Non toccarmi!
Un ustionante sabato sera di metà Agosto.
La folla, densa e maleodorante, è immersa in un nero cumulonembo di zanzare che risplende in stormi giganteschi negli abbaglianti fasci dei fari alogeni. Nell’aria vi è l’aroma stantio di corpi sudati, birra calda, noccioline caramellate, vi è come il tipico profumo di una fiera di paese, una fiera identica a tutte le altre: solite facce, solita musica, solite bancarelle, le medesime di anno in anno; essa è però l’emblema della bella stagione, un occasione per unire gli abitanti della vallata, per dare vigore a un entroterra che altrimenti giacerebbe moribondo fino ala fine di Settembre.
Percepisco un dolore acuto nel basso ventre: ‘Sarà mal di pancia?’ penso ingenua.
Cerco una panchina per sedermi ma il dolore si fa più intenso; come una coltellata che penetra nelle ovaie a lascia una ferita dalla quale sgorga denso liquido scarlatto.
‘No, non possono venirmi adesso, non ora, non in mezzo a tutta questa gente!’, prego un’entità fittizia di dare forza alle mie gambe prima che sia troppo tardi. La testa gira, assuefatta dalla modesta quantità di vino che ora mi scorre all’interno delle vene.
Vedo uno squarcio tra la gente: lo punto e provo ad attraversarlo, ma una mano mi si posa sulla spalla e una voce amica recita a bocca spalancata:
«Clara, è dal liceo che non ci vediamo! Sbaglio o ti sei fatta una gran fig….» io mi volto, svio il suo arto e osservo Leo, grande compagno ai tempi delle superiori, piegarsi in avanti e capitombolare senza vita al suolo.
‘Perché mi hai toccata?’, non finisco di intonarlo nella testa, che uno dei suoi amici gli si lancia addosso sfiorando per un secondo la mia gamba con il gomito:
«Leo, cos’ha…» anch’egli precipita esanime ai miei piedi.
Avete presente quella convinzione popolare per cui se una donna con il ciclo tocca una pianta questa muore? Oppure se tiene in mano un uovo esso non cuocia? Immaginate un fenomeno simile ma di ben più grande portata, in cui il semplice sfiorare la pelle della suddetta bastasse a strappare la vita dal corpo di un individuo; ecco, questo è il mio caso!
La prima a morire fu una professoressa ai tempi delle medie impegnata a darmi conforto ora che ero diventata una signorina, fu poi il turno di mia zia e di mio cugino, lo stesso giorno, prima che mio padre si rendesse conto della maledizione. Nessuno della famiglia ebbe poi più il coraggio di toccarmi durante quel periodo del mese e nessuno al di fuori di essa credette altresì alla storia. Nemmeno il dottor Chirone che, con fare arrogante, zittì i miei sul nascere per poi ritrovarsi, stecchito, sul pavimento, dopo avermi solo sfiorato una coscia: lo vidi semplicemente spegnersi e accasciarsi al suolo con sguardo vitreo, eviscerato dal soffio vitale all’interno di ognuno di noi.
«Attentato!» grida una ragazza della compagnia di Leo gettando nel panico la pacifica notte di fiera.
C’è il caos: la gente urla, assuefatta dal terrore, e, in breve, diviene evidente una spaventosa calca di carne umana, sudore e vestiti nelle tranquille vie che sviano dalla piazza.
Io resto immobile, sconcertata, disumanizzata, ferma ad attendere che la polizia ai bordi delle strade venga con le sue pistole luccicanti a prendere quella ragazza abbigliata solo di sandali, gonna e canottiera che ora giace inerte sui cadaveri di due suoi coetanei.
Guardo intorno e noto una guardia baffuta e il suo collega glabro avvicinarsi con le armi spianate:
«Cos’è successo qui?» sbotta quello coi baffi.
«N-non a-avvicinatevi.» sussurro io, vedendoli a pochi metri.
«Cos’è successo?» infuria verso la mia posizione, «Dove sono i terroristi? Che fai tu qui?»
Lo vedo allungare la mano per agguantarmi il braccio:
«Non toccarmi!»
Compio un balzo all’indietro e provo a dargli le spalle; percepisco però una fastidiosa sensazione di umidità tra le gambe e scorgo e una gocciolina di liquido rossastro colare dalle cosce ai polpacci. Mi blocco, preoccupata e anche un po’ imbarazzata. Non faccio tuttavia in tempo a riprendere coscienza, che lo sbirro sbarbato, dall’alto della sua indolenza maschilista, mi afferra:
«Vattene via!» urla a squarciagola, vomitando sul mio viso un delicato aroma di panino con porchetta e cipolla.
Serro le palpebre e la presa si fa più debole, fino a sciogliersi; quando li riapro un terzo cadavere appare così, dal nulla, esanime nel mezzo degli altri due.
Il suo collega rimane silenzioso a fissare la scena, con gli occhi immobili prima su quella dannata gocciolina, poi sui miei.
Io tremo e sussurro ancora:
«N-non volevo.»
L’uomo prende la radio, chiede rinforzi e punta la canna della sua Beretta semiautomatica a 50 cm dal mio viso:
«Buttala a terra!»
Che cosa?
«A terra ho detto!»
Allargo le braccia e gli mostro di non avere niente in mano:
«Non ho niente!»
Nei suoi occhi una fiamma assassina:
«Dove la tieni? Cos’è? Veleno? Gas?»
Silenzio, solo il risuonare lontano delle urla della folla.
Una voce metallica risponde dalla radio:
«C’è gente da soccorrere e la calca è troppo densa per venirti incontro, dovrai attendere qualche minuto!»
Vedo il poliziotto mollare una mano dall’arma per portarla a grattarsi la testa, poi ringhia, impreca e abbandona la posizione di tiro con le gambe spalancate per chiedere delucidazioni al comando:
«Che devo fare?»
«Che cosa stai facendo?»
L’uomo deglutisce:
«Ho la terrorista.»
«Bene, arrestala!» fa la voce con un sottile tono di ironia.
«Bene.» dice lo sbirro tra sé e sé mentre afferra le manette dalla cintura.
Fa un passo e poi, dubbioso, si blocca per usare un’altra volta la radio:
«E se la sospettata non volesse mollare la sua arma?»
«Allora sparale, no?»
Sparale?! Tutto a un tratto la lucente notte d’Agosto diviene nera al pari della pece e la mia vista svanisce, insieme alla forza delle gambe che ora non mi sorreggono più: cado così sui corpi dei tre poveretti e, nell’arco di un istante, mi rendo conto di quanto si siano raggelati.
«Che cosa stai facendo? Tirati in piedi!»
Odo a malapena le parole dell’uomo perché coperte dal risuonare del mio pianto:
«I-Io non volevo!» ululo «N-Non volevo! Siete voi che mi avete toccata, è colpa vostra!», nel mentre che ripeto la cantilena, neanche fosse una sorta di mantra, accarezzo e abbraccio i tre cadaveri, assuefatta dal senso di colpa che ora rode il più intimo dei miei pensieri.
«Alzati!» la voce dell’uomo esce distorta, demoniaca, furiosa, «Non m’incanti: getta a terra quella fottuta arma!»
Sono spacciata, egli mi sparerà. Sì, sì, sento il suo furore assassino a tre passi di distanza.
Devo fare qualcosa, qualsiasi cosa!
Devo toccarlo e divenire un’omicida, non ci sono altre alternative; nessuna!
Fisso dunque la mia visione periferica sulla sua gamba, convinta che quello esisterebbe vedendomi piangente sul corpo del collega.
Tuttavia non è così: egli è immobile, determinato, pronto a macchiarsi del sangue di una povera vergine, una vergine travestita da sirena divoratrice di uomini.
«A tutte le unità,» lo stridio della voce metallica della radio mi fa sussultare, «Abbiamo fermato un gruppo di sospettati in via IV Novembre all’incrocio con via Molino. Tutte le unità convergano sul posto, i sospetti sono armati, ripeto: i sospetti sono armati.»
Uno spiraglio di salvezza.
«Ma io qui ho la terrorista!» fa lo sbirro, «Ripeto: io qui ho la terrorista che ha ucciso Santin!»
Silenzio.
«Mi ricevete?»
Ancora silenzio.
«Ho detto: mi ricevete?»
Una voce infine gli risponde, però diversa dalla precedente:
«Magri smettila di occupare il canale! Svegliati e raggiungici qui.»
«Ma io…» sussurra l’uomo, «Ha ucciso Santin…»
Il mio piagnisteo termina bruscamente: con la coda dell’occhio vedo la sua gamba compiere un passo verso di me e poi percepisco un forte dolore alla nuca; egli mi prende con rabbia e mi trascina lontano dai corpi su cui stavo sdraiata. I sanpietrini della piazza strusciano contro le mie ginocchia e le nocche si dilaniano sotto i colpi di quella violenza.
La presa si intensifica: con un colpo di reni mi alza e poi scaglia non lontano.
‘Perché non muori?’ penso io mentre mi rigiro.
Lo fisso diretta e, cavolo: ha i guanti! Chi caspita tiene i guanti ad Agosto!?
«Tu hai ucciso Santin, non so come, non so perché. Io però avrò la mia vendetta!» l’uomo punta la sua arma e, tremolante, poggia il dito sul grilletto.
Il tempo scorre lento, spietato, inesorabile; da un momento all’altro ci sarebbe stato buio, solo buio.
Egli vibra con tale vigore che quasi non vedo la pistola; tituba, impreca e poi, stremato dal senso di colpa che avrebbe gravato su di lui, fa cadere il ferro e si inginocchia:
«I-Io non posso farlo.» detto ciò, si copre gli occhi e comincia a piangere.
Sarebbe bello essere tanto grati per aver avuto salva la vita, ma io non posso avere pietà, non dopo ciò che stava per fare: la sua sola volontà era stata l’unico confine in grado di separarmi dall’oblio e la mia vendetta sarebbe giunta in punizione di quella possibilità! Meglio prosciugarlo libero dall’odio, che lasciarlo vivere ebbro di veleno.
Mi inginocchio così di fronte a lui e gli poggio le mani sulle guance.
Egli ha appena il tempo di ammirarmi, che avvicino le labbra alle sue e lo bacio.
Lo bacio finché non è anch’egli immobile.
Lo bacio finché il gelido freddo della morte non lo rapisce e di lui non rimane altro che un corpo vuoto, un corpo che, se la sfortuna avesse voluto, sarebbe divenuto quello appartenuto al mio carnefice.
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