Il Saraceno

Gli occhi dei guerrieri saraceni raccontano il fuoco di antiche battaglie. Le loro mani fremono come lame ricurve tra i corpi mutilati dalla loro ferocia predatoria. Il sangue versato diventa simbolo di potere e le razzie diventano il premio. Ma nei loro occhi vive anche il riflesso di un desiderio di riscatto nei confronti di una cultura millenaria che ha saputo trasmettere al mondo l’orgoglio di un popolo che naviga e cammina pur di ripararsi dallo sguardo di un occidente che avanza travolgendo tutto, anche l’onore di un guerriero venuto da lontano per vendicare i suoi antenati.

Così cantavano gli antichi e così io recito. Lo faccio solamente per mettervi in guardia. Perché non vi troviate ad essere impreparati quando i vostri occhi incroceranno i suoi.

Viaggiare, seduto accanto a persone che non conosco, mi ha reso ciò che sono: un artista della fantasia, un pensatore, un timido sognatore. Osservo e quasi mi infilo negli abiti e nella vita di persone sconosciute domandandomi se i loro desideri siano simili ai miei e se anche loro osservino me come io osservo loro. E in quelle ore notturne, quando finalmente stacco dalla vita reale, dal sudore di quelle pile di piatti lavati a ritmo di comanda, con un sorriso finto disegnato sulla faccia, mi concedo la libertà di guardare il mondo che mi circonda. Lo faccio sopportando il rumore dei vagoni che corrono sulle rotaie spinti dalla furia delle locomotrici moderne. Le chiamano metropolitane, ma per me sono dei treni che inseguono il futuro nella speranza di attraversarlo e superarlo per vedere se esiste un “dopo”… sempre che un dopo, per noi tutti, ci sia. E non è raro che mi capiti di incontrare uno sguardo curioso come il mio, a volte stanco, a volte annoiato, ma pronto a sorridermi di sottecchi perché nessun altro se ne accorga. Un gioco di sguardi tra me e chi mi sta di fronte. Non dura molto, ma abbastanza perché io mi ci perda dentro e inizi a sognare.

Ed è stato proprio al risveglio, dopo una tratta composta da decine di abbondanti minuti trascorsi su uno scomodo sedile, che incontrai i suoi occhi: scuri ma così brillanti da assomigliare a luci accese nell’oscurità di un volto che non riuscivo a distinguere. Era nascosto sotto un lungo cappuccio nero, mentre il resto del corpo era avvolto da un impermeabile molto ampio. Sembrava possedere una corporatura molto imponente e sicuramente, in altezza, superava il mio metro e settantacinque. Avevo intravisto una leggera barba bianca a ricoprire il suo mento olivastro e provai quasi un brivido quando vidi le sue labbra serrate, immobili a qualunque moto dell’anima: fastidio, curiosità, noia. Anche i suoi occhi sembravano fissarmi e ignorarmi allo stesso tempo. Lo capii perché qualunque cosa io provassi a fare, lui rimaneva immobile. Iniziai a sentirmi goffo e a disagio. Per un attimo ebbi anche la tentazione di alzarmi e cambiare posto, ma non volevo apparire infantile o sciocco a trentacinque anni d’età. Il vagone era pieno anche se la gente sembrava indifferente a quel nostro duello di sguardi. Non trovai altra possibilità se non quella di limitarmi a fissarlo a mia volta, sicuro com’ero che non gli importasse. Ma un rumore metallico attirò la mia attenzione. Non era il rumore in sé ad attrarmi quanto il fatto che provenisse da sotto l’ampio soprabito che indossava. Fu allora che abbassai lo sguardo cedendo alla curiosità di scrutare meglio. E forse lui capì ciò che i miei occhi cercavano perché d’improvviso mosse un ginocchio allargando il soprabito dalla vita in giù. Intravidi un ginocchio e … un’elsa d’argento. Era proprio l’elsa di una spada. A dire il vero era il mio cervello ad esserne sicuro avendo proposto ai miei occhi l’immagine una spada. Mi era bastato osservare quel manico ad arco intagliato in un materiale simile all’argento e finemente decorato con disegni dal gusto orientale simili a linee che si catturavano le une con le altre creando sottili armonie floreali. L’uomo lo stringeva in modo deciso con la sua mano guantata di nero. La mano di un cavaliere, avrei giurato. A dire il vero non riuscivo a vedere se oltre a quel manico ci fosse un bastone o la lama di una spada probabilmente protetta da un fodero. Del resto al mio cervello poco importava. Importava più al mio cuore che ingoiava i battiti seguendo il ritmo con cui la mia gola ingoiava la saliva. Mi sentivo ridicolo: provavo paura, ma non ne capivo la ragione. Quell’uomo non aveva fatto nulla di male eppure io lo temevo. Temevo ogni sua possibile mossa. Ci fu un fischio sordo, non era stato causato dal sistema d’emergenza, ma proveniva comunque dall’interno del treno. Si alzò un brusio di voci chiacchierate e l’uomo si sollevò di scatto, cogliendomi di sorpresa. Ebbi un sussulto, ma l’uomo sembrò non farci caso. Provai a sollevare gli occhi alla ricerca del suo viso, ma il largo cappuccio gli era sceso fino all’altezza del mento: vedevo solamente quel leggero strato di barba bianca e due labbra serrate. Sebbene non riuscissi a trovare i suoi occhi, ero sicuro che mi stesse fissando. Poi si girò e si avviò lasciandomi lì a fissare quella sagoma scura che si allontanava. Fu l’istinto a guidarmi, forse, perché, poco dopo, mi alzai e lo seguii. Fummo gli unici due passeggeri ad alzarci, gli altri erano rimasti al loro posto dato che il treno era ancora in movimento. Uno dopo l’altro varcammo la porta del vagone entrando all’interno di un altro vagone completamente vuoto. Si voltò e mi sembrò di scorgere un sorriso, ma non ne ero sicuro. Poi si girò avvicinandosi alle porte d’uscita, tirò il freno d’emergenza e quasi caddi a terra a causa della brusca frenata. L’uomo non attese che le porte automatiche si aprissero. Afferrò con le mani le estremità delle due porte e spinse con una forza che non sembrava quella di un comune uomo e continuò a spingere fino ad aprirle completamente. Fu allora che si voltò nuovamente verso di me e chinò brevemente il capo rivolgendomi quello che interpretai come un gesto di saluto. Saltò giù dal treno ancora in movimento e scomparì tra le ombre nere del tunnel che stavamo percorrendo. Mi avvicinai alle porte nella speranza di rincorrerlo almeno con lo sguardo, ma sui binari vidi solamente il suo soprabito. Più lontano scorsi un bagliore dalle sfumature argentate: immaginai quella spada che roteava nell’aria e mi parve di sentire una voce invocare le note di un antico canto di guerra.

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