Silenzio

Serie: Minerva


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: La morte.

La litania del mondo mi ha stancato, preferisco camminare nelle stanze della mente ed emergere solo se ciò che sta fuori mi obbliga.

Più attraverso i confini dei paesi, più il mio corpo si sveglia. Sento una libertà acerba, senza il peso del tempo passato, nessuno mi conosce lì dove sto andando, posso scrivere me a penna, scarabocchiare e riscrivere sopra. Sono partita con il diluvio ed arrivo con la pioggia annoiata dell’autunno, sembra che il tempo imiti il rumore dei miei sentimenti.

Mentre vado verso la stazione dei treni, seguo le persone e le indicazioni come una formica alla ricerca del formicaio. Attraverso la città con i bagagli, capelli inumiditi, il bisogno estremo di andare in bagno, ma l’unica cosa che riesco a fare è ridere. Tutto il dolore, sembra essersi preso un momento di tregua.

La casa è piccola, odora in modo prepotente di umido, tanto che rimane incollato ai vestiti, i coinquilini sono ragni. Non c’è un rumore, sono circondata da villette tutte diverse ma con lo stesso tappeto elastico, il cancello di legno per entrare nel cortile è sempre aperto.

Mi sveglio, sistemo la casa, mi vesto facendo attenzione a non specchiarmi, controllo che nel chiostro non ci siano galline che scorrazzano. Metto lo zaino sulle spalle ed esco.

Vado a lavoro in bicicletta*, l’aria che mi taglia il viso mi riporta a quando da bambina nel cortile dei nonni sgommavo sulla ghiaia, faccio la strada che fiancheggia il lago. Tutti i giorni faccio colazione con un pretzel ripieno di burro ed un cappuccino. Seduta su una panchina, osservo: i corridori, la fretta delle persone di andare alla stazione, la voracità dei gabbiani nel mangiare. Non un solo pensiero attraversa la mia mente, mi chiedo solo come le anatre facciano a dondolare in quel modo sull’acqua. A lavoro, passo tutta la giornata a contatto con le persone, come un automa il corpo si muove sa cosa fare senza il bisogno che io sia cosciente. Servo le cose più assurde da bere, poggio il bicchiere sul tavolo e sorrido garbatamente. Macino chilometri avanti e indietro per il ristorante, lavoro anche dieci ore al giorno ed il corpo non è mai stanco. Con i colleghi parlo di banalità, rido di cose semplici, mangio solo per non ricevere rimproveri. Se qualcuno mi sfiora sobbalzo. Schivo tutto ciò che mi circonda. Non mi lascio conoscere, fingo di essere qualcun altro, è più semplice.

Tutto sempre uguale, fino a che non arriva il momento di tornare a casa. Mentre apro la porta il caldo scappa dalla bocca in nuvolette, faccio una doccia, metto le mance in un salvadanaio, infilo il pigiama di pile, scelgo se guardare un film o leggere.

Il silenzio che avvolge i muri fa impazzire, ingabbiandomi al presente, facendo rallentare il tempo, sento di non poter scappare per quanto ci provi. Quando penso a chi ho lasciato dietro, il senso di colpa di ciò che gli ho fatto mi lacera lo stomaco; la mancanza e il desiderio di tornare mi divorano, ma non posso. La cosa che mi spezza maggiormente è il dormire sola, il vuoto che c’è in me rosicchia le medicazioni della giornata. Senza il russare di Napoleone fatico ad addormentarmi. Tutto ciò lo merito. Non riesco a perdonarmi.

Eppure non mi arrendo, ogni giorno ripeto gli stessi riti pur di guarire.

Nel giorno libero prendo un treno e scendo in una stazione a caso. Ho scoperto che l’asfalto appena posato d’inverno “sfrizzica”, i bambini ricambiano sempre un sorriso gentile, i cani con i cappottini sono buffi e sculettano. Senza il telefono, il mondo è una gigantesca caccia al tesoro.

Cammino esplorando la città, non ho una meta, mi fermo davanti alle vetrine, visito i musei aggregandomi ai gruppi di turisti, ogni tanto finisco in uno di cui non capisco la lingua. Sbircio nei ristoranti per vedere com’è il cibo sperando che riaccende lo stomaco. Per sapere che ora sia leggo il display delle casse. Faccio foto con una macchina usa e getta.

Salgo sui tram, a caso, per scoprire le persone. Un giorno ho notato due signore anziane, penso intorno ai sessant’anni, con un carrello della spesa, avevano l’aria di chi si conosce da tutta la vita. Sembravano delle ventenni però, stavano in piedi perfettamente in equilibrio, nonostante i sobbalzi del tram, avevano una vivacità esuberante nella voce. Entrambe con i capelli corti bianchi, erano ben vestite coordinate tra loro, con lo sguardo complice. La donna più bassa si lamentava dei figli gesticolando come un vigile nel suo capotto  marrone, l’altra la consigliava sistemando gli occhiali rotondi viola sul naso. Sembrava di assistere a un incontro di tennis. Più le studiavo più mi sembravano diverse tra loro, ma legate. Sono scese alle porte di un mercato coperto, fin dove ho potuto, le ho seguite con lo sguardo. Dopo circa due ore sono risalite, con il medesimo argomento che continuava a rimbalzare tra loro, con la sola differenza che erano cariche di cibo. Quante probabilità potevano esserci di rincontrarle sullo stesso tram, che riportava loro a casa me alla stazione dopo il mio giro al giardino botanico. In quell’istante la mancanza di mia sorella si è fatta insostenibile. Guardando quelle donne ho provato la nostalgia di quello che eravamo e che dovevamo essere, ma che io ho distrutto. Sapevo di non essere pronta, non volevo, ma dovevo tornare a casa da lei. Glielo dovevo. Il bisogno di tornare da nonna stava iniziando a consumarmi. Il cosmo pur di ridere, ti fa diventare la sua marionetta.

*Prima era una giornalista.

Serie: Minerva


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Storia cruda, in cui hai saputo trasmettere ogni sensazione della protagonista. La complessità delle sue sensazioni: il disgusto, il desiderio di annientamento e l’inconscio bisogno di tornare a vivere che si fa strada in lei seppure tramite la fuga; altresì, il senso di colpa per aver spento una vita seppure per legittima difesa. Tutto mi ha tenuta avvinta alla narrazione, attendo di proseguire la lettura