L’ultimo giorno
“Quanti sono?”
“Appena una ventina, mein Furher.”
“Quanto possono resistere?”
“Sono solo ragazzi…”
“Non le ho chiesto questo.”
“Diciamo… Al massimo tre ore, in caso di un attacco massiccio. Forse quattro… se decidono di farsi massacrare tutti.”
“Molto bene. Ho bisogno della mia segretaria. La faccia chiamare immediatamente.”
Reinhardt sputò per terra, poi si scostò il ciuffo dalla fronte, un suo gesto abituale.
La città era un mucchio di rottami silenziosi, nell’alba di aprile.
“Buon compleanno, Rein!”
Heinrich, appena sgusciato da quel groviglio di coperte sporche che solo un matto avrebbe insistito a chiamare letto, gli sorrise.
Reinhardt scosse appena la testa. Guardava oltre il ciglio della strada. Si sentiva sporco e malmesso, e con le ossa rotte.
“Quanti sono?” insisté Heinrich, avvicinandosi.
“Quattordici.”
Lui gli batté leggermente su una spalla. “Beh, vecchio mio, auguri di cuore!”
Reinhardt sorrise, suo malgrado.
“Prenda carta e penna. Ho bisogno di dettarle un documento importante.”
“Sissignore.”
Carta e penna davanti, attese che ‘lui’ rompesse il silenzio. L’attesa durò a lungo. Naturalmente, non fiatò. Non era previsto che desse consigli, che si intromettesse.
‘Anche se Berlino va a fuoco.’
Rimosse quel pensiero, lo cacciò in fondo alla coscienza, a testa in giù.
“Scriva.”
Alzò la penna, pronta ad eseguire.
“Mi sa che oggi il rancio non è previsto.”
Heinrich si passò un po’ d’acqua dietro il collo e rabbrividì, scrollandosi come un cucciolo fradicio.
“Gli altri pattugliano le strade dietro la Cancelleria?” chiese Reinhardt, ingoiando un sorso d’acqua.
Il suo stomaco si ribellò immediatamente. Era pronto a digerire una colazione come si deve, e vedersi arrivare solo quella brodaglia lo sconcertava.
“Sì” confermò Heinrich. “Ma non ti preoccupare, appena tornano avrai una festa coi fiocchi!”
“Senza candeline” sorrise Reinhardt.
“Naturalmente! C’è il coprifuoco, e poi su cosa le mettiamo, le candeline? Sull’acqua?” Heinrich rise.
Era sempre allegro. Nulla sembrava avere il potere di allentare il suo inguaribile ottimismo.
Reinhardt drizzò le orecchie. Gli pareva di aver colto un fruscio, dall’altro lato della strada.
“Mi sono sempre chiesto come sia, nascere in aprile” continuò imperterrito Heinrich.
“È quasi maggio” rispose distrattamente Reinhardt.
“È vero. E com’è, di’, com’è, essere nati così vicino a ‘lui’?”
Stavolta, Reinhardt ci pensò sopra a lungo, prima di rispondere.
“È come… come stare vicini al sole” rispose, dopo un po’.
“Sul serio?”
“Sì.”
In realtà, non rendeva per niente l’idea di quello che provava.
“Se il nostro popolo merita la sconfitta, allora merita anche la morte. La distruzione totale è il prezzo che paga alla sua debolezza. I deboli non meritano di sopravvivere, per costruire il mondo nuovo.”
Attonita, la penna si arrestò.
“Se il popolo tedesco venisse spazzato via, non verserei una lacrima. I traditori meritano la loro naturale estinzione.”
‘Traditori?’
“Quando il suolo tedesco avrà una popolazione che lo meriti, allora si alzeranno in piedi milioni di eroi, e questa grande nazione meriterà finalmente il suo grande futuro!”
Un’occhiata la costrinse a riappoggiare la penna sul foglio, e velocemente tracciò sulla carta innocente quelle assurde invettive.
“Ha scritto tutto?”
“Sissignore.”
“Molto bene. Ho bisogno di riposare. Torni tra un’ora, devo dettarle il resto.”
‘Il resto?’
Si alzò lentamente. Ebbe cura di chiudere la porta, uscendo.
“Quello che voglio dire, è che è un privilegio essere qui con ‘lui’. È vero che manca il cibo, che l’acqua fa schifo, che non dormiamo in un vero letto da giorni… Però, hai visto la sua faccia, ieri, quando è venuto fuori, a visionare le truppe? Hai visto? Gli brillavano gli occhi. Era così fiero di noi!
È come se fossimo la sua guardia del corpo, solo noi, contro tutto il mondo. E ‘lui’ lo sa, il più grande dei re della storia! Non c’è nessuno come ‘lui’, non c’è.”
Con gli occhi che brillavano, Reinhardt alzò lo sguardo sulle rovine intorno a loro.
Gli parvero antiche dimore di giganti. Sorrise, smarrito nella sua fiaba a lieto fine.
Tornò un paio d’ore più tardi, come le era stato chiesto.
Pensieri funesti si aggrovigliavano nella sua mente, protetti e avvolti dalle curve di cemento del bunker, risonanti di echi.
‘Sta dettando un testamento. È la fine.’
Non sapeva se essere dispiaciuta, né come esserlo.
Non aveva mai dovuto sperimentare il sentimento della disperazione. Come ogni altro uomo, donna e bambino tedesco, era pronta solo ad esultare per la vittoria finale. Troppo giovane, per ricordare cosa fosse il mondo, prima di ‘lui’.
Confusa, incerta, bussò alla porta d’acciaio, ed entrò nella stanza.
“L’aspettavo. È in leggero ritardo.”
“Chiedo scusa, signore.”
Gli occhi, gelidi e uniformi, come fossero finti, occhi vitrei, la inchiodarono lì dove si trovava.
“Cerchi di non fare errori. È una cosa molto importante.”
Un’assurda speranza si risvegliò allora dentro di lei.
‘L’arma! L’arma segreta! Lui metterà le cose a posto, sistemerà tutto…’
Sedette, e appoggiò la penna sul foglio, pronta a scacciare la disperazione in un angolo lontano.
Un articolo per generazioni altre. Inappropriato, non adatto alla grande vittoria che, tra non molto, ‘lui’ avrebbe regalato alla Germania.
“Come mai non tornano?”
Il giorno del suo compleanno era quasi a metà, e dei ragazzi che pattugliavano il retro della Cancelleria non c’era ancora nessuna traccia.
“Se la saranno presa comoda” rispose Heinrich, l’eterno sorriso in faccia.
“Forse dovremmo controllare” insistè Reinhardt, inquieto.
“Ma no, è meglio non muoversi da qui. Conosci gli ordini.”
“Sì, certo.”
Di colpo, aveva l’impressione di essere osservato. Prese il fucile, posandolo sulle ginocchia.
“Senti, se ci attaccano, credi davvero che quello ti servirà a qualcosa?”
Ostinato, Reinhardt accarezzò il calcio dell’arma.
Non rispose.
“La cosa essenziale è portare avanti a oltranza la soluzione del problema ebraico. Non si deve transigere, per nessuna ragione, su quest’importante compito che la nostra razza si è assunta.”
La penna le cadde di mano.
Si chinò per raccoglierla, sempre più vittima della sua stessa confusione.
“Si sente bene?”
Alzò gli occhi, e lo vide. Si era avvicinato.
Così, niente arma segreta, dopotutto. Soltanto meticolosità, il bisogno di organizzare l’odio.
Questo sì, fino alla fine.
“Credo sia meglio che lei si faccia sostituire. Ho bisogno del massimo dell’efficienza, in questo momento. Lei è esausta.”
“Arrivano! Arrivano!”
Il grido li fece sobbalzare violentemente entrambi.
Rufus, uno dei ragazzi che dovevano presidiare il retro, veniva correndo verso di loro. Era così terrorizzato che aveva dimenticato le procedure in caso di inseguimento. Veniva dritto verso il loro nascondiglio, agitando le braccia, senza procedere a zigzag, senza curarsi di stare basso.
“Ma che diavolo sta facendo?” gridò Heinrich, sconcertato, imbracciando il fucile per piazzarsi al suo fianco.
Reinhardt prese posizione, aspettando di avere qualcosa a cui mirare. Per il momento, vedeva solo Rufus.
Le mani gli tremavano.
In quel momento, a qualche metro da Rufus, vennero fuori, da dietro le rovine della città.
Erano giganteschi, fatti di acciaio. Mostruose dimore, macinavano, cigolando e ruggendo, un movimento inarrestabile.
Inutile aprire il fuoco. Sarebbero servite delle armi speciali, armi anticarro.
Inutile fare qualunque cosa.
Tranne, forse, una.
“Un grande giorno sta arrivando, in cui i figli di questa nazione potranno affermare di aver compiuto il loro dovere nei confronti di se stessi, della loro progenie e del mondo intero! Un grande giorno, per una grande impresa!
Figli della grande madre Germania, io mi appello a voi!”
Reinhardt lanciò un urlo, per farsi coraggio.
Poi, si mise a correre verso i carri. Si sentiva stranamente leggero.
Sparava all’impazzata, e i proiettili rimbalzavano contro le lamiere, schizzando via, in tutte le direzioni.
Il mitragliatore in cima alla torretta del carro si mise a girare, lentamente.
Reinhardt scagliò il fucile ormai inutile tra i calcinacci nella strada, e allargò le braccia, continuando a corrergli incontro.
L’aquila, nel suo petto, si sentiva pronta per spiccare il volo.
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Ciao Sara, non so perché, ma mi era sfuggito questo tuo racconto che adesso, leggendolo, mi colpisce molto e non mi lascia affatto indifferente. Riuscire a catturare attimi, emozioni e azioni attraverso i dialoghi e una scrittura efficace e pulita non è da tutti. Mi spingi inoltre alla riflessione su quale sia il limite fra innocenza e colpevolezza. Molto brava.
hai centrato uno degli obiettivi principali, non solo di questa storia in particolare, ma anche di tutta la mia ricerca, esistenziale e artistica. l’essere umano è uno soltanto, ed è sempre tutto e il suo contrario; e spessissimo le cose più atroci da noi commesse non son altro che il disperato desiderio di tornare a casa. come diceva blatty, nel suo insuperato L’ESORCISTA: “Satana altro non è che la materia che grida disperatamente la sua nostalgia del Creatore.”
grazie per aver colto.
Cara Sara, ogni volta che scrivi qualcosa tu, se si vuole tentare l’azzardo di un commento provando a non sfigurare troppo bisogna fare spazio sulla tavola, tirare fuori il pc buono, quello da 17” (ma perché l’ho preso così grosso?), dedicarti una pagina intonsa di Word e soppesare bene le parole.
In quel confine striminzito delimitato a est da 1 e a ovest da 1500, che molto spesso non mi basta nemmeno per comunicare che cosa c’era dopo una volta, hai tradotto in parole luminose come un’aurora sopra il cielo di Reykjavik la fede cieca del colpevole ingannato, la perseveranza ottusa e incondizionata della vittima compatita, le dimensioni bibliche delle responsabilità che gravano sulle spalle di un solo uomo e l’impossibilità da parte dell’intelletto di incasellarne le conseguenze che prima o poi lo attenderanno.
Respect.
… mi correggo, a ovest da 1, a est da 1500… nemmeno le basi 🤦♂️…
cavolo, roberto. mi dispiace che ti tocca spostare i mobili ogni volta XD ti ringrazio vieppiù, come direbbe il mio nonno XD comunque sì, è una buna domanda: perchè l’hai comprato? non si può certo dire che ti abbia semplificato la vita… XD
Mi capita spesso di scrivere, nei miei commenti, come mi sono sentito mentre leggevo (o dopo), invece che fare osservazioni sulla perizia di chi ha scritto o su specifici aspetti della prosa appena gustata.
Il motivo, ovviamente, è che io non sono un critico né un artista, né esperto alcuno. Sono un lettore, e racconto come mi sento quando leggo.
Ho percepito davanti a me, al mio petto, la torretta che si girava, e la canna del mitragliatore che, progressivamente, si centrava sul vertice del mio cono visivo, al centro della linea fra i miei occhi. Ho visto il buio dentro quella canna, un attimo prima che ne eruttasse l’inferno, mentre io le correvo incontro.
Grazie Sara, per aver condiviso.
mi piace come commenti, proprio perchè dici quello che ti fa la storia. è ciò che serve a chi scrive per sapere se ha centrato o no l’obiettivo. per cui sentiti libero di commentare come preferisci, e grazie a te!