
Giorno 3 – L’Asino di Buridano
Serie: La seconda volta
- Episodio 1: Giorno 1 – Il Coraggio a due mani
- Episodio 2: Giorno 2 – Fragole
- Episodio 3: Giorno 2 – Il coperchio, la scatola e quello che c’è dentro
- Episodio 4: Giorno 2 e Giorno 3 – L’acqua che leviga le pietre
- Episodio 5: Giorno 3 – Le Parole per descrivere tutto
- Episodio 6: Giorno 3 – L’Asino di Buridano
- Episodio 7: Giorno 3 – Conigli in fuga
- Episodio 8: Giorno 3 – Sirene smarrite nelle Terre del Nord
- Episodio 9: Giorno 3 – Against all odds
STAGIONE 1
C’è un film di Riccardo Milani che ho visto di recente quest’anno, che mi è piaciuto moltissimo: si chiama “Grazie Ragazzi”. È una pellicola zeppa di volti noti. Due dei protagonisti di questo film sono Antonio Albanese e Vinicio Marchioni.
Il primo, io che ho una certa età, non posso fare a meno di associarlo al personaggio di Alex Drastico che ho conosciuto in Mai dire Gol negli anni novanta; atteggiamento inevitabile ma consapevolmente riduttivo, vista la poliedricità che caratterizza Albanese.
Il secondo, invece, lo associo alla serie TV “Romanzo Criminale”, perché è lì che l’ho visto recitare per la prima volta nel ruolo del Freddo, rimanendone quasi annichilito dalla personalità ipnotica.
Nel film a cui faccio riferimento (state tranquilli, tutto quello che vi sto per raccontare rappresenta praticamente l’inizio), Albanese è un attore di teatro nel cui promettente passato, ad un certo punto, succede qualcosa per la quale perde il treno delle grandi occasioni ritrovandosi, oggi, a sbarcare il lunario come doppiatore di film porno. Gli arriva però, da un amico e collega di vecchia data, l’occasione di raddrizzare il proprio percorso come insegnante di recitazione, seppure per poche ore, all’interno del carcere di Velletri. È qui che, fra i vari detenuti, fa la conoscenza anche di Marchioni.
L’atteggiamento di quest’ultimo è inizialmente ambiguo, tanto che Albanese non lo prende né in simpatia né in considerazione. Ciononostante, Marchioni vuole entrare ad ogni costo nel gruppo di recitazione. Così, Albanese lo mette alla prova: fai la scimmia, gli dice. Marchioni non è sicuro di aver capito bene ma Albanese lo incalza: fai la scimmia, gli ripete. Se davvero vuoi fare l’attore, devi essere disposto a denudarti completamente davanti al pubblico, senza ritrosie, anche rischiando di metterti in ridicolo.
Dunque Marchioni esegue, affiancato poi dallo stesso Albanese. Una serie di versi e urla liberatorie in pieno stile Libro della Giungla.
Ecco, è esattamente questa la scena del film che gli sbraiti ed il casino provenienti dall’aula alle mie spalle mi riportano alla mente, proprio nel momento in cui sto svogliatamente iniziando a battere qualche lettera sulla tastiera del mio computer.
No maledizione, questa non ci voleva. Ma smetteranno, tento di rassicurarmi; certo, smetteranno; la lezione non consisterà unicamente in questo, smetteranno mi ripeto con ossessivo ottimismo per una decina di minuti buoni, come un mantra; trascorsi i quali l’ottimismo se ne esce dalla stanza sbattendo la porta ed io realizzo che questa mattina, per qualche ragione che solo lui conosce, il piano terra del BrechtBau non mi può proprio vedere e non sa cosa sia il pudore nel dimostrarmelo.
Va bene, ho capito, ti sei offeso perché nell’anno che è trascorso non ti ho chiamato nemmeno una volta e ora vuoi prenderti la tua rivincita. Il tuo è un atteggiamento infantile; se fossi nel pieno della forma mi impunterei nel restarmene qui seduto a questo tavolo come solo il me stesso di un tempo sarebbe stato capace di fare, ma comincia a montarmi su quel sentore di mal di stomaco che prima era solo un accenno e, visto che non ho per niente voglia di litigare, spengo il computer e tolgo il disturbo.
Devo assolutamente trovarmi un altro posto, però. Ho tempo, è vero, ma non tutto questo tempo, e parecchio lavoro da fare. Proviamo quindi con i tavoli che sono all’esterno dell’edificio, lì gente che urla non dovrebbe essercene; a questo modo potrei comunque avere uno scorcio di visuale sull’interno della caffetteria attraverso le vetrate.
Infatti è così, urla non ce ne sono. Però gente, quella sì, tanta, e non ci sono più posti a sedere. Hanno avuto tutti l’idea di approfittare di questa giornata senza nuvole, nonostante la temperatura che si fa sentire. Del resto è normale, la gente temprata dal gelo in inverno viene poi rifinita nei dettagli con lo scalpello infuocato del calore continentale in estate, e il sole che gli picchia sulla testa non gli dà più fastidio della scintilla di un bastoncino d’argento a Capodanno.
Resta l’opzione del secondo piano, nella biblioteca. Non è dove avevo pianificato di lavorare ma pazienza, se non ci sono alternative.
Rientro nel BrechtBau, salgo le scale e per la seconda volta in pochi giorni affondo nuovamente le scarpe su un tappeto di moquette, come era successo al Casinò di Campione.
La mia mente viaggia, così, a ritroso negli anni verso pomeriggi di studio privi di entusiasmo trascorsi qui dentro dopo il turno di lavoro della mattina giù in mensa, mentre il mio corpo si proietta in avanti oltre la porta d’ingresso vera e propria della biblioteca, un luogo in cui ogni movimento è cautamente calibrato e tutto è rigoroso silenzio.
Mi siedo ad un tavolo vuoto, e provo a non farci caso. Accendo il computer, e tento di ignorarlo. Mi concentro sul cursore che appare e scompare sullo schermo, nero e sottile come il baffo di uno dei miei gatti, ma non c’è nulla che io possa fare che abbia il potere di negare l’evidenza dell’incudine che si è definitivamente materializzata nel mio stomaco e che preme da ogni lato per uscire.
Dannazione a me e alla voragine senza fondo che mi governa alla mattina come un demone, ogni qualvolta il costo della colazione è incluso nel prezzo della camera d’albergo che mi ospita.
Perché io sono fatto così, sabotatore di me stesso ogni volta che l’occasione richiederebbe invece un briciolo di amor proprio, evidentemente più felice nell’avere una buona ragione per biasimarmi piuttosto che concedermi una gratificazione per aver usato, come fanno tutti, il buon senso.
Esco dallo spazio angusto che racchiude il WC – non sono necessari approfondimenti su cosa sia appena successo – mentre davanti a me la fila di lavandini dei bagni della biblioteca mi osserva impassibile.
Il mio stomaco è ancora in subbuglio e l’opinione che ho di me stesso è più bassa della suola di una espadrillas. Mi sciacquo la faccia col getto d’acqua che sgorga da rubinetteria disinfettata ogni 3 ore (così è scritto sul lato interno della porta dei servizi igienici) e si infrange sulla ceramica immacolata del lavabo per poi disperdersi nelle tubature a vista cromate. Se davvero tutto è ciclico, penso, quanto tempo ci vorrà prima che le stesse molecole d’acqua che sono appena uscite dal rubinetto ripassino nuovamente attraverso questo condotto? Succederà mai? Ma soprattutto: è molto grave, dottore, che io mi ponga questa domanda?
Mi guardo nello specchio. Sento che dovrei essere nel momento della scena del film in cui il volto del protagonista si alza di fronte alla telecamera, ritrova la motivazione perduta da tempo e riscatta una vita di fallimenti; invece sono furibondo con me stesso e ho solo voglia di andarmene via da questo posto, lo stesso posto per essere nel quale ho guidato 700 chilometri. Non servirebbe a niente rimettermi seduto e riprovare a scrivere, ho bisogno di ricominciare tutto da capo. Ho bisogno di camminare.
Con lo zaino in spalla spingo le porte a vetro del BrechtBau, scendo i pochi scalini che lo elevano dal livello della strada e sono di nuovo nella Wilhelmstrasse dove inatteso, mal accolto e con indosso vestiti roventi si impadronisce di me il panico: e ora, cosa faccio? Dove vado? Niente di tutto questo era previsto, niente di tutto questo doveva succedere. Avrei dovuto trascorrere la mattinata lì dentro, seduto ad un tavolino della caffetteria, con una tazza di caffè da una parte e un bloc notes per appunti dall’altra, in mezzo il mio computer ed io che completo il lavoro di un anno, che finisco il mio libro, qui dove lo avevo cominciato.
Invece mi ritrovo qua fuori, sotto un sole cocente, rigirato come un calzino, con un senso di impotenza addosso che mi pesa come un macigno, a guardare verso destra e verso sinistra senza avere idea di quale direzione prendere, sicuro che la mia indecisione mi ucciderà così come ha fatto con l’Asino di Buridano.
E sia: se non sono capace di decidere per me stesso, lasciamo che sia qualcun altro a farlo al mio posto. Mi volto in direzione del BrechtBau e poso o lo sguardo sulla porta d’ingresso e sulla prima persona che a breve la attraverserà. Se ne uscirà una donna andrò a destra, se sarà un uomo andrò a sinistra.
Una donna. Va bene, andiamo. Da qualche parte bisogna pur cominciare.
Serie: La seconda volta
- Episodio 1: Giorno 1 – Il Coraggio a due mani
- Episodio 2: Giorno 2 – Fragole
- Episodio 3: Giorno 2 – Il coperchio, la scatola e quello che c’è dentro
- Episodio 4: Giorno 2 e Giorno 3 – L’acqua che leviga le pietre
- Episodio 5: Giorno 3 – Le Parole per descrivere tutto
- Episodio 6: Giorno 3 – L’Asino di Buridano
- Episodio 7: Giorno 3 – Conigli in fuga
- Episodio 8: Giorno 3 – Sirene smarrite nelle Terre del Nord
- Episodio 9: Giorno 3 – Against all odds
Descrivere il disagio, lo smarrimento, non è sempre cosa facile. Qui tu ci sei riuscito molto bene. Mi è piaciuto in particolare il riferimento al film “Grazie ragazzi” con Antonio Albanese, attore per cui ho un debole, una sorta di
incondizionata ammirazione.
Grazie Rita, sono contento di averti coinvolta🙏🏻
Confesso, leggendo il primo episodio avevo pensato ad un colpo al casinò. Ora, non ne sono più tanto sicura. Ci sono luoghi dove tutto inizia (anche se a volte sono dispettosi): sono curiosa di sapere dove quella donna condurrà il protagonista.
🤭
Mi hai catapultato in una delle situazioni in cui mi sono trovato diverse volte. Ben scritto e ben centrato. Grazie.
Grazie Giancarlo, ben felice di averti coinvolto