe voluto ribattere. Se non era abituata alle batoste era perché aveva sempre fatto in modo di non averne, non certo perché il mondo era stato buono e clemente con lei. Aprì la bocca, ma la richiuse subito dopo, lasciando parlare Gerardo. Non era il caso di contraddirlo.

«E magari avresti trovato di meglio, ma tanto ti va bene così, no? Ti devi abituare all’idea che sbaglierai tanto nella vita, nini… e che è normale così. Sembra che ti vergogni a lamentarti, quasi ti rendesse peggiore. Gran parte della gente intorno a te è mediocre e chi non lo riconosce è o frustrato, o ancora più mediocre.»

Marta non sapeva se farsi andar bene le enunciazioni di principio del nonno, eppure una parte di quelle parole colpirono un tallone d’Achille. Quanta frustrazione stava accumulando, lei, nel disperato tentativo di sfuggire alla mediocrità? La evitava come la peste, promettendo a sé stessa di non offrire agli altri le stesse delusioni che si era ritrovata a ricevere, tutto al caro prezzo di quel velo di insoddisfazione onnipresente e di quella frenesia insaziabile.

«Credi che per essere speciali serva essere migliori? Io non ero tra i migliori, giù tra le case del fosso. Il mio babbo arrivava a stento a fine mese, giravo con una bicicletta rossa tutta sgangherata. Il Ghigno, invece, ne aveva una nuova ogni paio d’anni. Ma tua nonna l’ha sempre rifiutato, il Ghigno.»

«Sono cose diverse…», mormorò Marta. Apprezzava quel tentativo, davvero, eppure ne coglieva la limitatezza. Era un altro mondo. Lo disse a voce alta.

«Il mondo cambia… ma le persone restano persone. Io stavo meglio dopo una boccata d’aria, perché te no?»

«Sono problemi diversi.»

Gerardo rise; non ci credeva nemmeno lui.

«Tesoro mio, tutto sei fuorché mediocre, ma credi davvero che i tuoi problemi non se li sia mai fatti nessuno? È il mal d’essere, c’è sempre stato.»

Marta ascoltò in silenzio. Era quello, il suo? Un male d’essere? Se avesse dovuto trovare un movente a tutto quel dolore non sarebbe riuscita a identificarne uno. Si sentiva semplicemente smarrita in quell’oceano, in cui era scesa troppo a fondo e la cui pressione iniziava a spaccarle i timpani. Perseguitata dall’aspettativa. Schiacciata dalla smania di ottenere, quando a stento sapeva cosa volesse.

“Tu prendi e porta a casa”, le era stato detto da piccola nei confronti di qualsiasi opportunità le si parasse di fronte; ma dov’era casa? Dove poteva accumulare quei pezzi d’esperienza e di fatica? Prendeva e, invece di riporre a casa, al sicuro e in ordine, buttava tutto negli scatoloni: si portava dietro un bagaglio ingombrante e inutilizzabile, smaniosa a prescindere di nuovi oggetti e impossibilitata a prendersi un momento per riporre e apprezzare i vecchi.

«Tutti sono stati male», dichiarò Gerardo. Poi respirò intensamente, perdendosi con lo sguardo nel bosco della sua gioventù.

«Ma forse hai ragione; noi èramo semplici, e ci bastava poco per scordare i problemi. Fammi un regalo nini… diventa un po’ più semplice anche te.»

Marta chiuse gli occhi.

Respirò a profondi polmoni come il nonno e il nodo al cuore si fece un po’ più lasso.

Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. In un certo senso, concordo con il nonno. Negli ultimi decenni siamo stati sovracaricati di input, cose da fare e da sapere, stimoli ad ogni lato. Si è creata una concezione di perfezione che esula il normale bioritmo umano: il multitasking su tutto. Nel racconto hai saputo trasmettermi bene questo affanno, l’odio per una “mediocrità” che in realtà potrebbe essere “normalità”. Fallire è diventato un peccato capitale, mentre dovrebbe essere un’esperienza in grado di far crescere.