Il senso di Anita per la lana

Un diritto e un rovescio, un diritto e un rovescio, diritto e rovescio.

Se la vita fosse stata una maglia a legaccio, nonna Anita sarebbe stata maestra.

Ad insegnare alla gente, paradossalmente, ai suoi tempi, erano proprio le persone alle quali la vita aveva donato e preso: un diritto e un rovescio, un punto catenella e uno che cade, un ago del 3 piuttosto che del 5.

La maglia era un convitto esuberante di punti scalati o aumentati, di trame fitte o a grana di riso.

La vita pure.

Gli aghi di nonna erano in ferro e colorati: verde petrolio, rosso carminio, blu oltremare, a seconda del diametro.

Li riponeva tutti in un astuccio di stoffa, a farsi coraggio l’uno con l’altro.

Oggi i ferri moderni e in plastica grigia, senza memoria né sapore, si trovano segregati in solitari astucci di celluloide trasparente.

Una volta la differenza la faceva l’unione: tra gli aghi, come nelle famiglie, come per la vita.

Alla nonna il destino aveva calato subito un rovescio: la poliomielite ad una gamba l’aveva aggredita sin da bambina.

Aveva vissuto, da allora, con un apparecchio metallico all’arto offeso, come le fosse caduto un punto dai suoi aghi e tutti i giorni dovesse, abilmente, rimetterlo al suo posto.

Qualunque filo le venisse dato, qualsiasi maglioncino le si chiedesse di confezionare, era scaltra nello scegliere l’ago del diametro giusto, altrimenti la trama sarebbe risultata troppo spessa o troppo rada.

Aveva la pretesa di lavorare così anche la vita: sferruzzando celermente per anticiparla, calando i punti per rallentarne il gioco avido ed aumentandoli per predisporla a nuove opportunità.

Tante sapevano lavorare bene la lana, ma nessuna come lei: sentiva che il filo, una volta sposato al punto prescelto, ne avrebbe memorizzato la forma e che, rimagliandolo, non avrebbe più potuto garantire un buon risultato finale.

La vita pure.

Nonna, ancora giovanissima, incontrava Giovanni, indifferente alla sua andatura zoppa: le farfalle che nonno sentiva nello stomaco facevano, forse, più rumore dell’apparecchio della bella Anita.

L’amore, spesso, ha maglie fitte e complesse; in altri casi, i fili si mescolano senza essersi scelti, maritandosi l’un con l’altro per l’eternità.

Un po’ come il per sempre che avevano recitato i nonni al loro matrimonio.

Gestivano un bar in paese: l’unico di allora, il primo a potersi permettere il televisore e una macchina per fare il gelato.

Dietro al bancone lavorava anche nonna, distraendosi, quando possibile, con un diritto ed un rovescio, quasi le sue mani trovassero giusta collocazione proprio tra il freddo degli aghi ed il caldo della lana.

Clic clac, clic clac: col suo apparecchio faceva tutto, quasi non l’avesse.

Anche i figli le aveva riservato la vita, contro ogni previsione: Francesco prima ed Eugenio poi.

Di quelle nascite donate dal destino, come soffi di vita nuova, nonna aveva sempre temuto la resa dei conti: immaginava che quelle concessioni materne le sarebbero costate molto.

Ma, allora, non c’era tempo per pensieri bui.

Le sue operose mani erano costantemente occupate ad imbracciare i ferri da maglia per confezionare corredini, cuffiette, calzine, copertine di culle, tutine, guanti.

Un diritto ed un rovescio, un punto traforato ed uno inventato: instancabili, i ferri dialogavano in velocissimi tic tac, tic tac, tic tac.

Nonna sapeva lavorarsi dentro la maglia: dava vita a capolavori in cui sarebbero rimaste impresse le vicissitudini della sua vita.

Il rito della lana le era servito per esorcizzare quei rovesci che la vita non aveva avuto pietà di scatenarle contro… contro natura.

Come la perdita di un figlio.

E il sopravvivergli di un genitore.

Così nonna Anita si separava dal suo Francesco, senza preavviso.

Quella notte l’avevo trovata accomodata non vicino alla stufa, come sempre, ma su una sedia accanto al telefono: era rimasta lì, anche dopo aver alzato la cornetta per rispondere alla telefonata che nessuna madre vorrebbe mai ricevere.

La morte ha modi crudeli di presentarsi sull’uscio di casa: uno di questi è farsi anticipare da una telefonata.

Era così diversa nonna in quell’angolo: così segnata, così rassegnata alla vita, perché, continuava a ripetere, la morte avrebbe dovuto portarsi via lei, vecchia ed inferma, non un figlio così giovane.

C’erano buchi che gli aghi non avrebbero mai saputo rammendare, neppure cambiando loro diametro o tipo di filato o senso del lavoro: e lei lo sapeva bene.

Dalla loggia arcuata, da cui si affacciava al mondo, velando trascorsi dolorosi, la ricordo sempre sorridente, coi capelli raccolti da forcine, cogli occhiali calati sul naso e i pollici delle mani che faceva ruotare uno sull’altro, incapaci di rimanere immobili ad oziare.

Nonna aveva continuato a lavorare la lana anche dopo la perdita del suo Francesco, anche dopo l’addio al suo Giovanni: avrebbe voluto scaldarci tutti coi suoi capolavori, per proteggerci da quello che la vita avrebbe, crudelmente, avuto in animo di riservarci.

Qualche suo ago lo conservo ancora nella madia che troneggiava nella sua cucina e che ho recuperato, sistemandola nel mio piccolo laboratorio: non mi diletto nella sua arte, ma vesto i suoi ferri di altri significati, di progetti moderni.

Forse, dalla nonna, ho ereditato quella speranza, tutta femminile, che qualcosa fatto con le proprie mani, intriso di passione e di mestiere, possa redimere il destino delle persone a noi care.

O, perlomeno, tenerci occupate nell’illusione che ciò possa realmente accadere.

Vorrei avere la saggezza di Anita nell’infilare due paia di occhiali sovrapposti per vedere i punti al meglio: per prendere così anche la vita, senza rancore, come aveva fatto lei.

Lei, così “semplice” da escogitare quell’espediente vitale di convogliare il dolore tra la lana per modellarla a proprio piacimento, come la vita, invece, le aveva impedito di fare.

A me basta strofinare le mani sui suoi ferri freddi e sentire che si scaldano: un suo gesto che ripeto, nell’intento che quel caldo la raggiunga, ovunque sia volata.

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