L’eroe

Ogni giorno che passava, il riflesso che gli restituiva lo specchio diventava sempre più insopportabile. Era un uomo enorme, enorme nel senso di grasso, imprigionato in una gabbia di carne e insoddisfazione. I suoi occhi spenti avevano fatto un patto con l’assurdo, accettando la tragicomica farsa della vita tingendo tutto ciò che vedevano di un sarcasmo nero e crudele. Le occhiaie spesse e nere, due sipari sul teatro dell’assurdo. Si trascinava con una pesantezza caricaturale attraverso i giorni, le ore, le stanze, il supermarket, e i fast food che raramente frequentava, preferiva sempre optare per le consegne a casa: si sentiva un souvenir ridicolo appoggiato sul comodino dell’esistenza. Il suo viso pendeva giù, ed era inglobato da un triplo mento che si mangiava il collo e si appoggiava sul resto del corpo che faceva preconizzare alla gente che incrociava, le rare volte che usciva di casa, un colpo fatale. Era un uomo imprigionato in un ciclo di routine. Ogni mattina, al suono insistente della sveglia, si trascinava fuori dal letto, sentendo il peso di ogni movimento. La cucina era il suo primo rifugio: piatti semplici, ripetitivi, fritti, consumati più per abitudine che per gusto. Le finestre della sua cucina, spesso chiuse, lasciavano entrare solo un barlume di luce, filtrato attraverso tende impregnate da centinaia di strati di fumi di cibi fritti. La luce del sole, debole e incerta, disegnava sulla geometria delle vecchie piastrelle ingiallite, dei piccoli cristalli di luce dai quali partivano raggi luminosi in cui abitavano particelle di pulviscolo, che, un osservatore con parecchia fantasia, se si trovasse ad osservare la stanza, potrebbe immaginare come piccole concrezioni ultra pressate di energia tragica pronte a esplodere creando un universo in cui la disperazione si espande all’infinito. L’aria dell’appartamento carica di odori persistenti di cibo cucinato giorni prima e mai completamente dispersi. Non apriva le finestre nemmeno per arieggiare; era come se temesse che l’aria fresca potesse in qualche modo disturbare l’equilibrio precario del suo rifugio. Le pareti bianche tendevano ormai grigio, gli sembravano rassegnate al processo di intristimento entropico. Lui non si sognava nemmeno di dare una mano di bianco. L’ultima volta che aveva pensato lontanamente al concetto di “dare il bianco” fu quando dal suo panino preso in uno dei fast food del centro commerciale dietro casa, era schizzata un po’ di salsa sul muro che era colata un po’ giù come una lacrima ultra calorica. Anche i suoni sembravano soffocati, come se l’aria densa smorzasse ogni rumore proveniente dal mondo esterno. Nel suo isolamento, le giornate erano costellate di momenti di intimità forzata e disperata con se stesso. La pornografia era diventata una compagna costante, un’illusione di contatto e desiderio che il mondo reale gli negava. Ma anche in quei momenti di abbandono solitario, si rendeva conto della propria prigionia fisica; il suo corpo non rispondeva come avrebbe voluto, ostacolato dal suo stesso peso, dalle pieghe di grasso che lo facevano sentire ancora più distante da quelle immagini oscene e eccitanti sullo schermo. A volte, nella disperazione di un contatto umano, si concedeva il lusso di andare da una prostituta. Era un’esperienza contraddittoria, carica di vergogna e sollievo allo stesso tempo.

La sua obesità non era solo il risultato di abitudini malsane o di negligenza; era una manifestazione fisica del suo dolore interiore, una sparizione graduale di sé stesso nel labirinto della disperazione. Da quando aveva perso la moglie, il suo mondo si era capovolto. Lei era stata il faro della sua vita, la presenza amorevole che dava senso ai suoi giorni. Con lei, la felicità era semplice, quasi scontata. Ma dopo la sua morte, ogni giorno era diventato un peso, ogni ricordo un pugnale che ormai si perdeva negli strati adiposi. Il cancro che aveva strappato via sua moglie era stato crudele e rapido.

Il giorno seguente, dopo aver ingurgitato un pasto veloce e insoddisfacente nel fast food dietro casa, si soffermò un attimo a osservare l’ambiente attorno a lui. L’interno del fast food era un teatro di stranezze e eccessi. Le luci al neon vibravano incessantemente, tingendo tutto di una luce fredda e innaturale che rendeva i volti dei clienti pallidi e spettrali. Le pareti erano unte e macchiate, coperte da un sottile strato di grasso che sembrava sudare dal soffitto. I poster pubblicitari mostravano hamburger e patatine fritte in una brillantezza quasi surreale, in netto contrasto con la realtà deludente dei pasti serviti. I rumori un miscuglio cacofonico: il borbottio costante delle friggitrici, il suono metallico dei vassoi sulle superfici laminate, risate forzate e conversazioni a denti stretti. Ogni tanto, il suono di una campana annunciava l’arrivo di un nuovo ordine, un suono che sembrava più un rintocco di condanna che una promessa di soddisfazione. L’odore del cibo fritto permeava l’aria con un’aggressività quasi fisica, un profumo tanto invadente quanto artificiale. Si insinuava nelle narici, pesante e persistente, come se cercasse di soffocare ogni altro sentore. Si mescolava con il pungente odore di disinfettante, un tentativo vano di mascherare la realtà sottostante, e con il sudore dei clienti e dei lavoratori, un odore umano troppo reale in mezzo a tanta artificiosità. Un miscuglio nauseabondo che si attaccava ai vestiti e ai capelli, un marchio non richiesto, un ricordo persistente di un’esperienza dimenticabile. Ogni boccone di cibo sembrava assorbire quella stessa aria viziata, facendo sì che il sapore stesso del pasto fosse intriso di quella pesantezza, di quella stanchezza olfattiva. Era un odore che evocava immagini di cibi abbandonati troppo a lungo sotto le lampade riscaldanti, di olio rancido che friggeva incessantemente patatine e nuggets. Un odore che parlava di abitudini malsane e scelte fatte in fretta, di momenti di debolezza trasformati in routine. Le persone attorno a lui gli sembravano personaggi di un quadro distorto: famiglie con bambini iperattivi, coppie silenziose che masticavano senza guardarsi, solitari come lui che fissavano nel vuoto, masticando meccanicamente. Era un microcosmo di solitudine collettiva, dove ognuno era incistato nella propria bolla di isolamento, nonostante la vicinanza fisica.

Uscendo da quel tempio del consumo  non poté fare a meno di sentire un senso di estraneità, come se avesse appena assistito a una rappresentazione macabra di un pasto in comune, dove il nutrimento era tutto tranne che nutriente. Vide un volantino e attirato dalla donna ritratta, si chinò per raccoglierlo, sentendo il proprio corpo che protestava per lo sforzo. Il volantino era macchiato di impronte e schizzi di fango. Era una pubblicità di un centro di chirurgia estetica, con immagini di trasformazioni radicali. Nonostante fosse logoro e maltrattato, la promessa di un cambiamento era evidente, quasi in netto contrasto con la sua condizione trascurata. Per un attimo rimase lì, in piedi, pensando al destino, alle coincidenze. Era come se quel pezzo di carta sporco avesse aperto una finestra su un mondo di possibilità che aveva creduto perduto per sempre. Piegò il volantino e lo infilò nella tasca della giacca. Mentre si allontanava dal fast food, ogni passo sembrava ora portare con sé un senso di possibilità e speranza. Era il primo passo incerto ma deciso verso il futuro. In questo stato di abbandono emotivo, la decisione di sottoporsi a una liposuzione era più di un tentativo di cambiamento fisico; era un grido disperato per ritrovare una parte di sé che era andata perduta, un tentativo di emergere dal mare di disperazione che lo aveva inghiottito. In fin dei conti non voleva morire, non ancora.

Improvvisamente un ragazzo si materializzo davanti a lui per chiedergli una sigaretta, in quel momento lui percepì una fitta dolorosa e fatale, nel petto.  Fece due passi verso il ragazzo e poi cadde travolgendolo col suo peso. Il ragazzo scivolò all’indietro sbattendo la nuca contro uno dei funghi di cemento che separa uno spazio auto dall’altro nel parcheggio del centro commerciale.

Una chiazza di sangue si espandeva sotto il ragazzo come un lago di rabbia, la rabbia provata dal ragazzo, ormai irreversibile e bestiale. Due ore prima, durante una sessione masturbatoria, proprio quel ragazzo, aveva visto per caso un video su porn hub in cui la sua ragazza, ubriaca, soddisfaceva due amici ad una festa. E tra l’altro lui li conosceva.

Quel ragazzo che si era spaccato la nuca contro il fungo di cemento e che sarebbe morto nel giro di cinque minuti, voleva fumarsi un’ ultima sigaretta prima di andare a prendere la sua ragazza a cui aveva appena mandato un messaggio. Voleva ammazzarla prima di suicidarsi.

Le persone si riunirono attorno a quella scena macabra e grottesca filmando e scattando foto. Qualcuno chiamò un’ambulanza. I due corpi vennero portati via. Il giorno dopo in Tv ci fu un dibattito sull’obesità, il ragazzo, proprio quel ragazzo che avrebbe ucciso la ragazza se non fosse morto sbattendo la testa contro il fungo di cemento, fu dipinto come una vittima del caso, qualcuno fece una battuta nera, dicendo che per proprietà transitiva era vittima dei fast food.

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Discussioni

  1. Ben scritto, ben pensato. Carico di amarezza e disprezzo per chi non ha la forza di resistere e reagire a ciò che il destino ha generato.
    Due inferni che si incontrano: uno alla sua fine, uno che sta per iniziare. Due destini che si uniscono, e finiscono insieme.

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