Non è successo 

Serie: Cinquanta Racconti


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: .

Non è successo. Me lo sono ripetuta subito. Appena chiusa la porta. Appena il suo respiro si è spento. Appena ho abbassato lo sguardo sul pavimento, sul mio corpo, sulle cose che erano fuori posto.

Ho preso le mutandine dal bordo del letto, le ho infilate in fretta. I jeans, la maglietta. Non mi sono guardata allo specchio. Non volevo vedere. Non volevo chiedere.

Mi sono solo detta: non è successo. Perché era più facile. Più veloce. Era una frase piccola, rotonda, quasi neutra. Una toppa sul vetro rotto. Una bugia educata.

Era una persona che conoscevo. Non uno sconosciuto, non un aggressore che salta fuori dal buio. Era qualcuno che mi faceva ridere. Che mi piaceva. Che aveva toccato la mia schiena qualche sera prima, e io non mi ero ritratta.

Non è successo. Perché non ho urlato. Perché non l’ho fermato. Perché il mio corpo non ha reagito come nei film. Il mio corpo ha fatto qualcosa di diverso: si è spento. Come se premessero un interruttore.

Io ero lì. Sì. Ma non c’ero più. Guardavo il soffitto. Contavo i respiri. Aspettavo che finisse. Lui parlava. Diceva cose leggere, ironiche, perfino tenere. Come se stesse facendo l’amore.

Ma io non ero lì. Io non c’ero. Io ero nella mia testa. In un angolo stretto, seduta per terra, con le ginocchia al petto.

Quando è finita, mi ha sorriso. Mi ha chiesto se volevo qualcosa da bere. E io ho detto: no, sto bene. Ho mentito già allora. Con la voce, con il sorriso, con la schiena dritta mentre raccoglievo la borsa.

Sulla via del ritorno non ho pianto. Sono passata accanto a gente che rideva, a un bar con la musica troppo alta, a due ragazzi che si baciavano addosso a una vetrina chiusa. Tutto era come prima. Solo io no.

La doccia non ha tolto niente. L’acqua era calda, bollente, quasi dolorosa. Ma il senso di invasione non se ne andava. La pelle non dimenticava. Non c’erano lividi. Non c’era sangue. Non c’erano prove. Solo una cosa che non volevo, e che è accaduta comunque. E il silenzio dopo.

Non l’ho detto a nessuno. Né il giorno dopo, né la settimana dopo. Né quando ho fatto finta di scordarlo, né quando mi sono accorta che non si scordava me.

Quando le mie amiche parlavano di sesso, ridevano. Io no. Sorridevo. Guardavo in basso. Cambiavo argomento.

La parte peggiore? È che mi sono chiesta se fosse colpa mia. Se avevo lasciato intendere. Se avevo mandato un segnale. Se avevo sorriso nel momento sbagliato. Se avevo detto sì con un gesto e no con un altro.

Il dubbio ti mangia più della colpa. Perché non è chiaro. Ti svegli di notte e ti chiedi se hai esagerato, se stai facendo una tragedia. Poi senti il corpo chiudersi, stringersi, rifiutare il ricordo come una scheggia. E capisci che no. Non è stata una tragedia. È stata una violenza.

Ma ancora oggi mi sento in difetto. Perché non l’ho denunciato. E allora? È come se non fosse successo?

Non so se avrei avuto la forza. O le parole. Chi mi avrebbe creduta? Chi ascolta una donna che racconta un abuso senza lividi? Chi prende sul serio un racconto che comincia con «non l’ho fermato»?

Lui non mi ha colpita. Non mi ha gridato contro. Non mi ha strappato i vestiti. Mi ha semplicemente superato. Come se il mio corpo fosse un ostacolo da ignorare. Come se il mio silenzio fosse un via libera.

E io ho taciuto. Per paura. Per vergogna. Per proteggere la mia vita da quello che sarebbe venuto dopo: il giudizio, le domande, il sospetto.

Non ho voluto processi. Ho voluto solo dimenticare. Ma dimenticare non è facile. Non è mai una scelta.

Il desiderio mi si è spento. La pelle ha smesso di fidarsi. Il corpo è diventato un territorio minato, dove ogni carezza può esplodere. Ogni tocco ha bisogno di conferme, di lentezza, di parole.

E io… io sono cambiata. Parlo meno. Sorrido con più prudenza. Controllo i miei movimenti, i miei gesti, i miei sorrisi. Come se ogni mio respiro potesse essere frainteso.

Quella notte non è finita. Si è solo spostata. È entrata nelle ossa. Ha trovato una stanza vuota e ci si è chiusa dentro.

Ho imparato a conviverci. A lasciare aperta una finestra, ogni tanto. A scrivere. A parlarne in forma di racconto, di teatro, di voce spezzata.

Ma ancora oggi, a chi mi chiede: «Hai mai vissuto qualcosa di brutto?»

Io rispondo: «No. Sto bene.»

E dentro penso: Non è successo.

Ma mi è rimasto addosso come se fosse accaduto ogni notte. E forse, in fondo, lo è.

[Fine]

Serie: Cinquanta Racconti


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni