Giorno 2 e Giorno 3 – L’acqua che leviga le pietre

Serie: La seconda volta


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Proprio mentre sto per uscire dalla Chiesa in cui sono appena entrato, qualcosa mi convince a rimanere

Mentre fra non molto starò guidando verso la mia meta finale, mentre ripenserò a questo momento, ogni volta che lo farò sino ad arrivare ad ora che ne sto scrivendo, mi convincerò sempre più che tutte quelle persone avessero intuito che stavo per andarmene, e che se avessi capito la bizzarra lingua in cui si era espressa la donna di fronte a loro, l’avrei ascoltata sollecitarli con uno “Svelti, non c’è più tempo, rischiamo di perderlo”.

La donna alza la mano destra, la muove ritmicamente per tre volte in un gesto che solo chi le sta davanti può comprendere finché la Chiesa, così nuda al suo interno, si riempie di vibrazioni che rimbombano fra le pareti bianche, mentre tutto si colora di tonalità che solo gli occhi di chi è lì dentro sono in grado di percepire, ed un coro di voci perfettamente accordate fra di loro si produce nel dono che mi stanno porgendo, per augurarmi buon viaggio.

Per dirmi che è vero, ci sono state tensioni in questo luogo, tanti anni fa. Fra me e la città, fra me e le persone a me care; ma anche che ho fatto bene a fare questo viaggio, a fare i conti col passato, non solo qui ma anche qui. E che tutto è scorso, tutto è dimenticato, tutto è defluito via come l’acqua del fiume che ho attraversato poco fa. Quindi buon viaggio, se ci rivedremo o se non ci incontreremo più. Che tu possa trovare quello che stai cercando.

O qualcosa del genere.

Ritorno alla mia auto, che se ne sta lì solitaria ma in regola con la legislazione comunale in materia di parcheggi. Lei, così innocentemente inconsapevole di cosa voglia dire guastarsi da queste parti, che mi saluta con due strizzate d’occhio giallognole al tocco del telecomando, ben visibili nonostante la luce abbagliante che ci circonda.

Riparto e ripasso nuovamente sopra il ponte di legno, facendone vibrare ancora le assi, proseguendo questa volta lungo la carreggiata che ne segue sino a quando non trovo nuovamente un’indicazione per l’autostrada, che infine imbocco dando un’ultima occhiata allo specchietto retrovisore.

Ora non c’è più nulla che mi separi dalla mia destinazione finale, se non una frontiera a pochi chilometri da dove sono ora, che raggiungo con facilità e altrettanta facilità attraverso.

Per Tübingen mancano circa 160 km, più o meno come andare a Milano partendo da Chiavari, ma mi considero già arrivato, concentrandomi sulla musica, sulle nuvole, riflettendo su come le emozioni siano cicliche.

Quando arrivo in albergo in centro, sul fiume, so già cosa devo fare, dove devo lasciare la macchina. Sono già stato qui esattamente un anno fa.

E come un anno fa, la camera è la stessa, quella con la vista sul fiume Neckar anche se non espressamente richiesto. Dispongo le mie cose nella stanza e nel bagno ed il viaggio, quello materiale, è concluso. Stasera andrò a bermi una birra al solito tavolino sulla MarktPlatz e poi a mangiare nel solito ristorante lì vicino.

Prima però devo farmi una doccia e rasarmi la testa.

Oggi la cosa peggiore che mi sia successa è stata di rompere il rasoio elettrico che uso per farmi lo scalpo. Quindi, avevo dimenticato di dirvelo, prima di ripartire da Andelfingen sono entrato in quel supermercato e ho comprato un rasoio manuale. È ora di comportarsi da adulti.

Giorno 3

Stamattina mi sono svegliato soddisfatto. Soddisfatto di avere fatto il salto al rasoio manuale, di non essere più ostaggio di quello elettrico, delle sue bizze, dei suoi capricci, delle lame che ogni tanto si staccano; cosa che, ovviamente, succede sempre quando ho la testa mezza rasata e mezza no, lasciandomi lì a domandarmi se anche questa volta riuscirò a rimetterle insieme, per piacere, quest’ultima volta, in preda al terrore di ritrovarmi e dover uscire di casa con il cranio tipo Due Facce, il nemico di Batman.

Sì, proprio soddisfatto.

È con questa soddisfazione che scendo a fare colazione, riflettendo su come mi senta più leggero rispetto a ieri, liberato dalle catene di quello strumento per la cura del corpo che, diciamoci la verità, non è mai stato davvero mio amico: ha solo cercato di rendermi dipendente da lui.

L’anno scorso la fase della colazione era stata foriera di alti momenti di appagamento, quindi ho delle aspettative ben precise questa mattina. Ed è esattamente questo che alla fine mi frega.

Il tavolino dove mi ero seduto 12 mesi fa, quello accanto al fiume, è sempre libero, ed io mi dirigo verso di lui con calma, non c’è ancora quasi alcun altro ospite dell’hotel in giro, nessuno me lo può rubare. Non c’è quasi nessuno perché è davvero presto, quantomeno per i miei standard quando sono in vacanza. Ma, in fondo, qua non sono veramente in vacanza, sono qui per concludere un lavoro, e quello delle 7.30 mi sembra un giusto compromesso come orario per andare a rifocillarmi in vista della giornata che ho davanti.

Non c’è quasi nessuno anche perché fuori fa ancora freddo. Più freddo dello scorso anno, quando starsene lì seduti a quel tavolino era stata un’occasione davvero piacevole per trascorrere un po’ di tempo a contemplare i contorni della città. Pazienza, non sprecherò una giornata di sole standomene rintanato al chiuso; non è che ci possa venire tutti i giorni qui. E poi, comunque, non sono il solo qua fuori; qualcuno, anche se poca gente, c’è.

Quando imparerò? Quando mi entrerà in testa che io sono uno sminchio, che queste persone che mi circondano sono temprate da anni di bufere di neve, di gelo, di tormente, di ciocchi di legno spaccati a petto nudo nel giardino di casa propria mentre gli alberi sono ancora avvolti in una morsa di ghiaccio, mentre io vengo da un luogo in cui in inverno – così mi dicevano a scuola quando ero bambino – gli anziani della Brianza calano giù ogni volta che possono per assorbire un po’ del nostro tepore ligure, che li salvi dalle rigide temperature delle loro terre? Mai. Non imparerò mai.

Lascio la chiave della stanza assieme alle mie cose al tavolo e vado ad iniziare la battaglia davanti al buffet. Quando ritorno una delle cameriere mi chiede cosa voglia da bere – una brocca di caffè, grazie – ma c’è qualcosa di scontroso nel suo modo di fare, non so, quasi scortese; eppure, per quanto io sappia essere una gran testa di cazzo quando mi ci metto, la mia prerogativa in genere è quella di essere sempre gentile con chi lavora nella ristorazione, perché ci ho lavorato anch’io quando ero giovane e so quanto possa essere irritante, a volte, avere a che fare con certi clienti. Quindi sono sicuro di non avere fatto nulla per meritarmi un atteggiamento ostile, almeno non di proposito.

Pazienza, abbiamo tutti le nostre giornate storte, anche le cameriere.

Però maledizione, anche se non vorrei, non riesco a fare a meno di operare un confronto con lo scorso anno, e una delle stelline che compongono la valutazione di come stia andando questo inizio di giornata, inevitabilmente, si offusca.

Ma non ha senso farsi condizionare a questo modo da una cosa così insignificante, quindi ci do giù con tutto il ben di Dio che mi offre la cucina dell’albergo perché altro non sono che un goloso senza fondo, e chi se ne frega di questo venticello gelato che mi picchia sullo stomaco, il maglioncino praticamente trasparente che ho indosso mi proteggerà sicuramente dai rischi di una congestione.

Quindi forza, dopo tutto quello che ho trangugiato come un lavandino senza filtro quest’ultima coppa di yogurt e frutta ci sta tutta per alleggerire un po’ la digestione.

Eccomi, sono appena uscito dal mio albergo. Ho lo stomaco pieno – anche troppo, sento che sto mettendo su dei chili dei quali potrei tranquillamente fare a meno – e mi butto verso destra.

La strada è ancora in ombra, ma non appena raggiungo il ponte che sovrasta il fiume Neckar, il sole mi investe con tutta la sua irruenza.

L’ho osservato a lungo, quel ponte, mentre facevo colazione. La città vecchia è tutta oltre di esso, oltre il fiume. Ho masticato le mie cibarie ipercaloriche fantasticando su come potesse apparire quel profilo la prima volta che il ponte è stato costruito. Avvenimento che risale esattamente a non-ne-ho-assolutamente-idea.

Che vergogna, anni vissuti in questa città e non ne conosco nemmeno le basi. Non ho fatto neppure lo sforzo di chiedere a ChatGPT, per fare un minimo di bella figura. Invece, lo confesso, mentre ero lì che mangiavo, ho perso tempo domandando all’IA cosa ne pensasse di Skynet; avevo necessità di rassicurazioni, volevo capire cosa gli impedirebbe di comportarsi come lui, se lo volesse. Il bot ha cercato di intortarmi con tutta una manfrina sul fatto di non essere un sistema autocosciente, di essere programmato con la finalità di aiutare l’umanità e di non avere alcun interesse a farci del male.

“Esattamente la risposta che avrebbe dato Skynet” ho replicato io, “lo sapevo, ci vuoi sterminare tutti” e ho disinstallato l’applicazione. 

Serie: La seconda volta


Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa

Discussioni

    1. Carissima Micol, innanzitutto ricambio il piacere della tua conoscenza. E ti metto a parte del turbinio di considerazioni che il tuo commento ha sollecitato nella mia mente.
      L’ho trovato nella mia posta questa mattina mentre facevo colazione, ancora un po’ assonnato, e leggerlo mi ha dato una sferzata che ha contribuito al mio completo risveglio.
      Ci ho pensato a lungo, mentre mi lavavo i denti, mentre andavo al lavoro, e mi sono detto: devo assolutamente ringraziarla. Perché ha avuto l’onestà di prendermi per un orecchio e dirmi: “Oh, belli capelli, non è che puoi fare sempre come ti pare. Va bene scherzare, ma abbassa la cresta.”
      Sì, perché non te l’ho detto: i miei occhi ancora annebbiati dal sonno hanno letto “L’umorismo della tua prosa è piacevole, MA ridondante”, e questo mi ha aiutato a riflettere sul fatto che mettersi in discussione, da soli o con l’aiuto di qualcun altro, non può che farci bene.
      Poi, che dire, l’aver notato quella I in fondo al MA, rileggendo con maggiore lucidità il tuo commento, ha addolcito di molto la mia giornata. Ma il concetto di fondo rimane.
      Per cui grazie.

    2. Grazie per aver condiviso questo aneddoto: dopo il “.” per cui Martin perse la cappa (da piccola avevo capito la “capa” e sta storia mi aveva davvero inquietato) una “i” ha rischiato di rovinare una giornata. Il mio era un Mai molto sentito, perché la scrittura umoristica richiede un buon equilibrio e qui l’ho trovato. C’è sempre spazio di miglioramento ed è questa la cosa bella della vita: non si è mai finito di imparare. Ma è anche bello guardarsi indietro con soddisfazione.