Volere

Voleva. Ci provava. Non bastava. Qualcuno avrebbe detto che in realtà poteva, forse la maggior parte. Era il solito mantra del volere è potere; del considerare la riuscita come solo frutto delle proprie azioni. Pura retorica. Come si poteva essere così orbi da trascurare le molteplici variabili esterne, così ciechi di fronte alla complessità. La sua formazione scientifica lo vincolava ad un pensiero razionale, lui e le sue volontà erano un ordine di grandezza inferiore alle variabili esterne. Si sentiva inetto, insufficiente tale da divenire inerme. Certo non era forte, non spiccava per caparbia e non era neanche portato ad incassare e resistere. La sua tendenza era a mollare, lasciar perdere, farsi abbattere. Era pavido. Lo schema che si profilava nella sua mente seguiva pochi semplici passi, sempre gli stessi. L’epifania di avere le capacità per uscire dalla propria situazione restando affascinato da un cambiamento, una nuova condizione. L’elaborazione laboriosa, del tutto personale, astratta ed esclusivamente nella propria immaginazione di un come e della visione paradisiaca del nuovo avvenire. Fino allo scontro con la cruda realtà, dover uscire dalla propria testa, fucina di illusioni e luogo di evasione. Sopraggiungeva l’inadeguatezza, il dubbio, era sempre stato un asso della teoria ed al contempo un disastroso uomo di azione. Il dubbio cominciava a figliare, al ritmo di un coniglio; germogliava come spore, dando luogo, come nei parassiti, a mille funghi, virus che lo assorbivano e lo depotenziavano. Come un cervello in avaria veniva deviata la propria capacità critica. A tal punto gli si presentavano due strade, la prima così sicura, confortevole ed agognata, la fuga, il semplice voltarsi, rifiutare l’azione e rassicurarsi nel pensiero che in fin dei conti non è che fosse così vero che desiderasse ciò che fino a poco prima bramava con ardore. La seconda era quella più dura ma anche più conciliatoria, indulgente… la finzione. L’artificiosa messa in opera di una pseudo azione fallimentare atta al solo scopo di giustificare la sconfitta nel prossimo avvenire. Non si poteva dire che non avesse tentato.

Tali strade si congiungevano a valle, in quel luogo in cui risiedo uno sconfitto, una specie di pianura grigia nelle tonalità dei colori, dal cielo cupo e monotono, ai prati incolti e trasandati. Lì al ridosso di uno acquitrino, lui, solo, come sempre ed ancora, con il consueto sguardo basso di chi spera poco ed il cui peso dei pensieri tende a chinargli il capo sempre più in giù. Fermo, immobile, inerte come un gas, pallido e moggio. L’unico accenno di espressione fioriva sulle labbra, non un sorriso, ma un leggero ghigno, come di chi l’avesse scampata per un pelo, di nuovo. Un ghigno di serenità e compiacenza, di chi tutto sommato trova piacere nell’ostacolarsi. Eccolo lì, a vederlo da lontano, lo sconfitto. Era un perdente. Forse ne andava fiero.

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