Il Re dell’Alba

All’alba del 15 ottobre 1894, il principe Edmondo Soarte lanciò la carrozza sulla quale viaggiava sull’accampamento dei rivoltosi.

L’aveva imbottita di esplosivo, che al momento opportuno non mancò di detonare.

Quarantasette persone vennero letteralmente spazzate via. Fra queste, lo stesso principe e il giovane vetturino alla guida (di cui nessuno seppe mai dire se avesse idea di ciò che stava per succedere.)

Uomini, donne, perfino alcuni bambini vengono ricordati così, coralmente, su una lapide alla porta della città di L***:

“Intenti a curar la patria sopra se stessi,

vile mano omicida,

tal che più avria che curar di loro,

infame attentava.”

Il regno di J***, praticamente dimenticato dalle onde della Storia in quanto minuscolo, aveva atteso la morte della regina Caterina, madre di Edmondo, per scatenare la sua tardiva rivoluzione. Ma la sete di libertà della sua gente era la stessa che aveva trasportato in alto le anime nel resto d’Europa già all’indomani del Congresso di Vienna. 1821, 1831, 1848… Ultimi, gli abitanti di J***.

Infine, però, anche loro, poveretti, aspettavano sonnecchiando che si alzasse il sole, per dirigersi verso la città, dove si sarebbero uniti al resto della rivolta, al fine di esautorare la famiglia reale ed instaurare la repubblica.

Da una settimana la “Regina d’Acciaio” – come la chiamavano, non senza un senso di confuso rispetto – giaceva nella tomba di famiglia dei Soarte. Suo figlio Edmondo, primo in linea di successione, da un giorno all’altro aspettava l’incoronazione.

Era quasi l’alba. Dietro la carrozza, che lanciava fiamme in ogni direzione, lento e impetuoso insieme, sorgeva il sole.

Nelle fotografie d’epoca, il giovane principe, appena diciannovenne, mostra tratti gentili, quasi femminei. I grandi, dolcissimi occhi verdi sono schivi, ombreggiati da lunghe ciglia, simili a quelli di un animale selvatico.

Di certo non lo si direbbe adatto ad attentati bombaroli. Non si era mai mostrato entusiasta del suo destino, tuttavia neppure aveva mai dato segno di nutrire intenzioni men che nobili nei confronti del suo popolo.

Al contrario, coltivava intenti riformisti: migliorare la condizione di tutti, se possibile ridistribuire le tasse, agevolare la gioventù con prestiti allo studio… Aveva in animo persino la fondazione di una Università, che a J*** mancava.

Nella primavera del 1973, mentre il mondo intorno scoppiava nuovamente, al momento di scegliere l’argomento della mia tesi di laurea, con sommo sconcerto della mia relatrice, io scelsi lui.

Fu un vero e proprio corto circuito dell’anima, di quelli che, ignorando la soglia della morte, spingono a parlare di riconoscimento reciproco.

Smaniavo di raccontare quella storia – e quella soltanto. Ignorai tutte le difficoltà: la scarsità delle fonti, che rischiavano di ridurre il mio lavoro ad una raccolta di sentito dire; un comprensibile imbarazzo storiografico, che aveva confinato la vicenda nelle note a pie’ di pagina di qualche testo sull’epoca; soprattutto, la quasi totale incapacità di prescindere dalle attuali pretese democratiche, dai rischi contestuali inerenti all’azzardata ambizione di voler comprendere un terrorista…

Tutto imponeva la rilettura di quel gesto come l’esibizione di un idiotismo malato di reazione, incapace di accettare il progresso della storia – una specie di Francesco Giuseppe di periferia, appena più basso e rock.

“Ma perché proprio quel matto di Soarte!”

Credo che ad inquietare la mia docente fosse soprattutto la luce di fanatismo che mi brillava negli occhi.

Non avevo alcuna risposta da offrire a quel legittimo quesito, tranne la replica adatta ad un asilo d’infanzia.

“Perché sì, professoressa.”

Con un lieve sospiro, firmò il modulo che autorizzava la mia richiesta.

Da lì in avanti, conservo il ricordo di una vaga, sebbene cosciente, discesa agli inferi.

Attraversai i luoghi degli eventi in una sorta di rabbia alcoolica che non mi apparteneva, e forse per questo mi rendeva freddo e lucido in modo straordinario.

Visitai il luogo dell’esplosione, l’abitazione storica della famiglia Soarte, andai dovunque fossero confermate tracce del percorso biografico del mio soggetto.

Il nulla assoluto che ne ricavai era quasi un record della storiografia. Sempre più costernato, non mi arresi. Puntai le biblioteche, i musei locali. Ricevevo ovunque una risposta praticamente unanime:

“Soarte? Mah…”

“È impossibile!”

Mi osservava con la faccia di chi sta per esclamare te l’avevo detto.

Puntai all’essenziale.

“Come possono ignorare un fatto di questa gravità? Non sono passati neanche cent’anni!”

“Hai fatto quello che potevi.”

“Perché? Perché l’ha fatto?”

Si strinse nelle spalle.

“Sua madre era appena morta. Forse ha interpretato la ribellione come una mancanza di rispetto nei suoi confronti…”

“Era molto legato alla madre?”

“Era l’erede diretto di una delle poche dinastie europee dove il potere si trasmetteva anche in linea femminile… Chi può dire cosa scateni questo, in un uomo?”

“Ci mancano solo le derive femministe!”

“Me l’hai chiesto tu…”

Non mollai.

“Magari si è sentito tradito dal suo popolo… Forse sapeva che sarebbe stato un buon re, e veder buttare via tutto così…”

Ma non avevo idea di cosa stessi cercando.

Doveva essere per questo, che non lo trovavo.

“Vieni in istituto. C’è una cosa che devi vedere.”

Sospettavo che avesse una proposta delle sue, del tipo perché non proviamo con quest’altro argomento, non puoi immaginarti quanto materiale disponibile… D’altro canto, sembrava un’altra delle mie inutili giornate a caccia di fantasmi. Non ci vedevo nulla di male, in una pausa pranzo anticipata.

Mi venne incontro sulla porta dell’istituto, col sorriso di una bambina che ha appena scartato il regalo di compleanno.

“C’è un testimone.”

È quasi un miracolo che sia riuscito ad aspettare fino a dopo le ordinazioni al ristorante.

Mi dicevo che era semplicemente impossibile che avesse scovato qualcosa che a me era sfuggito.

“Avrà almeno mille anni” commentai, mentre aspettavamo al tavolo.

Mi rivolse un sorriso decisamente enigmatico.

Fu solo mentre prendevamo il caffè che mi fece scivolare attraverso il tavolo un foglietto di carta, con l’indirizzo di una casa di riposo di L***.

“È una sopravvissuta, anche se era molto piccola, all’epoca…”

Il cuore mi diede un balzo nel petto. D’improvviso avevo la bocca arida.

“Non sapevo di sopravvissuti…”

“Ce ne sono stati un paio… Ho impiegato un po’, a trovarti i nomi.”

Evitai di commentare, soprattutto perché non volevo interromperla.

“Ha passato la settantina… Non è messa molto bene. Ma si ricorda di ciò che è successo. A quanto pare, nell’attentato ha perso tutta la famiglia…”

Riaffondai nella sedia, con un moto di sgomento.

“Ci vuole il coraggio tuo, a definirla testimone…”

Replicò con l’ennesimo, quieto sorriso, oltre il tavolo sparecchiato a metà. Sembrava una divinità sopra un altare cosparso di briciole.

“Vai a parlarci, Giona. Non abbiamo altro.”

La clinica era immersa nel verde, i pavimenti erano lustri e i vasi di fiori, posizionati a intervalli regolari lungo i corridoi, si studiavano di mascherare, senza peraltro riuscirci, l’odore di disinfettante.

Ciondolai nei dintorni un paio di giorni, prima di decidermi a saltare il fosso. Ci andai che era quasi sera, avevo fame ed ero stanco, di una stanchezza da finiamola qui.

Qualunque cosa mi avesse detto la signorina Elsa, l’avrei accettata senza discutere, sarei tornato a riferire, e fine.

Dopodiché, mai più avrei rivolto un solo pensiero da sveglio ad Edmondo Soarte e all’inevitabilità destinica del suo sbriciolarsi nel maledettissimo scoppio di quella bomba di merda.

“La signorina è abbastanza lucida, ma a volte va in agitazione… Se potesse evitare le domande troppo evocative…”

L’apprensione su quel volto materno di caposala responsabile mi spinse ad annuire con compunta convinzione. Tuttavia, mentre camminavo dietro di lei, mi chiedevo sinceramente come distinguere una domanda neutra da una evocativa.

La signorina Elsa, fasciata oltre l’umano da un abito di pizzi antichi che pareva saldare insieme la fragilità di quelle sue ossa consunte, mi si rivolse con una cortesia d’altri tempi.

“Lei è il giovanotto che ha chiesto di parlare con me? Per la sua tesi di laurea, vero?”

“Sì.”

Mi guardava sorridendo. In lei ogni cosa, anche la curiosità, pareva una faccenda vagamente antiquaria. Mi parve dopotutto assai lucida.

Così decisi di parlare.

“Volevo sapere di Edmondo Soarte…”

La vecchia donna si rovesciò indietro sulla poltroncina, mentre i suoi tratti si deformavano, come se si ripetesse, sotto i miei occhi sbalorditi, l’esplosione lontana che l’aveva strappata all’amore dei suoi cari.

Quasi venisse a cercarla, raggiungendola attraverso l’abisso del tempo trascorso – no: come se nessun abisso fosse mai esistito.

“Il Re dell’Alba! Signore, perdonaci tutti! Lui viene, guidando il suo carro di fuoco, per punire i suoi servi ribelli! Oh, ci brucerà tutti!! Il Re dell’Alba… Signore, perdonaci… Perdona ai tuoi servi malvagi…”

Le sue urla, sconnesse e insieme disperatamente evocative, m’inseguirono mentre fuggivo da lei. Come un fiume in piena dietro di me, m’incalzarono lungo i corridoi come cose vive, e poi nei sogni – belve ostinate che mi braccavano, per divorarmi l’anima.

Avevano l’accento di una verità che avevo inseguito con ostinazione, bramato, persino.

E che tuttavia, ora lo sapevo, non sarei stato mai capace di accettare.

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Discussioni

  1. Mi sono sorseggiata lentamente la tua narrazione impeccabile come fosse una tazza di cioccolata fumate elegantemente servita in un caffè. La storia non la conosco e non so se andrò a curiosare perché credo che la tua versione sia veramente soddisfacente. La scena della signora che si lancia all’indietro e rivive l’emozione della tragedia è veramente forte. Ultimo, ma non ultimo, la storia nella storia, molto azzeccato. I miei complimenti

  2. “All’alba del 15 ottobre 1894, il principe Edmondo Soarte lanciò la carrozza sulla quale viaggiava sull’accampamento dei rivoltosi”
    Che incipit sontuoso.

  3. un sovrano che si uccide per reprimere una rivoluzione nel suo stesso regno: un gesto nihilistico, una vendetta più che una restaurazione. E la data, che rimanda a Dreyfus. Poi il 1973, col mondo che prende fuoco. E infine quella testimone oculare che si esprime in toni da profeta biblico… ho la sensazione che tu abbia viaggiato con la fantasia attraverso la Storia per metterne in luce la violenza che non se ne separa mai. Molto interessante.

  4. Che bello!
    Sei partita da un elemento quasi “normale, ovvero il ragazzo che deve scrivere la tesi, per costruirci attorno un racconto incredibilmente strutturato e pensato in ogni dettaglio.
    Hai uno stile narrativo molto coinvolgente, che profuma d’altri tempi.