Gli applausi di Chaedarcuin

Serie: Il sovrano tra i pari


Ardaent, Subcontinente di Manneng

Nitherr, 25 luglio D.A. 421.012

Rilassando le spalle, Gavriel espirò dalle narici. Il fumo gli danzò davanti agli occhi, piegato da una corrente che sapeva di pioggia imminente. Un refolo più forte lo spinse addosso a Lennard, che dormicchiava sugli scalini del Palazzo dello Staathalter di Chaedarcuin.

Mordicchiando il filtro della sigaretta, Gavriel si strofinò i capelli biondicci. Il cimiero integrale slittò sul collo, rimanendo appeso per il sottogola. Strinse il morsetto e lo sciolse con uno strappo brusco, lasciandolo cadere alle sue spallee. Il tintinnio metallico dell’elmo che sbatteva contro il gradino gli punse i timpani.

Lennard s’impuntò sui gomiti e sollevò la visiera, grugnendo qualcosa d’incomprensibile. I suoi occhi erano cisposi.

«Che hai detto?»

«Ti ho chiesto se ci stiamo muovendo» bofonchiò il commilitone, tirandosi a sedere e spostando il fucile aralasket al suo fianco, vicino alla spada.

«No.»

«Allora non fare tutto questo baccano, per i Theos!» Addossò il capo alla sua giacca da campagna, appallottolata a mo’ di cuscino. «Adesso uno non può più neanche dormire in pace…»

«Ey, bamboccio!» urlò Arnst, adocchiando uno strillone, sobbarcato da un borsone carico di giornali. Era scalzo e bianchiccio, con corte bretelle azzurrine e un cappello sbiadito. «Ce lo tiri un quotidiano?»

Prendendo un giornale dalla sacca, lo strillone lo lanciò sulle scalinate. «Sono freschi di stampa!» urlò con le mani a coppa davanti alla bocca. «La fortezza di Emanné Windel è caduta! Gli xaeoniani dilagano verso Alassel!»

Due talleri da mezzo Volere gli rotolarono vicino.

«Con un tremendo sbarramento d’artiglieria, i soldati della feldgeneral Aerekka Vohn Zersenm hanno sbrecciato le mura di Windel, costringendo il suo comandante alla resa.» Arnst lesse quelle righe stringendo gli occhi e spostando l’indicatore con l’indice. Era uno dei pochi, tra i tremila-e-novecento del Decimo Reggimento, a sapere leggere e scrivere non solo in jenthalico e volontiveo, ma anche in nitherrico. «Davanti a questa catastrofe, re Adalbertus VI ha chiamato tutta la nazione a raccolta per…»

«Per stare dietro di noi mentre facciamo il lavoro che i suoi soldatini di cioccolata non sono stati capaci di fare, ecco perché» rimbrottò Adelche, seduta a gambe larghe sul suo zaino. «Era ovvio. Cosa c’è da fare tanto i sorpresi?»

Umettandosi le labbra, Gavriel occhieggiò la piazza. Da una delle strade maestre, costeggiando un fiume di autocarri antigravità e traini mossi da cavalli e sleipniri, proveniva il disciplinato scalpiccio di una colonna di fanti kalinchevi, allineati in ranghi larghi dieci anime. Il loro passo era lungo e solerte, cadenzato con una precisione che aveva del matematico. Soffocava il tramestio degli zoccoli ferrati, il cigolare delle artiglierie al traino e i sospiri dei trasporti.

I kalinchevi indossavano brillanti pantaloni rossi e lunghe giacche tinte di blu scuro, con paludamenti antischegge alti alle ginocchia e stivali neri. Le loriche erano lucenti, tra l’acciaio e il bianco. Grandi elmi, con i visori agganciati sopra alla calotta frontale, li facevano sembrare delle guardie in parata più che un reparto in marcia per la guerra vera. Come pensavano di mimetizzarsi con addosso quella roba sgargiante? Poco male, erano affari loro.

L’alfiere del battaglione portava una grande bandiera marcata dal quartetto rosso-bianco-blu e verde. Al centro del drappo figurava una Madame Kalinchev, capelli bruni al vento e seno destro nudo, che strangolava l’Aquila Rampante xaoniana, spalleggiata dal Gallo Imperiale a becco alto.

«Se fosse vera, me la farei» borbottò Gavriel, indicando la bandiera a Iàn, che sghignazzò sotto i baffi.

«Le chiederesti se ha una sorella, prima?»

«Quale, la Dama Aurenìa?» Anche lei non era male, a pensarci. In un certo senso era un peccato che nessuna delle due fosse di razza alarkhiinee; le orecchie a punta aggiungevano qualcosa. I dannati aelph’ dovevano pur essere bravi in qualcosa.

«Eh, anche quella è fatta bene.»

«Piantatela di oziare!» scandì Fen. Era sulle scale, adesso, appena fuori dalle grandi porti del Palazzo. Si passava tra le mani una postilla pieghevole e sottobraccio inforcava un carteggio ripiegato dall’aria vecchia, farcito di photografie satellitari. «Abbiamo ricevuto i nostri ordini, gente.»

Facendosi strada tra la mareggiata di commilitoni che si alzavano, imprecavano, prendevano gli zaini e già si avviavano verso i mezzi disposti nella piazza, Gavriel prese il suo capitano per un braccio. «Dove ci mandano, sire?»

Fen soffocò un colpo di tosse sulle nocche, poi gli passò la postilla. Era un piccolo dispaccio ottagonale, ottagonale e traslucido. «A Blessel, Hottarden. Vicino a Kaulnas, tra gli altavistianici, i kalinchevi e gli zenovianei.»

«Ma è vicino a Emannuendel!» disse Adelche, porgendogli lo zaino e il fucile aralasket. «Ci stiamo muovendo verso la frontiera dopo che questa è caduta?»

«Così sembrerebbe» disse il capitano, picchiettandosi il palmo con la cartina ripiegata. «I comandi ordinano che incassiamo l’avanzata degli xaeoniani. Questi vanno poi respinti fino a Konstantinne e lì messi sotto assedio.»

Voleva dire invadere la colonia xaeoniana, lì in Ardaent, da nord, usando Nitherr come trampolino di lancio. Proprio come stavano facendo gli xaeoniani, ma dalla direzione opposta. La collisione, con quelle premesse, era inevitabile.

Tirandosi in piedi di controvoglia, Lennard tirò un foglio appallottolato in testa alla compagna di squadra, che bestemmiò sottovoce. «Emanné Windel, ignorante! Cos’è Emannuendel?»

«Mi sono sbagliata!»

«Sì, ho capito, ma nemmeno esiste quel posto!»

Accodandosi a Fen, Gavriel discese i gradini. Si mise l’elmetto in testa e sbirciò la colonna kalincheva, già oltre le porte nord-occidentali della piazza. Dietro di loro procedevano quegli altavistianici incrociati di notte, con i loro cannoni al traino e i fucili arabalas in spalla. Le loro uniformi erano rosse e marroni, più scure e semplici, e le loro armature erano state brunite.

Decisioni sagge.

Agganciato l’elmetto alla cintura, Fen si girò a guardare le quattro compagnie che smontavano dalle scalinate per incamminarsi. «Quinto Battaglione, in marcia! In fila per cinque!»

La cacofonia dell’assembramento rotolò sulla strada e risalì contro gli scuri delle case, fin sopra i loro tetti spioventi. Molte finestre erano aperte, notò, con persone dietro che li guardavano. Qualcuno, non sapeva dire chi né localizzarlo, cominciò ad applaudire.

«Hai visto?» gli chiese Lennnard, spostando il fucile dal braccio sinistro al destro per indicare quattro ragazze in piedi dietro la ringhiera scura di un balcone, vestite con abiti color pastello. Sui loro visi c’era come un senso di contrita felicità.

No, forse quella era attesa. Oppure speranza? Tutte e quattro battevano le mani, con vigore crescente.

«Uccidete le Punte!» gridò la sola dai capelli biondi. Erano sorelle? «Uccidete gli xaeoniani!»

«Cacciate gli invasori!»

«Morte a Xaeon l’invasore!»

Accendendosi una sigaretta, Gavriel dardeggiò dall’arco della porta al balcone e poi di nuovo all’arco, sopra al quale si erano riuniti molti bambini. Saltellavano e si sporgevano in avanti, tutto per vederli.

«Evviva gli alleati di Nitherr!» urlò la voce di un uomo, subito spalleggiato dalla folla. Tra i soldati altavistianici davanti a loro, qualcuno prese a ricambiare il saluto della folla, sventolando il cappello d’ordinanza oppure l’elmetto.

Gavriel alzò la testa. Un sorriso stava premendo sulle sue labbra, spingendo per uscire allo scoperto. Che l’entusiasmo di quella folla fosse contagioso? Stava crescendo di numero, con porte che si aprivano e i lavoratori del primo albeggiare che si facevano da parte, sgomberando il passaggio.

Uscirono dall’ombra dell’arco tra applausi scroscianti assediati, come i loro compagni di Altavista, da civili nitherrici che cercavano di abbracciarli, baciarli o regalare loro forme di pane e cordiali.

Gavriel accettò una birra in bottiglia di vetro dalle mani di un vecchio signore. «Fate scappar via quei codardi, giovanotti.»

«Faremo il nostro dovere, mishré.»

Una ragazza lo abbraccio, sbilanciandolo. Iàn e Valk lo aiutarono a liberarsene, spingendola con docilità verso l’ala di folla.

«È lunga la strada per Konstantinne!» canticchiò un intero rango di altavistianici, ventennii come loro e con voci cariche. Conosceva quella canzone e la fischiettò, unendosi alla loro goliardia. «È lunga la strada per Konstantinne, per andare a bussare dagli xaeon! Arrivederci, Wyllyamsqaìr! Addio, Raithnoon! Ci chiamano per avanzare, sì, avanzare su Konstantinne…»

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