L’incontro
Serie: Bambini e torri
- Episodio 1: A caccia di fantasmi
- Episodio 2: L’incontro
- Episodio 3: La decisione
STAGIONE 1
“Professore, sono io. Come va?”
“Niente male. Novità?”
“Niente. Cioè, ho fatto delle ricerche, ho incontrato i testimoni oculari… Però non mi riesce di farla manifestare.”
“Hai scoperto se c’è qualcosa che l’attira?”
“Mi hanno suggerito di usare una palla.”
Mi parve di avvertire un leggero silenzio turbato, all’altro capo del filo, così mi affrettai a spiegare:
“Farla rimbalzare contro il muro. Dicono che possa attirarla…”
“Per amor del cielo, cosa stai aspettando, allora?”
“Non mi sembra giusto. Cosa c’è di più naturale della sua diffidenza? Dopo quello che ha passato, mi sembra scorretto attirarla così, come in una trappola…”
“Stammi bene a sentire: il trasfert inverso, che lega il medico al suo paziente, è altrettanto pericoloso di quello diretto, sebbene sia meno comune. Attenta che non diventi il tuo caso. E usa quella palla, accidenti! Se non c’è altro modo, lascia perdere gli scrupoli! Hai lavorato sodo per questa pubblicazione!”
“Sì, lo so. Grazie. A presto.”
Andai nell’unica cartoleria del paese.
Pioveva, una pioggerella leggera che picchiettava dolcemente sul mio ombrello aperto.
Scelsi una palla non troppo grossa, perché le piccole mani di una bimba di cinque anni la potessero afferrare agevolmente.
La scelsi di molti colori, per attirare la sua attenzione.
Sentendomi terribilmente disonesta, lasciai passare tre giorni interi senza mettere piede nella Torre.
Il quarto giorno tornò il sole.
Sebbene fosse debole e insignificante, a confronto con quello della piena estate, servì a darmi un po’ del coraggio che non avevo trovato altrove.
Così mi avviai, la palla nella borsa, insieme al resto del materiale.
Trafficai alcuni secondi con la chiave che non voleva saperne di girare nella serratura, quindi spalancai la porta, e uno spicchio di luce si proiettò all’interno, allargandosi fino a diventare un rettangolo, con la mia ombra, gigantesca, al centro.
Nel preciso momento che varcai la soglia, il pianto sommesso di un bambino, come proveniente da molto lontano, colpì il mio orecchio.
Dapprima non mi mossi. Un pensiero irrazionale si fece strada in me, con la velocità di qualcosa che, più che sorgere da dentro, mi avesse atteso nel buio della Torre, e ora mi balzasse addosso.
È venuta per la palla.
Come spesso accade, m’inquietò il fatto di possedere pensieri tanto indipendenti dalla mia volontà; sebbene, in qualità di psicologa, io sia consapevole che essi sono la base di metà almeno dei miei introiti abituali.
Per scacciare quell’idea, infilai svelta la mano nella borsa e schiacciai il tasto di registrazione.
Se lei era pronta, lo ero anch’io.
Cominciai a scendere le scale che portavano al sotterraneo.
Via via che scendevo, il mondo sembrava oscurarsi sempre di più. Non era soltanto il buio che presiede alle stanze senza luce, ma una qualità positiva, concreta, dell’aria stessa, che la rendeva al tempo stesso difficile da respirare, come se si piegasse ad angolo retto, nello scivolarmi giù per la gola.
Ad ogni respiro, un senso di umido e di muffa mi si incollava al palato.
L’unica fonte di illuminazione era costituita da strette feritoie nella pietra, protette da spesse sbarre di ferro, collocate a intervalli regolari, ma molto in alto rispetto ai gradini. Era probabile che più in basso anche quelle venissero a mancare del tutto.
“Coraggio, bambina” mormoravo, stando bene attenta a non scivolare sui gradini fradici di umidità. “Su, non obbligarmi a venirti a cercare là in fondo…”
Per qualche tempo, il nastro registrò solo i rumori della discesa. Mi fermavo spesso, per abituare gli occhi alla crescente oscurità. Dopo mezz’ora, non avevo sceso che un paio di rampe.
Allora, proprio mentre, stanza e sudata per la tensione, facevo sosta su un pianerottolo, la vidi.
Stava in piedi a pochi passi da me.
Era molto piccola, anche per la sua età, con i lineamenti rientranti, tipici dei soggetti colpiti da albinismo.
Avevo sempre considerato questo male relativamente grave, rispetto, ad esempio, all’epilessia, o all’emofilia… Tuttavia, mentre la osservavo serrare le piccole dita scarne, come in preghiera, mi rendevo conto di quanto dovesse essere difficile, per un bambino, convivere con il proprio riflesso nello specchio, accettare di essere così atrocemente privo di colore, così assolutamente abbagliante, diverso.
Tracce di tintura ombreggiavano di blu i capelli altrimenti candidi, marcando anche di più, se possibile, l’effetto straniante dell’insieme.
Nonostante ciò, non era, nel complesso, una brutta bambina.
Ora sembrava scrutare non proprio il mio volto, ma piuttosto attraverso di esso, con occhi senza ciglia, resi opachi dalla malattia, o forse dalla distanza.
Dopo qualche minuto, trovai il coraggio sufficiente per rivolgerle la parola.
“Riesci a vedermi?”
Alzò di scatto la testa, come se le mie parole fossero piombate su di lei dal soffitto. I tondi occhioni senza ciglia si sgranarono, riempiendosi subito di grosse lacrime, che rotolarono lungo le guance prive di sangue, una dietro l’altra, incredibilmente svelte, come se qualcuno avesse montato un film a velocità doppia rispetto al normale.
“Azzurrina.”
Cercavo di non alzare troppo la voce, ma confesso che faticavo a controllarne il tremito. In risposta, mi arrivò un pianto sommesso, fitto di mugugni incomprensibili, come ne fanno i bambini, quando, volendo spiegare l’origine del loro dolore, non trovano altro che il dolore stesso.
Evidentemente, mentre io potevo vederla, lei non sentiva altro che la mia voce, e la cosa la terrorizzava. Nel suo mondo, il fantasma ero io.
Si stava creando una sorta di nicchia privilegiata, un luogo ideale dove condurre un confronto. Le parole vita e morte annullavano l’abituale antitesi, e comunicare diventava possibile.
“Stai tranquilla, piccola. Guarda dritto davanti a te, così anche tu potrai vedermi.”
Man mano che le mie parole le rotolavano incontro dal soffitto, il piccolo volto si abbassò di nuovo sul punto dove mi trovavo. Dapprima assunse un’espressione concentrata, poi sconcertata.
Un passo indietro.
Io tremavo, ma non osavo intervenire in alcun modo.
Due passi avanti.
La curiosità, o forse il bisogno di comunicare, avevano lentamente la meglio.
“Sto raccogliendo storie di bambini come te. Vuoi raccontarmi cosa ti è successo?”
Di nuovo gli occhi le si riempirono di lacrime e riprese a cantilenare, tra i singhiozzi sempre più isterici, parole che mi era impossibile districare da un generale senso di disperazione. Chissà se aveva capito, se, in qualche modo, cercava di rispondermi.
“Ti prego, parla più lentamente!” le dissi, sperando che il registratore fosse capace di fare miracoli.
Ma, piano piano, poi sempre più in fretta, Azzurrina stava sparendo.
Solo il suo pianto, infine, continuò ad echeggiare, accompagnando sperduto la mia risalita alla luce.
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