Giorno 3 – Conigli in fuga

Serie: La seconda volta


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Il caso ha voluto che io andassi a destra una volta uscito dal BrechtBau. E chi sono io per contrariarlo?

Su questa strada che si allontana dal centro e sembra perdersi in direzione del nulla ci sono tutti gli edifici universitari che per una ragione o per l’altra frequentavo saltuariamente quando ero studente qui. Segreterie, aule studio, poli informatici. Sul lato opposto della strada rispetto a quello su cui sto camminando stanno costruendo una nuova stazione di polizia. Chissà se è solo un distaccamento oppure dismetteranno del tutto quella vecchia. Ci avevo trascorso una nottata assurda in quella stazione, da giovane, che si era conclusa di mattina in maniera altrettanto inaspettata. Alla fine, per fortuna, i buoni vincono sempre.

Mi spingo così in là nel mio cammino privo di una meta da pensare di non esserci mai stato qui. E probabilmente ho ragione. Da qua in poi ci sono solo abitazioni private, nuovi condomini, stazioni di servizio, ed i primi cartelli stradali che indicano la direzione per le prossime città: Dettenhausen, Waldenbuch, Schönaich e, alla fine, Stoccarda. Tutti luoghi, a parte l’ultimo, che non mi dicono assolutamente nulla.

Perché, quando abitavo qui, con questa città ho avuto un rapporto quasi esclusivo: pochi motivi per allontanarmene e ancora meno soldi per farlo se un motivo ce lo avessi avuto. Quindi, ovunque stia andando la strada che sto seguendo ora, sicuramente non mi porterà a niente, ed è il momento che me ne torni indietro se, come inizio a sospettare, tutto questo camminare derivi dal fatto che io sia alla ricerca di qualche cosa.

Signore e signori, il genio ha fatto il suo ingresso trionfale.

Il cielo sopra la mia testa non mi concede nemmeno un attimo di tregua, rimanendo ostinatamente azzurro e privo anche della più piccola nuvola che possa fungere da schermo e placare, seppure per pochi minuti, quella divinità capricciosa dai mille nomi che se ne sta lassù appesa, impegnata ad innescare le sue molteplici esplosioni atomiche.

Ripasso nuovamente davanti al BrechtBau e capisco che devo proseguire oltre. Mi domando perché, prima, non sia semplicemente uscito un uomo, da quella porta.

Già, prima. Quanto prima? Quanto tempo è passato? Guardo l’orologio per constatare che le ore che segna (il mezzogiorno si avvicina) non corrispondono allo stato in cui mi trovo: non ho affatto voglia di pranzare, ancora non me la sento. E ancora non ho fatto nulla di quello che avrei voluto; anzi, di quello che avrei dovuto.

Ho letto da qualche parte che gli uccelli migratori, per orientarsi nei loro spostamenti, si affidano a particolari recettori presenti nella loro retina, che vengono stimolati ed attivati dai campi magnetici della Terra. Sostanzialmente, seguirebbero un punto che loro vedono davanti a sé, che li guida verso il luogo dove devono andare. Usano il navigatore, insomma.

Ora, io non so se questa storia sia vera o se il tizio che l’ha scritta stesse perculando me e tutti gli altri che, con me, l’hanno letta, ma devo dire che come concetto mi piace davvero un sacco.

Beninteso, non credo di avere niente del genere nella retina, ma qualche cosa deve avermi guidato in uno di quei momenti – non so se vi siano mai capitati – in cui si attiva il pilota automatico e ci si perde nei meandri di pensieri interiori, per poi ritornare padroni della propria coscienza e domandarsi: “Come cazzo ci sono arrivato qui?”

Davanti a me c’è nuovamente una strada. Quella in salita – già, un’altra strada in salita, ci vuole il fisico per vivere a Tübingen – che, se percorsa nella sua quasi totale interezza, porta alle case per studenti nelle quali abitavo un tempo. Non è che proprio avessi in programma di passare di qua, non ancora per lo meno, ma già che mi ci sono portato, tanto vale proseguire. Non vorrei mai contrariarmi da solo.

Potrei dire che non percorro questa strada da quando ero studente. Farebbe un sacco fico in effetti: magari potrei pure aggiungerci lo sguardo un po’ perso nel vuoto, il vento che mi scompiglia i capelli, un fulmine che si abbatte sprigionando la propria potenza distruttrice sulle sconfinate pianure dell’Oklahoma alle mie spalle… Già, potrei dirlo, ma ricordate? Siamo in Germania, c’è il sole e io sono pressoché calvo. Una bugia la si riconosce subito, persino attraverso lo schermo di un computer o di un telefono.

No, c’ero già tornato qui. Ma non è né il momento né il luogo di parlare di questo, adesso è solo ora di salire, restando il più possibile a lato del marciapiede per approfittare di quelle microscopiche porzioni di ombra proiettate dalle fronde degli alberi.

Mi fa un po’ fatica trovarmi qua, è la mia reazione tipica ogni qualvolta mi trovo davanti al momento in cui devo mantenere una promessa senza sapere bene come, combattuto fra il provarci sentendomi leggermente stupido nel farlo e il fuggire via sicuro che tanto non ci sarebbe nessuno a giudicarmi. A parte me, si intende.

Così, arrancando, arrivo davanti ad un posto che ero sicuro di conoscere. Soprattutto, ingenuamente, stupidamente, ero sicuro che nel corso degli anni sarebbe rimasto lo stesso, ed invece nella sola frazione di 12 mesi ha già mutato aspetto, nuovamente, rispetto a come lo avevo trovato lo scorso anno. E temo di non essere più il benvenuto qui.

Sono un insicuro per natura. Lo sono sempre stato, maledizione a me.

Ci sono volte in cui riesco a sopperire a questa mancanza di fiducia in me stesso facendo affidamento al mulo ostinato che ho dentro, ma in questo momento mi manca il coraggio, e allora scappo. Si, fuggo via. Non è che ci siano molti giri di parole per descrivere la codardia.

Ho paura degli ostacoli materiali – e non solo – che mi trovo davanti. Ho paura che, se salissi per quella manciata di scalini riparati da alberi che mi sono sempre stati amici, che dovrebbero portarmi al piccolo cortile interno del mio vecchio studentato, facendo zig zag fra uno stendino stracolmo di panni stesi ad asciugare ed un tavolo da ping pong sistemato lì alla bell’e meglio, qualcuno potrebbe uscire da uno dei quattro portoni che ne sono a guardia per chiedermi io chi sono, io chi cerco, io cosa ci faccio lì? Sono forse il parente di qualcuno dei ragazzi che vivono qui? Un genitore, o magari uno zio? Un lontano cugino? No? Allora prego, si volti pure indietro e ritorni da dove è venuto, questo è un complesso privato.

Non ce la farei a sopportarlo. È tutto nella mia testa, ma è anche tutto così realistico, talmente verosimile da sembrare già accaduto ancora prima di essersi verificato.

Tento di aggirare l’ostacolo, facendo marcia indietro e provando a passare dal retro, dove ci sono i parcheggi riservati agli inquilini di questi appartamenti ed un accesso diametralmente opposto, che mi permetterebbe di arrivare ugualmente davanti al portone d’ingresso del palazzo in cui abitavo, ma non c’è nulla da fare, ovunque io vada mi imbatto sempre in me stesso e nelle mie paure, che trasformano lo scalpiccio di qualcuno oltre la curva di quel piccolo sentiero piastrellato nel più minaccioso dei rumori che si possano ascoltare.

E così, colpevolmente, abbasso le orecchie, respiro gli odori di quel posto e, come un coniglio, me ne torno giù per la collina.

Serie: La seconda volta


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