Una crepa nelle mura
Alzo con fatica lo sguardo stanco. Con uno sforzo insopportabile mi costringo a osservarmi, a vedermi davvero.
Nello specchio della società il mio riflesso appare vecchio, senza sogni e senza speranze, segnato da rughe di cui non conosco l’origine.
Posso indossare un altro volto quando ce n’è bisogno, ma non vi è modo di nascondere a me stesso quell’aspetto. Dapprima ho provato a nasconderlo, poi a strapparmelo via. Ogni tentativo ha portato a un deterioramento ulteriore, con ombre, graffi e lividi che oramai mi definiscono, e dai quali sembra sempre più difficile emanciparsi.
Vorrei gridare, urlare fino a terrorizzare quella cosa, tanto da farla fuggire da me.
Sento che il suono sta per uscire, violento. Ma poi, un sussurro si insinua nella mia testa. Senza quella cosa, il cui nome pare indefinibile, io cosa sarei? Cosa rimarrebbe? Ma soprattutto, rimarrebbe qualcosa?
La voce muore prematura in gola, ancor prima di nascere. Rimango fermo, a bocca aperta.
Guardandomi allo specchio provo ora imbarazzo. Abbasso lo sguardo, chiudo la bocca e rilasso il viso. Cosa mi è venuto in mente?
Con un sorriso di ironica indifferenza reprimo quella ridicola ribellione interiore.
Esco fuori e inizio a camminare, senza pensare a dove vado. Presto però mi accorgo che qualcosa non va, sento il mio corpo farsi pesante. Là fuori, isolato e senza le catene a cui mi sono abituato, faccio fatica a sorreggermi da solo e ogni passo mi schiaccia con forza a terra.
Sono sempre più stanco, il fiato inizia a mancarmi, rendendomi docile.
Qui c’è troppa libertà, mi manca l’aria. A cosa serve la libertà se poi non sai che fartene?
Io non sono ancora pronto. Trascino il mio corpo stremato nella direzione da cui sono arrivato, su quella stessa strada sulla quale tante volte ho promesso a me stesso di non tornare e sulla quale altrettante volte ho cercato una soluzione, un rifugio per nascondermi da me stesso e dal mondo.
Torno dentro con gli altri, nessuno mi domanda dove sono andato, probabilmente neanche si sono accorti che ero uscito. Un silenzio assordante inonda la stanza, come le acque di un fiume in piena. Nessuno riesce a parlare, a dire la verità neanche io. Siamo tutti troppo soffocati dal nostro egoismo.
Nuotiamo sott’acqua in quello stesso stagno nel quale Narciso andò incontro alla morte, chi con orgoglio e disinvoltura e chi con timore.
A tutti, indistintamente, manca sempre più il fiato, ma non riusciamo a uscire, siamo incapaci di rinunciare a quella nostra instabile sicurezza.
Una vanità che ci consente di rivolgere l’attenzione solo ed esclusivamente a noi stessi, distraendoci dagli altri, e in tal modo, allontanandoci. Nella stanza siamo così tanti da essere schiacciati tra noi, eppure così distanti.
Non riesco a sentirli, ma riesco a vederli, e stanno sorridendo. I loro sorrisi mi infastidiscono, quasi quanto il mio. Non vedo speranze per me e non capisco perché loro dovrebbero vederne per sé. Quando cresci in un contesto in cui la felicità non è nemmeno considerata un obbiettivo raggiungibile, vuoi solo che anche gli altri siano come te. Sai di non potercela fare e inizi a sperare che anche gli altri perdano, così quel fallimento diventa collettivo, e nessuno potrà recriminarti più niente. Speri che quando cadrai nell’abisso sotto di te ci siano già numerosi corpi ammassati che attutiscano l’urto, e che, con le loro voci agonizzanti, coprano almeno in parte le tue grida di dolore.
Basta, ho bisogno di abbattere le mura di pensieri all’interno delle quali sono confinato.
Cerco un bicchiere, voglio ubriacarmi delle mie debolezze, per sentirne l’ebrezza. Voglio cadere, crollare davanti a tutti. Odiamo ammetterlo ma a degli individui controllati come noi l’idea di perdere il controllo affascina più di ogni altra cosa.
Mentre proseguo, camminando incerto nella confusione che mi circonda, qualcuno o qualcosa mi sorride. Ma non è come uno di quei ripugnanti sorrisi che ho visto finora, questo è veramente rivolto a me, e non a sé stesso.
Sembra indicarmi qualcosa: una crepa nelle mura, uno spiraglio, da cui entra un irrisorio filo di luce. Cautamente avvicino l’occhio a quella fessura. Non appena sporgo lo sguardo oltre rimango abbagliato, e subito avverto un potente soffio, capace in un attimo di spogliarmi da tutto, completamente. Ora mi vedo, ora vedo tutti. Come se qualcuno fosse stato mandato a recuperarmi dagli abissi di quell’incubo in cui ero sprofondato, e che io stesso ho contribuito a costruire.
Ma può davvero un semplice atto genuinamente puro, compassionevole, essere la soluzione, la panacea dei miei, anzi, mi viene ora da dire, dei nostri mali? Può questo smascherarmi? Sollevare me, tutti noi da quelle sporche acque dalle quali sembra così difficile uscire?
No, non può essere, non può essere così facile.
O forse sì, forse mi sbaglio. Forse, se è possibile reggere questa consapevolezza, ci sbagliamo tutti quanti, tranne quel sorriso senza volto.
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