La macchia sulla cravatta

Serie: ROSMARINO


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Andrea ha avuto un incubo. Eleonora lo rassicura, ma non troppo.

Ci sono segni che parlano più delle parole. Piccole incrinature.

Dettagli. Come una macchia, minuscola, sul nodo della cravatta. Lo nota lui, allo specchio. Se lo tocca con due dita, lo guarda come si guarda un’ombra. Un punto cieco nella stoffa blu notte.

«Hai notato l’alone?» chiede.

«Non stiro mai le cravatte. Lo sai.»

«Sembra… una macchia di unto.»

Sorrido. «Forse è un segno del destino. Una macchia della coscienza.»

Non ride. Fa solo un mezzo sorriso stanco.

Non prende il caffè. Vuole un succo. Dice che ha lo stomaco sottosopra.

«Uno strano senso di vuoto» mormora.

Lo guardo. «Avrai sognato troppo.»

Mastica mezzo biscotto come se avesse paura di digerirlo. Poi prende la chiave dell’auto. Esita. Mi guarda.

«Stasera… magari qualcosa di leggero. Riso in bianco?» dico guardandolo fisso negli occhi.

«Senza troppi aromi. Sai, ho il palato strano in questi giorni.»

«Solo un filo d’olio. Niente che possa disturbare il tuo equilibrio.»

Annuisce, più sollevato. Come se gli avessi appena promesso di non toccarlo con le mani bagnate.

Quando esce, resto alla finestra. Lo vedo infilarsi in macchina.

Ha un’aria… piccola. Come se il giubbotto gli pesasse.

Nel pomeriggio metto ordine nella credenza delle erbe. Etichetto i vasetti. Ruta, melissa, papavero, valeriana. Mi rilassa. Controllo le dosi. Rileggo i foglietti.

Aggiungo una nuova nota al quaderno: 

Papavero essiccato. Leggero sedativo. In eccesso provoca sonnolenza, senso di irrealtà, euforia dolce. Nessuna tossicità rilevante.

Ma fa pensare.

Più tardi, mi arriva un messaggio.

“Resto fuori a cena. Collega da Milano. A domani, amore.”

Rispondo: “Perfetto. A domani allora.”

Preparo comunque due tazze con la tisana. Una la bevo. L’altra la lascio sul tavolo. Intatta. Calda.


Il panico

Succede alle tre e quattordici del mattino. Guardo l’orologio sul comodino prima ancora di alzarmi. Un colpo secco, un rumore d’urto e poi… quel suono profondo, umido, sgradevole. Il vomito.

Sbatte contro il silenzio della casa come un sasso nell’acqua ferma.

Scendo dal letto. Lo trovo in ginocchio, davanti al gabinetto, sudato, con le mani che tremano. Il viso bianco, come se avesse svuotato anche il sangue. I suoi occhi mi cercano.

«Mi gira tutto» mormora.

Lo aiuto ad alzarsi. Le sue spalle si piegano sotto il mio tocco, come se fossero fatte di pasta. Lo faccio sedere sul bordo della vasca.

Lui ansima, scomposto, spaventato. Ci guardiamo. Per un istante leggo nei suoi occhi una paura precisa. Ha paura di me.

«Che cos’hai preso ieri?» chiedo, piano. Lui deglutisce.

«Solo… la tisana. Quella di sempre.»

“Quella di sempre.” Come se fosse un codice. Come se ogni goccia fosse diventata sospetta.

Prendo un asciugamano. Glielo passo dietro il collo.

«Ti porto in ospedale.»

«No, magari… passa.»

«Andrea. Ti porto. Adesso.»

Guidare di notte mi piace. Le strade vuote, il rumore basso delle ruote sull’asfalto. Lui è seduto accanto a me, con la testa poggiata al finestrino, gli occhi semichiusi. Trema appena. Non parla.

Io sì, dentro. Dentro parlo con me stessa. Non ho fatto nulla di diverso, penso. Nessuna dose fuori posto. Niente che possa… no. No.

Ma lui non lo sa. E io non dico niente.

In ospedale ci separano. Lui va dentro, dritto nel bianco.

Io resto fuori, sulle sedie dure, sotto la luce che non perdona.

Un medico mi fa domande. Ha la voce piatta di chi ha visto tutto.

No, nessun farmaco. Sì, qualche tisana. No, niente molluschi, niente pesce. Sì, ultimamente diceva di avere lo stomaco sensibile.

Prende nota. Io guardo il cartellino sul suo camice:

Dott. Cella. Gastroenterologia.

Mi offrono un bicchier d’acqua. Lo rifiuto. Mi porto una mano alla fronte, sento il polso rallentare.

Prendo il diario dalla borsa. Lo apro. Leggo ad alta voce, a mezza voce.

Ruta.

Artemisia.

Melissa.

Valeriana.

Tutte innocue. O tutte colpevoli. Dipende dalla storia che uno vuole raccontare.

Il grande orologio alla parete segna le quattro e trentasette quando un medico si avvicina. «È stabile. Lo teniamo sotto osservazione.»

Annuisco. Solo allora mi accorgo di quanto sto tremando. Mi spavento.

Sul serio. Non perché l’ho fatto. Ma perché, per un attimo, ho pensato di averlo fatto davvero.

Serie: ROSMARINO


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