IL CAFFE’

Riapro gli occhi, la luce feroce mi ferisce. La luce violenta che schiaccia il deserto, fuori dalla finestra, sotto la sua suola torrida, odorosa di fieno arso e di miele.

Mi bruciano le pupille, ma di più brucia il braccio avvolto nelle fasce di garza.

Idan, il pianista rauco, vecchio amico d’infanzia, mi incita ad alzarmi: “Torna a ballare con noi fratello, hai dormito abbastanza sulle tue ferite.”

Mi alzo in fretta, mi gira la testa. Devo fare il mio dovere.

Miriam si oppone alla mia vestizione, incerta e maldestra, con parole sussurrate, tentatrici, come un dolce millefoglie ai petali di rosa.

Mi accarezza la barba folta e gli occhi con le sue mani leggere: “Non sei ancora in grado di andare, aspetta almeno che ti prepari un caffè, rifletti.”

Il caffè sì che è una tentazione, nero come i suoi capelli lisci che tocco delicatamente con la mano fasciata.

Idan mi tira per la maglietta: “Ti devo cantare una serenata?”

Faccio un passo indietro, stringo i pantaloni con la cintura: “Fammi accendere.”

Inciampo mentre mi allaccio gli stivali con la sigaretta fra le labbra.

Non si può pretendere di più da uno che è appena resuscitato. Sicuramente non l’equilibrio.

Esco nell’arena di case bianche e polvere di sabbia, come scivola bene il sudore sul collo del giubbotto antiproiettile.

Esplosioni come colpi di grancassa provengono dal greto del fiume morto in fondo alla valle.

Io e Idan corriamo a testa bassa nei vicoli stretti del paese.

Da un’asse di legno, che una volta doveva essere una porta, un uomo calvo con la barba rossiccia mi afferra un braccio e sorride: “Bentornato fratello terrorista.”

Mi ritrovo, subito dopo, a correre con un lanciarazzi anticarro RPG-7 sulla schiena, alle spalle di Idan che porta uno zaino con chissà quale diavoleria dentro.

Vedo due figure minute controsole. Cosa ci fanno dei bambini in strada in mezzo a questo casino?

“Andate a ripararvi a casa delinquenti!” urlo mentre una granata esplode all’angolo del vicolo.

I bambini corrono veloci, coperti di polvere, i colori delle loro magliette è diventato indistinguibile da quello dei loro capelli dei loro visi.

Gli occhi neri guizzano alla ricerca di un riparo. Le gambe magre li seguono.

C’è un rumore di ferro pesante che si muove e cigola, un carro attraversa la strada principale, quello che una volta voleva essere un boulevard con alberi e negozi.

Il mostro è seguito da alcuni soldati.

Mi inginocchio, coperto da una carcassa di Citroen AX, metto il carro nel centro del mirino.

Aspiro il fumo della sigaretta e penso che avrei bisogno di una bella tazza di caffè bollente, una di quelle che mi preparava mamma quando vivevamo nel villaggio in collina, in mezzo ai filari di ulivi dai tronchi sghembi e dalle foglie argentate.

Mi gira la testa e faccio fatica a mettere a fuoco. Non devo avere fretta.

Ma Idan dov’è finito, mi stava correndo davanti? Si è perduto nella nebbia degli scontri.

La ferita del braccio mi torna a dolere, il razzo che tengo in spalla incomincia a tremare.

Carne maledetta, furiosa, che non mi lascia fare il mio lavoro.

Entro in uno scheletro di edificio e salgo al primo piano per inquadrare meglio il bersaglio.

Lo vedo, si sta girando nella mia direzione. C’è un vecchio lì vicino.

Cosa fa il vecchio in mezzo a una battaglia?

Si avvicina un soldato, parlottano, chiede una sigaretta, il vecchio. E’ andato di testa.

Arriva di corsa un altro militare che spinge bruscamente l’anziano signore via dalla strada. Urla.

Si spara un po’, è fuoco di fanteria.

Ecco che riconosco Idan che bersaglia le uniformi verdi con una mitragliatrice, mi sembra usi una Dshk sovietica.

C’è un fuggi-fuggi generale. Decido di approfittarne. Il carro è quasi fermo, inerme.

Inquadro il bersaglio e lancio. Il razzo parte con una gran fiammata.

Comincio a correre prima di sentire il rumore dell’esplosione. Fra poco questo edificio salterà per aria, cercheranno immediatamente di colpirmi…

Sulle scale travolgo i bambini di prima. Il più grande lo spingo fuori a calci, l’altro lo trascino dal collo della maglietta.

Non sento il boato.

Mi fischiano le orecchie. Tutto fischia in mezzo a questa nuvola bianca. Non riesco ad alzarmi. E’ arrivata la risposta dal nemico.

Sono stato sbalzato da un’esplosione dentro al negozio di alimentari nel lato opposto della strada. Attorno a me ci sono, sparpagliati sul pavimento, lattine di foglie di vite ripiene, lattine di pomodoro concentrato, sacchetti di semi di melone salati, noci e pistacchi.

Non abbiamo fatto in tempo a scappare.

Quel poco che c’era sugli scaffali di quello che una volta era un minimarket, ora è disseminato in strada insieme a fogli che volano senza ordine come avvoltoi sulle macerie.

Il bambino che ho preso a calci mi versa dell’acqua sul viso da una bottiglietta di plastica. Mi sorride con le labbra secche e insanguinate. Gliela strappo di mano e bevo tutto quello che è rimasto.

Devo essere rimasto incosciente per parecchio tempo, la luce è cambiata.

Ho una sete pazzesca e in testa il pensiero ossessivo del caffè che non mi abbandona: “Grazie, come ti chiami?”

“Hassan.”

“Hassan, devo recuperare l’RPG.”

Mi appoggio alla sua spalla per alzarmi. Non mi sento più il braccio sinistro, non me lo guardo neppure.

Non capisco dove sono, l’edificio da cui ho sparato non esiste più, è inutile che vada a cercare l’arma.

Il carro è scomparso e anche la strada è vuota. I rumori della battaglia vengono da più lontano, oppure sono solo le mie orecchie che non funzionano bene.

Chiedo: “Hassan, dov’è il tuo amico?”

Lui alza le spalle ed io non ho il coraggio di cercare per terra in mezzo ai pezzi del negozio anche i suoi pezzi.

Voglio solo tornare a casa e bermi una tazza di caffè bollente del mio amore.

Lo guardo: “Nasconditi ed esci solo quando farà buio per andare a casa.”

Ripercorro il vicolo in senso contrario, passo di fianco alla mezza porta di legno.

Le case sono avvolte da una nuvola che galleggia sotto il cielo terso.

I muri sembrano mangiati da topi giganti, sono svuotati dall’interno. Rimangono impalcature di abitazioni. Cemento e tondini di ferro rigato.

Il sole si abbassa sulle colline.

Imbocco la strada di casa, dovrebbe essere lì ma non riconosco nessun edificio familiare. Tutto è cambiato.

Al posto della facciata c’è un buco e qualche muro.

Corro a cercare Miriam quando, da quel che rimane dell’emporio di elettrodomestici, spunta una pattuglia di militari in fila indiana. Camminano chinati come bambini che giocano alla guerra.

Ed io sono nuovamente sdraiato per terra. Mi hanno colpito. Ho avuto il tempo di sentire solo il rumore di due spari. Ho il fiato corto e il sapore di sangue in bocca.

Guardo il cielo, sembra che la nuvola di polvere si stia diradando, la luce mi ferisce gli occhi. Mi sento svanire.

Mi sembra di vedere la sagoma di un viso sopra di me che mi guarda. Mi tocca il collo.

Stringo le palpebre e con un filo di voce dico: “Miriam, amore, sono a casa, per favore preparami il caffè.”

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Discussioni

  1. È davvero bello questo tuo racconto, toccante e molto ‘vivo’. La tua è una scrittura per immagini, immagini a tratti. Frasi brevi ed efficaci. Colori, sensazioni, odori, dolore e frastuono. Fra tutto questo, una donna bellissima, il profumo del caffè e, la cosa magica, un bambino che sorride. Ma come faranno loro a sorridere sempre?