Figlia di un mignon
Chissà che cosa pensavi quando compravi quel vassoio di bignè.
Chissà che pasticceria sceglievi -la più vicina a casa, la più buona, la più economica- e perché compravi sempre i soliti pasticcini decorati con glassa colorata. Tu non lo sai, non lo puoi sapere, ma da bambina erano i miei preferiti. I colori pastello che ne decoravano la superficie mi sembravano l’anticipazione perfetta del loro sapore zuccheroso e nocivo per la mia salute dentale di cui ancora oggi fatico ad aver cura. Ho una paura tremenda del dentista e non solo del dolore che i suoi malefici strumenti potrebbero provocarmi ma della sua reazione nel vedere quanto mi sono trascurata. Mi spaventa il rimprovero, il non essere stata brava come avrei dovuto, aver deluso le aspettative di chi da me, alla fine, non si aspetta proprio niente se non che paghi una parcella e poi arrivederci, grazie, ah, mi raccomando, passi bene il filo interdentale!
Forse pensavi che un misero vassoio di bignè comprato in un’anonima pasticceria di provincia sarebbe stato un collante sufficiente per tenere insieme le fila del nostro rapporto, per conquistare il mio affetto e la mia fiducia, proprio come si fa con i cuccioli abbandonati.
Non ricordo se effettivamente mangiassi quei pasticcini. Probabilmente sì, non tanto per golosità ma per obbligo, per non creare tensioni.
Il solito vizio che mi accompagna da tutta la vita.
Sempre pronta a far tacere i problemi, a ingoiare rospi, ad appesantire i miei passi con mille sassolini pungenti nelle scarpe.
“Da lui non ci voglio andare”.
“Vacci, a nonna, che lui sennò dà la colpa a noi”.
A scuola vado con il mal di pancia.
La professoressa di lettere e i suoi occhi crudeli mi si fissano nello stomaco, lo attorcigliano, mi lasciano un senso di nausea perenne; la sua voce rimbomba nella classe silenziosa nel dirmi che dovrei andare da uno psicologo e io penso di morire lì, in quel momento, tra i feromoni puzzolenti di venti pre-adolescenti.
“Mamma, perché mi ha detto così?”
“Le ho parlato di noi ai colloqui, sai, è così carina e simpatica, pensa che mi ha detto che sono bella come un’attrice!”
E anche se a me dirà che sono troppo stupida per il liceo che vorrei frequentare, anche se davanti a tutta la commissione dell’esame di terza media mi farà sentire inadatta, poco importa. Sei troppo sensibile, e poi è vero, penso, con buona pace della mia autostima che ha ricevuto un colpo mortale senza neanche saperlo.
Chissà se quando uscivi con il pacchetto di bignè tra le mani sentivi dietro la nuca la lama fredda di un coltello trapassare la tua pelle sottile e tranciare di netto la tua ossatura spinosa e porre fine alla tua vita.
Chissà se nel primo bicchiere d’acqua della tua giornata avvertivi un sapore strano che ti avrebbe portato a cadere in terra come uno stupido Mangiafuoco assassinato dalle sue esasperate marionette e soffocare nella tua stessa bile.
Probabilmente no. Dopotutto, erano solo i pensieri di una dodicenne che dal salotto di casa progettava di uccidere il padre.
Credo che tutti i figli desiderino, anche solo per un istante, di uccidere i propri genitori. Fa parte del processo di crescita, del desiderio di indipendenza, del goffo tentativo di designare la propria identità in relazione alle esperienze negate col melodrammatico obiettivo di discostarsi totalmente dalle proprie figure di riferimento.
Io non sarò mai come te.
In realtà io desideravo uccidere il dolore. Volevo sbrindellare il senso di rifiuto che mi si era cucito addosso come una seconda pelle e mi rendeva difficile aprirmi agli altri e raccontare davvero chi sono senza temere di ricevere in cambio scherno e cattiveria. È anche colpa tua se fatico a togliermi di dosso la patina d’oro di ragazza accondiscente, pacata, disponibile.
Non è tutto oro quel che luccica.
E io ho continuato a luccicare anche nella merda.
Anzi, non proprio a luccicare. È più corretto dire che ho provato fino allo strenuo delle mie forze a mantenere una luminosità accettabile, forse un po’ più fioca del normale ma niente di preoccupante. Avevo attivato la modalità risparmio energetico quando dentro era già in atto un corto circuito.
Da medaglia d’oro nel nascondere la polvere sotto il tappeto quale sono, insieme alla mia incapacità di comunicare, di alzare la voce, di abbracciare i miei reali desideri, ho relegato in un angolo anche te, il tuo squallido bilocale, i nostri incontri nascosti tra i cipressi carducciani, il sangue che ha sconsacrato il volto di mamma, il sei una figlia bastarda detto da un mio compagno di classe alle elementari, la tua ultima telefonata per gli auguri di compleanno in un giorno che il mio compleanno non era e che mi ha vista crollare in lacrime davanti alla cornetta, la mia artefatta determinazione nel voler accompagnare mamma in questura per firmare il documento per il mio espatrio e così rivederti per sputarti addosso tutto il veleno incancrenito nel petto fortunatamente sbugiardata dai Silvia, ma che ci vieni a fare, è meglio di no, dammi retta, che mi hanno fatto desistere e pensare che sarei scoppiata solamente in un pianto inconsulto e che da te mai, mai più, mi sarei fatta vedere in quello stato.
Accade poi che la vita mi offra un lavoro nella tua anonima cittadina di provincia tutta sdraiata sul mar Tirreno e che del mar Tirreno vive e i ricordi mi sboccino nella mente come margherite, per niente invecchiati, per niente ammansiti dal tempo, baciati dalla primavera più infame del pianeta.
Chissà se passando dalla pasticceria- esiste ancora?- in cui compravi quel vassoio di bignè pensi a me. Chissà se ti chiedi come sono diventata, se porto i capelli lunghi o corti, se mi piacciono il mare e il ragù o qualsiasi altra cosa piaccia anche a te, se sono amata e so amare meglio di te, se ho figli o desidero averli, se rincasando senti la voce di mio fratello e pensi a come sia la mia e a come pronuncerebbe la parola che associata a te mi pare peggio di una bestemmia urlata tra le mura di San Pietro: babbo.
Da quando lavoro qui, indago sempre un po’ di più del necessario nei volti degli uomini che incrocio per strada. Attraggono la mia attenzione quelli molto alti, dalle guance emaciate e le mani aracnee che potrebbero aggirarsi sulla settantina.
Questo è l’identikit che conservo di te. Un identikit risalente a diciassette anni fa che il tempo avrà sicuramente mutato. La vecchiaia potrebbe essersi presa centimetri di altezza in cambio di chili in più sulla bilancia, imbianchito o indebolito i tuoi capelli, annebbiato la tua mente e rinchiuso il tuo corpo a vaneggiare in un ospizio oppure seppellito con i polmoni ancora pieni del ricordo dell’aria salmastra che accarezza le vie di questo paese.
Magari ci siamo già incontrati. Mi piace pensare che è accaduto davanti al bancone di una pasticceria, forse la stessa dove andavi a scegliere i bignè alla crema e al cioccolato che mi proponevi ogni volta che accettavo il sacrificio di venire a trovarti.
Tu sei in piedi davanti alla cassa per pagare il tuo caffè rigorosamente decaffeinato per non compromettere il tuo cuore malconcio- perché dopo aver dimenticato di avere una figlia che girovaga per il mondo mi aspetto almeno questo dalla vita, che ti abbia trasformato in un fragile cardiopatico- e io appena dietro di te, protetta dalla mia discreta statura, con l’aquolina in bocca davanti al bancone mentre immagino di assaporare un friabile guscio di pasta frolla farcito da una delicata crema di ricotta.
Tu questo non lo sai, non lo puoi sapere, ma per me la pasta choux dei tuoi fottuti bignè non è mai valsa neanche una briciola di tutte le crostate del mondo.
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Un bellissimo racconto. Hai saputo raccontare un dramma con molta consapevolezza sia di scrittura che di vita. L’ho letto volentieri.
Grazie mille, Bettina!