La società ti vuole felice e ti dice come fare, ma alcuni non sono convinti
“È indietro”, “ha bisogno di tempo”, “è rimasto adolescente”, “non vuole rassegnarsi a crescere”.
Che alcune persone abbiano una difficoltà cronica a crescere presuppone che ci sia un modo principale di crescere. O un insieme di facoltà, di abitudini, di decisioni, che portano a crescere. All’incirca queste.
Concludere un percorso di studi.
Trovare un lavoro e portarlo avanti.
Cambiare il lavoro che si ha, nella speranza di migliorare la propria condizione -questa operazione può essere ripetuta una quantità indefinita di volte, spesso in maniera sconnessa rispetto alla volontà del soggetto, che procede bene o male alla cieca.
Innamorarsi.
Portare avanti la relazione.
Accasarsi, nelle modalità prescelte: matrimonio, convivenza, unione civile… l’importante è che si viva insieme.
Figliare.
Dopo aver figliato non ci sono altri step attesi. Forse solo la sopravvivenza e il tentativo sfrenato di non perdere tutto quel che si è conquistato prima dell’arrivo dei pargoli: il lavoro, l’amore, una vita sociale dignitosa, un corpo dignitoso. Insieme, ovviamente, al garantire una crescita sana e creativa, equilibrata dei pargoli. Che non è poco, non è poco per niente.
L’adesione al percorso presuppone la capacità di smettere di sognare, la famosa rassegnazione, la rinuncia alle convinzioni adolescenziali. Per fare questo occorre convincersi che ci si era sbagliati. Che non sognare è il vero sognare. Che la rinuncia e la rassegnazione sono la vera libertà. Consultare un prete o una religione aiuta.
Una gran parte delle persone riesce a seguire questo percorso in maniera più o meno lineare. Magari con adattamenti, tempi accelerati o dilatati entro certi limiti accettati. Con intorcinamenti, svolte e inversioni a U. Sono ammesse piccole variazioni, tollerate in base al principio che rispettare la propria personalità è uno dei requisiti per arrivare alla felicità.
Ma a grandi linee la strada che ci si aspetta è questa: studia, lavora, accàsati, figlia, sopravvivi, sorridi, ciao.
Il percorso descritto costituisce un’aspettativa sociale che però diventa individuale, interiorizzata. Il soggetto (quasi tutti i soggetti), pur con i suoi tempi e i suoi adattamenti, si aspetta che la sua vita si svilupperà in quel modo. In giovinezza può rifiutarlo, negarlo, gridare al mondo che non lo avrà. Ma ad un certo punto “l’esigenza del percorso” lo raggiungerà e comincerà a camminargli a fianco. Dopo un po’, lui o lei guarderà a quei compagni delle superiori che stanno insieme dai 16 anni, sposati, con figli, con la casa a massimo 200 metri dai suoceri, e penserà: “si sono arresi presto, ma si sono evitati tutta la fatica di scappare a un destino che ad un certo punto desideri”.
E perché lo desideriamo? Perché siamo convinti che attraverso il lavoro e le relazioni sociali, in particolare quelle familiari, passi la realizzazione personale. E tutti vogliamo essere realizzati. Che è un modo per dire “felici in maniera socialmente accettabile”.
Socialmente accettabile significa che:
Devi produrre (avere un lavoro), “per far progredire la società”;
Devi essere in coppia, perché se no fai casino e disturbi l’ordine altrui;
Devi generare nuovi esseri umani, perché se no sfogherai la tua creatività in altri modi, e disturberai l’ordine altrui;
Devi essere sano, snello, e se non sei sano o snello devi curarti e cercare comunque di essere di buon umore e positivo. Altrimenti disturberai l’ordine altrui e graverai sul bilancio dello stato;
Devi andare in giro vestito da grande, pochi colori e comunque abbinati bene;
Devi avere una casa, pulita.
Per mettere una spunta a questa lista di doveri -ogni giorno della tua vita, anche se sono ammesse sporadiche cadute di stile e qualche saltuario periodo di perdizione, purché breve- l’uomo e la donna svolgono quel che Luca Rastello chiamava “il lavoro grigio”. Il lavoro grigio è il lavoro interiore necessario a conformarsi a quel che la società si aspetta da noi. E che magari non fa per noi, ma non siamo nella posizione di rifiutare perché abbiamo bisogno di appartenere a quella società (maggioritaria, di successo, funzionante, normotipica, bella e instagrammabile).
C’è qualcuno che non ci sta, che non si adegua, che non “cresce”. Si ritrova con gli amici in qualche circolo Arci dove fa tardi la sera; beve parecchio e mangia di gusto; magari si fuma una canna al giorno; si ostina a non procreare; viaggia come un matto, una matta, come può; russa al rientro, perché dorme male, appesantito dall’alcool e dagli orari sballati, quindi ha le occhiaia e tossisce; lavora come riesce; è fidanzato se innamorato, poi basta.
Qui a casa mia c’è una (“io”) che sarebbe contenta di omologarsi e figliare. E uno (“lui”) che dorme di là, russando, dopo aver fatto le quattro e mezza del mattino.
Io si chiede se si troverà un compromesso con lui, e dove, e quando, e come, e se sì perché.
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Ciao Valeria, davvero interessante questo tuo primo lavoro. Ci proponi un’analisi spietatamente triste: l’omologazione alla società quale tomba della nostra estrema indipendenza e dei nostri sogni; il rifiuto di questa omologazione per preservare fino in fondo il proprio essere. Tutto giusto dal punto di vista dell’individuo, un po’ meno se il punto di vista cambia. La società non è solo un insieme di individui, è anche un’entità singolare; il gruppo di appartenenza, la famiglia, la coppia sono entità singolari. Prendiamo la coppia: tempo fa una mia amica diceva sempre che nella coppia ci vuole equilibrio, io non sono mai stato d’accordo. L’equilibrio mi fa pensare al tiro alla fune, secondo me invece ci vuole compromesso, affinché la coppia sia davvero un’unità organica parzialmente diversa dalle due unità individuali che la compongono. E cosi’ per ogni tipo di gruppo, fino al più grande che è la società.
Ma allora i ribelli, gli anticonformisti? Servono come il pane, il progresso della società passa sempre dalle loro mani. Dal loro ribellarsi a essa è proprio la società a trarne beneficio.
Capire l’altro non significa necessariamente accettarlo, men che meno essere d’accordo. Questo monologo sembra suggerire fortemente questo concetto prima di tutto. Capire le ragioni dell’altro fino a spiegarle nel dettaglio, interiorizzarle, contestualizzarle. Ma non farne la propria ragione. Chiedersi, invece, se prima o poi si riuscirà a farne una sintesi con la propria ragione. Per il bene di entrambi.