
L’ultimo lampo
Interno sera: appartamento cittadino, zona universitaria. Le stanze semivuote, poca luce. Il suono di una radio e lo stormire delle foglie degli alberi. Due fidanzati, in una strada deserta della zona universitaria, si avvicinano di corsa a un portone socchiuso. Chiudono gli ombrelli. Lui si snoda la sciarpa; lei si compone lo chignon prima di un tuono.
«Giusto in tempo» e un po’ gli sorride, arrossendo.
Salgono a piedi. Una volta nell’appartamento, lui posa le chiavi e l’abbraccia: la sospinge contro la porta, e in un numero di bravura le scioglie i capelli, le apre il capotto e la camicetta, affonda il viso d’ansia nell’incavo del collo e il naso storto sulla spalla che trema.
* * *
«Hai lasciato le luci accese» le fa lei, ricomponendosi le calze dall’assedio. Si toglie con una sola mano uno stivaletto coi lacci e lo segue nel corridoio.
Lui si guarda intorno, brancolando nella casa deserta. Cammina in avanti, inciampa, tace.
Ellissi. Notte.
Distesi sul letto, nella loro camera. Gli occhi socchiusi al soffitto, in ascolto della pioggia.
«Li conoscevi bene?» fa lei.
«Era mia madre che li conosceva. Li ho visti di rado. Qui non venivo mai. Hanno abitato questa casa da quando frequentavano l’università.»
«Si saranno conosciuti lì?»
«Pare di sì. Erano studenti dello stesso corso.»
«È possibile scomparire così?»
«Ci sarà stata una ragione, almeno lo immagino.»
«Tu non li pensi mai?» gli dice.
«A cosa serve?»
«Non lo so. A me succede spesso, soprattutto a quest’ora. Pensarli mi fa bene, ma ogni tanto mi spaventa, non so il perché. È difficile da spiegare.»
«Non hai sonno?»
«Tu?»
«Non ancora.»
«Grazie per la bella serata. Era da tempo che non stavo così» gli fa lei – un filo di voce, quasi commossa.
L’uomo si rabbuia, non le risponde. Il suo viso è assorto, nebbioso. La ragazza si abbandona appena e si perde. Guarda con fatica verso la finestra: il vuoto della notte, la pioggia, la sua vita. Lui osserva una striscia di parato consumato, i bastoni delle tende, una bolla nel soffitto infiltrato d’acqua. Suonano al telefono: lei gli stringe l’avambraccio con entrambe le mani, per trattenerselo accanto fino all’ultimo. Lui, dopo qualche istante, si sgancia dalla stretta e si alza, allontanandosi in un’altra camera.
Lei aspetta che lui risponda e ritorni. Ha gli occhi aperti, poi di nuovo travolti dal buio della finestra. Lui è nel tinello, accanto a un telefono a disco, dove non si muove e non risponde. Osserva della vecchia corrispondenza, un fermacarte, dei fiori arancioni di campo in un vaso di vetro. Tra i petali bagnati scorge un biglietto. Lo solleva, poi lo legge con calma, con lo sguardo severo di un medico di notte:
Guardiamo ancora per un lungo momento il giorno che si spegne (Marguerite Duras) – dal messaggio in corsivo, in una scrittura incerta, giovanile, ma di un altro tempo.
L’uomo ascolta gli squilli senza sfiorare il ricevitore. Dopo l’ultimo della serie la tranquillizza, dicendole che è qualcuno che ha sbagliato. «Adesso arrivo» le fa. Poi non le dice altro e non si muove da lì.
Lei, nell’attesa, fissa la porta socchiusa e gli dice:
«Dovevi cancellare il messaggio della segreteria. Me lo avevi promesso. Mi dà fastidio sentire la sua voce, lo sai. Ne avevamo già parlato».
Lui aspetta che parta il messaggio registrato, pressandosi le palpebre con due dita.
Da un telefono di un luogo lontano, una donna immobile, assente. Dai capelli raccolti la sua nuca infantile, nella polvere dolce di una camera d’albergo. È accanto a un uomo magro, ricurvo in un impermeabile chiaro. I due hanno il capo e le guance vicine, sullo stesso ricevitore, con la fame di sentire la vita lontana che li divora e non passa, e poi li lega e li rinnega, dall’altra parte del mistero. Quando il messaggio con la voce femminile comincia a scorrere, entrambi chiuderanno gli occhi, come due ragazzi in una casa di fantasmi:
«Siamo momentaneamente assenti. Ancora all’università. Forse torneremo presto. Potete lasciare i vostri messaggi subito dopo il segnale acustico. Quando ci sarà possibile richiameremo, è una promessa. In ogni caso grazie di cuore di averci cercati. Lo pensiamo sul serio, ecco. Ci teniamo che lo sappiate».
Lei attende nel suo letto il ritorno dell’uomo, che è fermo sulla poltrona, di fronte al telefono, in ascolto. Allunga la mano sul suo posto vuoto, poco prima di addormentarsi.
Appena concluso il messaggio della segreteria, lui ascolta dal telefono un respiro leggero, che dura qualche secondo e gli fa chiudere gli occhi. Sullo sfondo i boati di un camion. Poi la linea si inabissa nelle tenebre, nel fragore dei tuoni. L’uomo non posa il ricevitore, ma lo lascia sospeso, sfiorandosi il mento ruvido con una mano… mentre il vaso dei fiori è ritornato vuoto: così la poltrona, la camera da letto, i due cuscini, l’ultimo scorcio di segreteria.
Dalla finestra, un lampo illumina lo specchio, un comodino, un vecchio libretto universitario.
Quando il telefono staccato risuona, le tende sono ricolme di vento.
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Il piacere nel leggerti, sta in quella sensazione di sospensione, come se per tutto il tempo i miei piedi non poggiassero sul terreno. Ancora una volta percepisco lo sdoppiamento dei caratteri, l’essere eppure non essere, lo stare in un luogo e nel suo opposto contemporaneamente. Quel messaggio in segreteria è come una linea del tempo che fatalmente unisce piani differenti. E, ancora una volta, un tuo testo mi fa tornare alla mente un film di cui, memoria corta come sono, al momento non ricordo il titolo, solamente le sensazioni. Ecco, il tuo racconto evoca immagini e colori che, in questo caso, hanno per me una tonalità quasi giallognola, calda. Chiudo sottolineando la bellezza di lei nel periodo di apertura e, ancora una volta, le linee sottili ed eleganti di un collo femminile.
Ciao, Cristiana. Nel ringraziarti per questo scrigno serale di vibrazioni sottili e di bellezza, posso dirti che se qualcuno all’improvviso mi chiedesse di optare per un altro titolo, o al limite di inserire una sorta di sottotitolo a questo racconto, io, senza alcun dubbio, opterei per “Esercizi di malinconia” per lo stesso gradiente che ho colto nelle parole profonde del tuo commento, che sono sospese in questo stesso regime di alberghi deserti, fuori stagione, dalle luci stanche e giallognole, dove si rimane dentro con in cappotti aperti, e i letti sfatti, forse perché le camere non sono sufficientemente riscaldate, o forse per l’ondata di freddo di un ritratto, del viso sbiadito di una fototessera fino al freddo dei cuori o delle mani da pianista nei guanti di lana, lungo distanze incolmabili che ti fanno ritornare dentro lo stesso numero per risentire le stesse voci perdute, che sono ancora impresse sul nastro di un’altra, vita di un’altra casa, ma che forse non è che il controluce dell’altra, o del sentore mutante della tua che non riconosci più. E forse, concludo, la chiave del tutto è dentro quel ricomporsi lo chignon prima di un tuono, con quel breve brillio di rossore da studentessa fuori corso, o fuori tempo massimo, dove dall’armonia degli opposti comincia a snidarsi un altro mistero, che non ha recapiti o numeri civici, ma biglietti di sola andata. Qualcosa del genere, direi. O forse ho detto, senza nemmeno saperlo, come accade ai due personaggi ancora ignari del destino del loro racconto e della nebbia del loro ascolto, mentre attraversa le intercapedini, i fendenti, le pieghe delle tende ricolme di vento di un appartamento deserto, ma dove non si è mai avvertita tanta vita se non attraverso il sopore di quei ricordi. A volte basta una telefonata, un numero sbagliato, quella voce famigliare che ti ricorda qualcuno, o che ti ha riconosciuto chissà da quale abisso e ha paura di riconoscerlo e allora deve celarsi, sottrarsi e negare a tutti i costi, negare fino alle lacrime, prima che sia troppo tardi e la linea cadrà per sempre, alle loro spalle o nel buio delle loro gole, in quello spazio dove comincia la parola. O forse è già caduta, qualche istante prima di annientarsi e di rivelarsi nello spettro dello stesso numero. Eccolo, allora, l’esercizio della malinconia.
Questo testo fa emergere la tua anima da sceneggiatore.
Sei stato bravo ad adattarlo in forma di racconto breve, perché riesce a comunicare esattamente le sensazioni dei protagonisti, come avere una telecamera puntata su di loro e su ciò che vedono.
Ciao, Giuseppe. Ti ringrazio del tuo commento. In effetti vi è un’impostazione molto visiva, con una presenza di sguardo cinematografica. È un caso singolare in cui un soggetto nasce da una sceneggiatura e non il contrario. Le azioni si susseguono anche per sospensioni di eventi passati non del tutto risolti. I due personaggi sembrano essere sullo stesso piano di inconsapevolezza e di estraniamento di chi legge per la prima volta la storia. Sono parti inconsapevoli di un ordito che si forma alle loro spalle, ma che ritorna, per strani sentieri, alla loro dimensione, così come li vediamo comparire, quasi dal nulla, in questo quartiere deserto, nelle prime raffiche di pioggia, con un’ansia sottesa e incomprensibile che li accomuna e li allontana nello stesso istante. Anche sul finale, il suono del telefono, gli oggetti rischiarati dal lampo e le tende ricolme di vento, sono dei moduli prettamente cinematografici. Hai visto bene. Ancora grazie della tua visita.
“con la fame di sentire la vita lontana che li divora e non passa, e poi li lega e li rinnega, dall’altra parte del mistero.”
Questa immagine mi ha messo i brividi, è davvero potentissima. Il modo in cui si aggrappano ad una vita che ormai non gli appartiene più, la speranza di trovare conforto e il dolore che invece arriva.
È il cuore del racconto.
Molto ben scritto. L’ho riletto più volte, e ad ogni rilettura acquista valore. Quel “ancora all’università” nel messaggio della segreteria acquista tutto il peso di un passato fermo e perduto e del mistero irrisolto.
Mi è piaciuto molto anche il tono scenografico, si presta bene ad un corto oppure a essere illustrato.
Ciao Dea, e grazie. Ti confermo che questo racconto nasce come un corto. È molto importante che tu abbia colto un valore aggiunto nelle riletture. Sentirselo dire da una scrittrice, tra l’altro, mi rincuora e mi stimola non poco. Il messaggio alla segreteria è interposto tra due livelli dimensionali di realtà ancora confusi, come lo sono la camera d’albergo e l’appartamento della zona universitaria, i quali rappresentano dei luoghi misteriosi dell’anima dove i quattro personaggi si dissolvono come se fossero solo due – ma in fondo, forse, lo sono. Nella mia rilettura dal finale la coppia è la stessa. Ancora auguri e grazie per le tue osservazioni.
Anche io leggendo ho voluto intendere la coppia come la stessa. Il messaggio, i luoghi, il racconto diviene ancora più suggestivo visto da quest’ottica.
Ne sono profondamente convinto.
Molto intrigante. Scritto bene e lascia una leggera tensione e un incerto stupore. Bravo!!!
Grazie del tuo commento. Sono contento delle tue suggestioni, essendo quelle che volevo evocare, e che ho avvertito anche io lungo il corso del racconto. Auguri e a presto.
Un racconto (sceneggiatura?) scritto in modo da farti arrivare in fondo. E alla fine un momento di pausa per capire bene. Poi una rilettura…
Bravo Luigi!
Grazie, Antonio. È soprattutto un territorio di ricerca, di risonanze. La forma racconto l’ho ibridata, specie per l’uso del tempo verbale, con alcune prassi di sceneggiatura. Hai colto bene. Un saluto e auguri.
Auguri anche a te.