La ragazza di vetro

Pietro non sapeva come si chiamasse la ragazza di vetro.

Sapeva solo che passava di fronte al suo negozio tutte le mattine, da anni, con una borsa più grande di lei in spalla e il passo frettoloso di chi smania per raggiungere la sua destinazione.

La ragazza di vetro sarebbe stata bella, pensava Pietro. Coi suoi capelli neri, lunghi, e le mani eleganti, strette attorno al collo per tenere accostata la sciarpa anche in estate.

Era una figura che non scompariva tra la gente, per quanto sembrasse volerlo.

Non sapeva nemmeno quando aveva iniziato a chiamarla così; forse un giorno d’inverno, quando la visione di quella donna sotto la neve gli aveva ricordato un’eterea statua di ghiaccio, brillante e trasparente. «La ragazza di ghiaccio» però non sarebbe stato appropriato alla compassione che gli straziava il cuore ogni qualvolta che la osservava, e così era nata lei: la ragazza di vetro.

La ragazza di vetro non sembrava conoscere nessuno, in quella strada, nonostante la percorresse tutte le mattine; non si fermava mai a salutare, né a scambiare due parole. Sembrava impermeabile a qualsiasi stimolo esterno, persa nella sua marcia rapida verso luoghi che Pietro sarebbe stato curioso di scoprire.

Non si era mai soffermata su una vetrina o su un passante. Forse era interessata ad altro, ma era difficile immaginare a cosa: camminava a testa bassa, le spalle curve, schiacciata da un peso invisibile che la rendeva più piccola di quanto non fosse.

Pietro si era chiesto più volte come potesse, quell’anima, non spezzarsi sotto ad un peso simile. Poteva quasi vederlo: scuro e massiccio, gravare sulle sue spalle.

Qualche volta aveva pensato di parlarle, aveva immaginato anche la scena nella sua mente.

«Signorina, posso offrirle qualcosa?» avrebbe chiesto. O forse no, anzi, decisamente no. Molto probabilmente le avrebbe semplicemente sorriso, cercando di trasmetterle almeno parte di quel sentimento che gli suscitava.

Avrebbe voluto proteggerla, quella ragazza sempre di fretta eppure ferma nella stasi di una routine che si ripeteva uguale, senza clemenza e senza spiraglio di cambiamento. Avrebbe voluto abbassare la sciarpa dentro la quale nascondeva il volto, per vedere se anche gli occhi fossero di vetro o se, invece, fossero estranei al gelido torpore che permeava la sua intera figura.

Se li immaginava quasi: pieni di vita e di sconfitta, di dolore forse, eppure caldi.

Anche altri avevano notato la ragazza di vetro. Era una realtà piccola, quella di Pietro, in cui le figure anomale venivano adocchiate e schedate, e lei sicuramente rientrava nei canoni dell’anomalia, stagliandosi di netto nel via vai sfaccendato e cicaleccio del mattino paesano.

«Rieccola» aveva sentito commentare talvolta, e altri commenti meno gentili che i suoi clienti avevano manifestato, seduti al bancone per la colazione.

Veniva seguita dagli sguardi curiosi, come se non si stancassero mai di notarla.

Eppure, Pietro aveva la presunzione che nessuno la vedesse davvero. La guardavano sfilare, come un oggetto d’interesse, ma riuscivano a vedere la scura e pesante compagnia che si portava appresso? Era palese, evidente quasi, eppure gli altri vedevano solamente un guscio di donna, ovattata e sorda.

A volte, Pietro, aveva invece pensato che la ragazza di vetro fosse consapevole di tutto e che sfilasse a testa bassa proprio per evitare gli sguardi, per non trovarsi nella situazione di dover spiegare.

Spiegare cosa, poi? Cosa fosse quell’enorme macigno che si trascinava dietro?

Forse era per quello che andava così veloce quando camminava per la strada. Sia per evitare gli occhi dei compaesani sia perché, se si fosse fermata, le sarebbe stato impossibile smuovere nuovamente quel peso. Andava avanti, combattendo la legge dell’inerzia.

Poteva immaginarsi la sua figura, ferma, incapace di muoversi se si fosse permessa di venir travolta da tutto ciò che cercava disperatamente di ignorare, immergendosi anima e corpo nella sua marcia da battaglia. Pietro, nell’egoistico tentativo di spiegarsi come la ragazza di vetro si fosse arresa all’apatia che trasudava, si era convinto che si fosse scordata di cosa significasse vivere. Doveva essere così; non concepiva altri possibili motivi per cui qualcuno dovesse abbandonarsi a quel monotono oblio.

Accadde una mattina che la ragazza di vetro, per la prima volta, rallentò il passo di fronte al negozio di Pietro. Oscillò, scostando una mano dal collo e lasciandola sospesa a mezz’aria come a voler riprendere un equilibrio perso. Anche il suo sguardo si fece perso e la sua figura, così fuori dal contesto una volta interrotto il suo movimento meccanico, arrancò.

Fu con stupore che Pietro la vide voltarsi lentamente ed entrare nel suo locale, con fare religioso, come se accedesse ad un luogo di culto.

«Buongiorno, potrei avere un caffè, per favore?»

Pietro annuì in automatismo, sconvolto dalla quella presenza nel suo bar. Era come se un’illusione si fosse fatta reale e avesse deciso di entrare nella sua quotidianità.

Mentre sistemava la polvere marrone seguì con la coda dell’occhio l’ombra della donna sedersi ad un tavolino.

Anche la ragazza di vetro, alla fine, si era fermata.

Stava lì, immobile, con le mani non più a tenersi la sciarpa ma a serrare i bordi del tavolo, saldamente ancorate alla realtà per mezzo del legno.

«Macchiato?» chiese Pietro, desideroso di sentire nuovamente la sua voce.

«No, grazie». La risposta era stata rapida, quasi precipitosa. Quasi spaventata.

Pietro le portò il caffè, con cura. Temporeggiò al tavolino, e alla fine si decise a trattenersi, diventando per un attimo un avventore come tanti.

«La vedo spesso passare di qua. Era ora che si decidesse a provare il mio caffè. Dicono che è il migliore di San Lorenzo a Merse».

Fu sicuro che la ragazza di vetro sorridesse, al di sotto della sciarpa.

«Non è forse questo l’unico bar di San Lorenzo?»

Pietro restò ammaliato dal fatto di aver ricevuto una risposta, a tono per l’aggiunta. Sorrise, di rimando.

«Touché. Ma aspetto comunque un parere».

Voleva sentirla parlare di nuovo ma, più che tutto, voleva che alzasse lo sguardo. Voleva vedere, finalmente, l’umanità in quella figura così aliena.

La ragazza bevve il caffè con un gesto meccanico.

«È buono, grazie». Ma non sembrava averlo assaporato; l’aveva buttato giù, con le palpebre abbassate, quasi fosse una medicina.

Pietro rimase per qualche attimo ancora fermo, in silenzio. Ora che la osservava da vicino il suo cuore era ancor più travolto da quel senso di protezione ancestrale.

Non avrebbe saputo darle un’età: le mani screpolate dal freddo dimostravano una struttura adulta, eppure faticava ad appellarla, nella sua mente, donna. Anche a mezzo metro di distanza manteneva quell’alone di malinconia e rimaneva, sempre, la ragazza di vetro. Anzi, le ricordava quasi una bambina, nelle sue fattezze e nelle sue gestualità timide; poggiava gli oggetti sul tavolo pacatamente, cercando di limitare qualsiasi rumore. Di rumore, il suo corpo ne faceva indubbiamente poco, eppure la sua presenza gridava un richiamo forte, che Pietro non riusciva ad ignorare.

Avrebbe voluto dire qualcos’altro, ma le parole gli erano morte in gola, schiacciate anch’esse dal macigno dell’altra, così ingombrante da essere arrivato a premere anche sull’anima di Pietro. Non sapeva cosa fare, timoroso che qualsiasi gesto o frase avrebbero potuto aggravare il precario equilibrio su cui la ragazza di vetro sembrava aver trovato quiete.

Si limitò ad attenderla al bancone, lo scontrino pronto e la malinconia addosso.

«Un euro».

Lei prese la moneta, la poggiò sul bancone.

«Arrivederci» disse.

«Arrivederci».

In quello scambio rapido alzò lo sguardo e Pietro rimase pietrificato; le vedeva finalmente gli occhi.

Vedeva oltre quello sguardo gentile, fino a poter scrutare le iridi scure: niente. Tutti i suoi castelli crollarono, di fronte alla realizzazione che il calore del suo cuore non era riflesso negli occhi della ragazza. Semplicemente, il niente. Cercò più a fondo, cercò di sorridere, ma il sorriso che ottenne di rimando continuava a non espandersi agli occhi vuoti.

La ragazza di vetro era apatica, come un guscio fragile e cristallino che non contenesse altro che tenebre confuse.

La guardò allontanarsi sotto al suo macigno, chiedendosi per un’ultima volta come facesse a non spezzarsi, prima che la consapevolezza finale giungesse alla sua mente; la ragazza di vetro era già in frantumi.

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Discussioni

  1. Mi ha ricordato un po’ il film Malena, nell’ottica di un protagonista che si innamora di un ombra di donna che tutti i giorni fa le « vasche » nella piazza centrale , attirando lo sguardo e le considerazioni di tutti, sia in bene che in male. Lo sguardo trasognato di colui che scrive non fa che alimentare un mito che si alimenta con le supposizioni date da brevi ma significanti analisi di una donna di vetro… la mia che mi sono fatto è che sicuramente questa donna potrebbe essere straniera, in un contesto atipico

    1. Non ho mai visto quel film, chissà che non mi capiti un giorno…
      Non l’ho mai pensata come una straniera, ma chissà; magari a modo suo lo è, in una realtà familiare ma in cui non trova empatia.
      Grazie del feedback!

  2. Una scrittura scorrevole e un racconto interessante, che trascina, per la curiosita´ di conoscere il mistero nascoto nella ragazza di vetro. Un mistero, in parte svelato nel finale e in parte ancora oscuro. Fragilita´, aridita´ o apatia? Si direbbe, comunque, che nei suoi occhi appaiano le tenebre dell’anima. La sensazione che trasmette e´ un brivido di freddo e di tristezza.

    1. Sono felice di essere riuscita a trasmettere un brivido gelido che, forse, era proprio quello a cui aspiravo. Nella mia mente la ragazza di vetro ha una storia specifica, ma è bello vedere cosa suscita negli altri. Grazie di aver letto e di aver lasciato un commento!