Giorno 3 – Sirene smarrite nelle Terre del Nord

Serie: La seconda volta


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Davanti al caseggiato in cui ho vissuto tanti anni da giovane, la sensazione di non essere più il benvenuto mi spinge a voltarmi e tornare indietro (tecnicamente, possiamo dire che "ho conigliato")

Adesso, davvero non riesco più a sopportare me stesso. Se potessi mi lascerei lì su quel tratto d’asfalto a sciogliermi come una medusa, ma non riesco ad uscire da questa pelle che mi imprigiona. Non ho scusanti per essermene andato via, per non avere messo a frutto niente di quella salita percorsa a fatica sotto il sole, per avere trasformato minuti preziosi della mia giornata, semplicemente, in tempo gettato via come l’involucro sporco e appiccicoso di uno Whopper da Burger King.

Ho lasciato mia moglie al suo lavoro, da sola, sto spendendo egoisticamente per me soldi che sono anche suoi, i granelli della clessidra precipitano uno sull’altro scontrandosi e livellandosi provocando un rumore assordante, che sembra provenire da ogni cosa sulla quale poso il mio sguardo, ed io che cosa sono stato in grado di ottenere sino ad ora? Una congestione, un principio di insolazione ed una ritirata priva di un briciolo di onore. Ma perché non…

«Scusa, ne hai ancora per molto?»

«Ancora per molto di cosa?»

«Di frignare. Mi stai dando sui nervi da morire.»

«Non sto frignando, sto facendo autocritica.»

«L’autocritica sottintende qualcosa di costruttivo, tu ti stai solo vomitando addosso negatività, cosa che per altro ti riesce sempre benissimo. Guardati lì, sulla maglietta, sei tutto sporco.»

«Senti, non ti ci mettere anche tu per piacere, è già una giornata difficile»

«Oh, povero cucciolo, ti fa male il pancino? Hai tanto caldo? Ti cerco una cedrata?»

«No. Ma puoi cercare di tornartene nell’abisso della mia testa da dove sei venuto.»

«Tornarmene indietro? Tipo come hai fatto tu adesso?»

«… Sei veramente una merda.»

«Mi piace di più pensarmi come uno stimolatore di cuori spezzati, tipo un defibrillatore. Ma se vuoi, sì, potremmo vederla anche sotto il tuo punto di vista.»

«E quindi cosa sei venuto a fare fin quassù?»

«A ricordarti che dentro quell’involucro in cui stipi le peggio porcherie fino a stare male ci sono pure io…»

«… non ho mangiato porcherie stamattina, ho solo ecceduto nelle quantità. Per tua informazione è un hotel fico quello che ho prenotato…»

«… ecco, appunto, visto che ci è costato un occhio della testa, facciamo in modo che almeno ne sia valsa la pena.»

«Ti ascolto. Hai qualche idea geniale su come fare?»

«Non serve scomodare il genio, è sufficiente un po’ di buon senso: disattiva la modalità “autocommiserazione” e rotola giù fino alla Wilhelmstrasse, vedrai che poi qualche cosa ti verrà in mente.»

«Qualche cosa mi verrà in mente? È tutto quello che hai da dirmi a conclusione del cazziatone che mi stai facendo? Questo dovrebbe essere l’aiuto che mi permetterà di superare questo momento di merda? La sai lunga sulla persuasione, tu.»

«Che cosa ti aspettavi che dicessi, scusa? Sei tu il lato creativo dei due, io sono quello bravo a portarti allo sfinimento fino a quando non mi dai retta. Lasciami fare il mio lavoro e pensa a come fare il tuo.»

«È che non so da che parte iniziare! È andato tutto a rovescio di come doveva andare da quando mi sono svegliato.»

«Guarda che ti stai facendo un film tutto da solo, non c’è niente che ti impedisca di fare quello che devi fare. A parte te, ovviamente.»

«Certo, parli facile. Tu devi solo rompere i coglioni e il tuo lavoro lo hai fatto, a me tocca tutto il resto.»

«Però poi sei quello che si prende tutta la gloria…»

«See, ma vaffanculo. Va bene, hai vinto, sto scendendo. Qualsiasi cosa purché la pianti e mi lasci in pace.»

«Stai tranquillo, ho di meglio da fare che stare qui a spiegarti come ci si comporta da adulti. E comunque “ecceduto nelle quantità” non rende giustizia al vuoto cosmico che hai lasciato su quel buffet stamattina. Pure lo yogurt con l’ananas alla fine. E che cazzo.»

Quando scendo e faccio ritorno sulla Wilhelmstrasse, per strada ci sono solo io. La gente è tutta rintanata nei locali, nei bar, nei ristoranti, nelle mense, a godersi un po’ di frescura artificiale, oppure è semplicemente ancora a casa in pausa pranzo.

Mentre cammino rifletto sul fatto che liberarmi di quella vocina petulante è stato tutto sommato semplice, mi è bastato assecondarla; ma ora, come avevo paventato durante il nostro battibecco, sono rimasto da solo a dovermi smazzare tutto il lavoro. Fa sempre così quello là, lancia la bomba e poi scappa. Bella la vita.

Ma alla fin fine aveva ragione lui, restarmene seduto su un marciapiede, immobile, a fissare le diverse sfumature di grigio dell’asfalto non mi avrebbe portato a niente, se non al limite una moneta gettata distrattamente da un passante, forse generoso ma certamente poco empatico.

E allora forza, alla mia destra c’è il centro città con i suoi colori, con le sue viuzze infinite dove perdersi è facile come scoprire di non avere poi più voglia di ritrovare la strada di casa, con i suoi microscopici canali, che mi chiama tentatrice come una Sirena smarritasi nelle Terre del Nord; ma non posso darle ascolto, non ancora per lo meno. Adesso devo girare a sinistra, devo tornare dov’ero stamattina, ricominciare tutto da capo, nonostante questo significhi che mi troverò immerso in una delle fattispecie che più mi opprimono nella vita, uno schema che si presenta con ricorrenza nei miei sogni che si trasformano poi in incubi: una montagna di lavoro da fare e, solo io colpevole, pochissimo tempo per farlo.

Dopotutto, carissimi professionisti dell’igiene, a quest’ora il vostro lavoro l’avrete ormai completato, quanto mai ci vorrà a pulire una caffetteria? Mi si è anche riaperto un po’ lo stomachino, a dirla tutta.

La corrente di pensieri si presenta all’appuntamento così come ha sempre fatto da quando ne ho ricordo. Memorie di banchi di scuola, di grembiulini neri, di gomme profumate dalle mille forme, di penne cancellabili che diverranno poi indelebili, di fogli di quaderno che si materializzano ogni anno davanti ai miei occhi di bambino in strutture differenti, nelle cui pagine ritrovo righe prestampate dalle forme sempre nuove, volte a guidare l’andamento della mia biro e dell’inchiostro che racchiude, inchiostro che su quei fogli rimarrà poi imprigionato a vita, sino all’anno scolastico in cui quelle righe diventeranno e rimarranno, di lì a venire, linee parallele dalla distanza uniforme, segno inequivocabile del fatto che, da quel momento, sarò diventato finalmente un bimbo grande.

Compare del tutto inaspettata e, allo stesso tempo, attesa e puntuale come un treno giapponese, suscitando in me l’usuale stupore di sentirla defluire dalle mie dita, pur confermando la primitiva certezza del fatto che non avrebbe tardato ad arrivare. Un concetto, questo, che mi è oscuro tanto quanto la sicurezza del fatto di non essere stato in grado di spiegarlo.

La prima parola precipita sullo schermo come una goccia di pioggia, attesa dopo un periodo di siccità che pareva non dovesse avere più fine, cade solitaria e macchia di una tonalità scura un terreno bianco, inopinatamente ricettivo, accogliente, quasi spugnoso. Le gocce successive timidamente la seguono, ognuna timorosa di essere la prima a depositarsi sul foglio immacolato, ma tutte desiderose di essere ricordate come delle pioniere, delle innovatrici; come coloro che avranno costituito la base di tutto quello che verrà dopo.

Poi la pioggerellina diventa modesta, moderata, fitta, intensa, infine uno scroscio, inondando il rettangolo luminoso di parole che si legano l’una alle altre in frasi e periodi di senso compiuto, che riempiono di kilobyte e kilobyte la memoria del mio computer portatile, formando un corso d’acqua che andrà a sfociare non si sa bene dove ma che da qualche parte, comunque, andrà; fosse anche solo lo stagno nel giardino dietro casa che mi piacerebbe possedere. Mentre fuori splende il sole

Serie: La seconda volta


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