
Milano
Serie: Cinquanta Racconti
- Episodio 1: L’idraulico
- Episodio 2: Una sbronza colossale
- Episodio 3: Eva
- Episodio 4: Amore a pagamento
- Episodio 5: Irma
- Episodio 6: Un Natale di merda
- Episodio 7: Telefono erotico
- Episodio 8: La sconosciuta
- Episodio 9: Melania
- Episodio 10: Il dolore
- Episodio 1: La donna della domenica
- Episodio 2: Irina
- Episodio 3: Sandra
- Episodio 4: Scrittura creativa
- Episodio 5: L’assenza
- Episodio 6: Il mistero della penna di Flaiano
- Episodio 7: Il ritorno alla strada
- Episodio 8: Florentina
- Episodio 9: Andrea
- Episodio 10: La ragazza del killer
- Episodio 1: Sull’autobus di notte
- Episodio 2: Eugenia
- Episodio 3: A Casa di Loredana
- Episodio 4: Teresa
- Episodio 5: Gineceo
- Episodio 6: Addio
- Episodio 7: Denise
- Episodio 8: Ninna nanna malfamata
- Episodio 9: OF
- Episodio 10: I gemelli Murphy e il fantasma di Joyce
- Episodio 1: Il vino triste prima parte
- Episodio 2: Il vino triste seconda parte
- Episodio 3: Liturgia del desiderio – Parte prima
- Episodio 4: Liturgia del desiderio – Parte seconda
- Episodio 5: Non è successo
- Episodio 6: B-Movie
- Episodio 7: Francesca
- Episodio 8: La risata
- Episodio 9: Chi siamo quando nessuno ci guarda
- Episodio 10: Milano
STAGIONE 1
STAGIONE 2
STAGIONE 3
STAGIONE 4
Milano mi ha sempre dato l’impressione di essere un treno in corsa, uno di quelli che non si fermano mai. Tutto corre: i tram, le persone, i pensieri. Acciaio e vetro ovunque, facce tese, occhi che non si incrociano mai davvero. Ma è casa mia, ormai. Da anni. E per quanto mi piaccia dire che la odio, la verità è che non riesco più a farne a meno.
Il mio appartamento è un buco al quinto piano di un palazzo senza ascensore. Le pareti sono giallastre di nicotina, la cucina è sempre in disordine, e le finestre si affacciano su una via stretta e rumorosa, un canyon di cemento e clacson. Milano può essere grigia, può essere spietata, ma non è lei a fregarmi. Sono io che mi fotto da solo.
Oggi il cielo sembra abbassarsi fino a toccarti la testa. Nuvole pesanti, aria spessa. Esco con il pacchetto di sigarette in tasca e mi infilo nel solito bar. Non ci vado per il caffè — che fa schifo, tra l’altro — ma perché è il tipo di posto che non pretende niente. Tavoli storti, sedie rigide, e un silenzio che sa di tregua. Nessuno ti giudica se sembri appena scappato da un incubo.
Loredana vive all’altro capo della città, in una casa troppo ordinata e troppo luminosa per uno come me. A volte mi domando cosa diavolo ci trovi in uno come me, ma non insisto. Va così: lei ha il suo mondo, io il mio. Quando non ce la faccio più, mi infilo nel suo. E quando il suo comincia a starmi stretto, torno al mio buco e sparisco per giorni.
Milano non mi ha mai chiesto niente. Ti accoglie così come sei. Non ti cambia, non finge. È sporca nei punti giusti, tagliente nei momenti giusti. E, ogni tanto, quando il sole scivola dietro ai palazzi, riesce perfino a sembrare bella.
Il barista si chiama Sergio. Non so se si chiama davvero così. Ma ha la faccia da Sergio: sessant’anni portati male, capelli radi, occhi stanchi. Uno che ha smesso di crederci ma continua a tirare avanti per forza d’inerzia. Mi saluta con un cenno del mento mentre poso l’accendino sul bancone e mi siedo al solito posto, quello in fondo, vicino al termosifone arrugginito.
Il bar è mezzo vuoto. Due vecchi che giocano a carte e un tipo con la faccia incartapecorita che legge La Gazzetta dello Sport come se contenesse rivelazioni divine. Fuori, il traffico continua a rombare. Dentro, il tempo sembra farsi denso, come il fumo che ristagna tra il soffitto e le teste chine.
Sergio mi porta il caffè senza dire una parola. Brucia la lingua, è amaro come una bestemmia, ma fa il suo dovere. Mi accendo una sigaretta. Nessuno dice niente. Nessuno si scandalizza. È uno di quei posti dove puoi ancora fumare se lo fai con la giusta disperazione.
Penso a Loredana. Ieri mi ha scritto un messaggio. Diceva: «Ti penso. Ma oggi no.»
Mi ha fatto ridere. Perché lei è così: precisa anche nel lasciarti da parte. Sa come tagliarti senza farti male. Io, invece, faccio danni anche solo respirando.
Ho provato ad andarmene da Milano, una volta. Tre mesi a Genova, in una stanza affittata da una vecchia che ascoltava Padre Pio alla radio. Vedevo il mare, sì. Ma non mi diceva niente. Era troppo azzurro, troppo pulito. Come se non ci fosse spazio per uno come me. Milano, invece, mi capisce. Mi lascia marcire, se voglio. Mi abbraccia sporco.
Sergio si gratta la testa e mi guarda.
«Tutto a posto?» chiede, ma è solo cortesia.
Annuisco. Non ho niente da dire.
Il bar è la mia chiesa. E Sergio è il mio parroco silenzioso. Nessuno si salva, qui dentro. Ma almeno possiamo smettere di fingere.
Fuori, il cielo resta basso. Forse oggi non si alza mai.
Milano è fatta per essere attraversata. A piedi, in bici, in metro. Ma più di tutto, in tram. Il rumore delle rotaie è un mantra, uno sfrigolio continuo che ti tiene sveglio mentre fuori scorre la città come un film che non hai mai scelto di guardare.
Prendo il 9 da Porta Genova. Mi siedo in fondo, dove i sedili sono più sporchi e meno contesi. Attorno a me, un paio di studenti col cappuccio tirato su, una madre distratta con un bambino che le morde il polso, e un vecchio che parla da solo in dialetto. Nessuno si guarda. Nessuno fiata. Ognuno dentro la propria cella trasparente.
Il tram sobbalza, geme sulle curve, rallenta ai semafori come un vecchio zoppo. Fuori, piove. Non forte, ma abbastanza da sporcare i vetri e sfumare i contorni delle cose. È la pioggia perfetta per Milano. Non lava via niente, si limita a peggiorare il grigio.
Passiamo davanti a una scuola, a un ospedale, a una libreria chiusa. Tutto è immerso in una luce smorta, lattiginosa. In città ci sono giorni in cui la luce sembra venire dal basso, come se risalisse dalle fogne invece che scendere dal cielo.
Ripenso a Loredana. Al suo collo lungo, alle sue dita fredde che mi cercano sotto le coperte. La sua casa sa di pulito, di ordine, di qualcun altro. Ogni volta che ci dormo mi sveglio prima dell’alba e scappo. Lascio un biglietto sul comodino con scritto: “Ci vediamo.” Mai “quando”. Mai “se”.
Il tram frena di colpo. Il vecchio sbatte contro il palo e impreca. Il bambino ride. Gli studenti si guardano senza parlare. E io, per un attimo, mi sento vivo. Sospeso. Come se ci fosse ancora tempo per qualcosa. Ma poi il tram riparte. E tutto torna a scorrere.
Scendo a viale Tunisia, senza un motivo preciso. Mi piace camminare senza meta. Fa finta che ho ancora una scelta.
Milano non ti chiede dove stai andando. Ti lascia andare. E basta.
Serie: Cinquanta Racconti
- Episodio 1: Il vino triste prima parte
- Episodio 2: Il vino triste seconda parte
- Episodio 3: Liturgia del desiderio – Parte prima
- Episodio 4: Liturgia del desiderio – Parte seconda
- Episodio 5: Non è successo
- Episodio 6: B-Movie
- Episodio 7: Francesca
- Episodio 8: La risata
- Episodio 9: Chi siamo quando nessuno ci guarda
- Episodio 10: Milano
Che bella descrizione di Milano! Bravo Rocco 🙂
Una visione di Milano che in poche righe riesce a raccontare. Mi è tornata in mente Luci a San Siro.
“l barista si chiama Sergio. Non so se si chiama davvero così. Ma ha la faccia da Sergio: sessant’anni portati male, capelli radi, occhi stanchi.”
Fantastico! Mi ricollego alla proposta di inserire le fotografie dei personaggi… A cosa servirebbe con una simile caratterizzazione del personaggio?
Un racconto schietto e arguto, a tratti vagamente poetico, quasi crepuscolare nelle descrizioni di una città che suscita amore o disamore vivacità e grigiore, in cui sembra rispecchiarsi il protagonista.
Un testo dettato dal talento di un autore, in un momento di grande ispirazione.