Giorno 2 – Il coperchio, la scatola e quello che c’è dentro
Serie: La seconda volta
- Episodio 1: Giorno 1 – Il Coraggio a due mani
- Episodio 2: Giorno 2 – Fragole
- Episodio 3: Giorno 2 – Il coperchio, la scatola e quello che c’è dentro
- Episodio 4: Giorno 2 e Giorno 3 – L’acqua che leviga le pietre
- Episodio 5: Giorno 3 – Le Parole per descrivere tutto
- Episodio 6: Giorno 3 – L’Asino di Buridano
- Episodio 7: Giorno 3 – Conigli in fuga
- Episodio 8: Giorno 3 – Sirene smarrite nelle Terre del Nord
- Episodio 9: Giorno 3 – Against all odds
STAGIONE 1
Arrivo ad un ponte. Un ponte di legno coperto, di quelli che si vedono nelle cartoline. Passa sopra un fiume le cui acque spumeggiano fra le rocce che affiorano in quel modo così particolare e al tempo stesso indescrivibile. E anche questa volta io, quel ponte, non me lo ricordo. Com’è possibile? Come posso essermi dimenticato di una cosa del genere e al contempo avere ancora inciso in fronte un cazzo di autogrill?
Lo attraverso, le ruote smuovono le assi della pavimentazione producendo un suono ritmico e rilassante; oltre quel ponte, a parte un altro paio di case, non c’è più nulla. Il deserto del Canton Zurigo. Andelfingen è finita senza che io sia riuscito a trovare quello che stavo cercando.
Ma non esiste che io mi arrenda, adesso torno indietro e quella piazza la ritrovo, dovessi costruirla io stesso con le mie mani.
Andelfingen è un luogo talmente preciso nella sua semplicità, talmente impacchettato in una carta da regalo autentica e genuina (lontano anni luce, però, dall’essere una di quelle bomboniere per le quali si muovono squadriglie di Boeing 747 dalla Corea del Sud per venirle a vedere, farsi un selfie e lasciarle lì ad agonizzare soffocate dalla CO2 emessa per arrivarci) che se ti vuoi fermare non sai dove lasciare la macchina. Tutto lo spazio del mondo a disposizione e sembra che non sappiano cosa sia un parcheggio. O meglio, loro lo sanno cos’è, com’è fatto, ma non te lo rivelano. Sembra quasi che il loro scopo sia farti sentire in soggezione se vieni da un qualunque posto che non sia Andelfingen e hai bisogno di scendere dall’auto.
Eppure il posto è questo, quella piazza ci deve essere da qualche parte. Mica ci avranno costruito sopra un resort. Per chi poi? Per gli stessi quattordici abitanti che vivono in questo posto?
C’è un campanile dietro quella fila di case a graticcio. È alto. Talmente alto che c’ero già passato davanti prima e nemmeno me ne sono accorto. L’ho notato solo da lontano, ritornando indietro dopo aver attraversato in entrambe le direzioni il ponte di legno. È chiaro, a questo punto, che io non sia un grande osservatore.
Se c’è un campanile c’è una Chiesa, se c’è una Chiesa c’è una piazza. È una roba che non si discute.
Poi, due sinapsi che non si parlavano da una vita per questioni legate ad un’eredità contesa si scontrano per caso, dando vita ad un impulso elettrico, e qualcosa mi torna in mente.
Una fontana, una manciata di scalini, una sorta di basso parapetto che funge più che altro da luogo in cui sedersi oppure stendersi all’ombra di un albero, nell’attesa che un meccanico faccia il proprio lavoro.
Possibile? Possibile che la memoria sia in grado di distorcere la realtà in maniera così implacabilmente, innegabilmente fasulla? Devo verificare con i miei occhi.
Prendo una svolta e finalmente trovo uno slargo dove lasciare la macchina. C’è un cartello che delimita le strisce blu dei parcheggi. Ma dai, non vorrai davvero farmi pagare per parcheggiare ad Andelfingen? No, non ti faccio pagare. Però c’è il disco orario. Eh su, il disco orario? Cazzo ma nemmeno se vi mettete tutti quanti d’accordo la riempirete mai questa piazza!
Questa piazza.
Questa piazza? È questa la piazza? Posiziono il disco orario (perché la mia targa italiana è un’onta che mi perseguita ovunque, che attira frotte di tutori dell’ordine di ogni genere quando sono all’estero) e scendo a controllare.
C’è un caldo mostruoso a Giugno ad Andelfingen, una roba africana. Appena tiro fuori la mia crapa pelata dall’abitacolo già sento la pelle che inizia a sfrigolare come quella di un vampiro a contatto con la luce del sole.
Mi guardo intorno e comincio a fare le mie considerazioni. Quello è un supermercato. Quanti supermercati potranno mai esserci ad Andelfingen? Quello potrebbe essere il posto dove per la prima volta sono venuto a contatto con il concetto “il-cibo-che-scade-a-breve-lo-paghi-di-meno”.
E quella di fianco è una banca. Quante banche potranno mai esserci ad Andelfingen? In realtà tantissime, ma questo esula dal discorso. Quella potrebbe essere la banca dove abbiamo cambiato i soldi per pagare il meccanico che ci ha aggiustato la macchina.
Una banca, un supermercato, una piazza. E laggiù, un po’ distante, la chiesa con la scalinata. Ci sono tutti gli elementi, sono come pezzi di un puzzle che si incastrano fra loro ma compongono un’immagine differente da quella che, nella mia memoria, è sul coperchio della scatola.
Eppure questo è. Non può essere diversamente. Me ne convinco sempre di più mentre mi aggiro nelle viuzze che circondano la piazza e che, prese in ogni loro possibile diramazione, alla fine portano sempre lì.
Mi rinfresco la testa sotto il getto gelato di una fontana. È pieno di fontane ad Andelfingen, questo me lo ricordo bene. Ce ne sono ad ogni angolo che giri. Grandi vasche in pietra costantemente riempite da un flusso ben più potente di uno zampillo, che sgorga da lunghe canne ricurve in ferro, senza rubinetti. Acqua che fuoriesce ventiquattro ore su ventiquattro. C’è acqua da vendere ad Andelfingen, anzi, da regalare. Ed è bello quando qualcuno ti regala qualcosa.
A poco a poco comincio a ricordare, a ricomporre i pezzi di una memoria che nel corso degli anni ha lavorato costantemente per spostare e modificare ogni mio punto di riferimento. A quale scopo lo ha fatto? Qualcosa riaffiora, non proprio tutto ma qualcosa succede. Ore e ore passate in quel posto, con niente da fare se non fare niente, ad aspettare che ci riparassero l’automobile disastrata. Quel giorno ho rischiato di danneggiare cose ben più preziose di un motore, a causa di stupide incomprensioni che, maledizione, capitano sempre con le persone più importanti.
Con la testa rinfrescata ancora per qualche minuto passo di nuovo davanti alla mia auto, solitaria fra gli stalli ma con la coscienza da disco orario a posto, e mi dirigo verso la Chiesa. È al di là della strada, io invece la ricordavo sulla piazza, evidentemente nel tempo mi sono creato il mio personale quadretto ad uso e consumo solo mio, per ricordarmi quel posto come il mio inconscio avrebbe gradito che fosse stato; tanto quando mai ci sarei più tornato in quel buco di culo disperso nel nulla? (Nda: sia chiaro, buco di culo va letto come mera licenza poetica, con funzione di pura metrica estetica. Mai l’espressione è stata utilizzata con tanto rispetto come in questa occasione)
E invece eccomi di nuovo qua. Attraverso la strada, rigorosamente sulle strisce pedonali, e salgo i gradini della breve scalinata che porta al sagrato della Chiesa. Ci sono dei bambini che giocano lì fuori, tanti, più di quanti me ne potrei aspettare. La vita è garantita per i decenni a venire, ad Andelfingen. Le prossime generazioni di banchieri, di bancari, di agricoltori, di ristoratori, di meccanici, di commessi di supermercato si azzuffano e si rincorrono fra strepiti e risate, ancora da pari a pari, ancora per qualche estate, nel piccolo piazzale di una Chiesa che esternamente promette ciò che non è in grado di (o non vuole) mantenere al suo interno, triste e spoglio come il ripostiglio di una scuola in disuso.
Ma la bellezza è testarda e sopravvive ovunque, come i fili d’erba che spaccano il cemento. E proprio mentre sono in fondo alla Chiesa, sto per salutare con un inchino il Signore ed uscire dalla sua Casa, un capannello di persone si assiepa all’improvviso davanti allo scarno altare. Si dispongono su due file, quella dietro sta su uno scalino in modo da risultare più in alto rispetto a quella davanti. Ogni componente regge dei fogli in mano ed ascolta con attenzione le istruzioni impartite da una donna piazzatasi di fronte a loro. Io sono troppo lontano per capire che cosa stia dicendo la donna, ma parliamoci chiaro: non capirei una parola nemmeno se avessi l’orecchio incollato alla sua bocca. Sì, perché al di là dell’essere fuori allenamento con la lingua, avete mai provato ad ascoltare uno svizzero che parla tedesco? Lasciate perdere, se siete scarsi come me. E anche se ve la cavaste piuttosto bene, avreste le vostre difficoltà.
E come sempre accade ogni volta che faccio un viaggio da solo, ecco presentarsi il momento in cui dico a me stesso che, quando lo racconterò, non ci crederà mai nessuno. Cosa che spesso mi fa propendere per tenermelo per me.
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