Il rapporto umano
Buona parte di questa storia tratta del tentativo di Mario Costantini di liberarsi di una certa colpa, i cui dettagli rimarranno velati lungo tutta la narrazione o cui si alluderà appena per capire in che misura ha segnato il carattere del protagonista.
Fin da quando ebbe modo di pensarci sopra, in un periodo tempestoso della sua vita, la sua personalità fu determinata dall’azione simultanea di tre fattori: l’Agente Frammentazione, l’Agente Dispersività e l’Agente Deformazione.
Intanto, i primi due hanno sempre agito in coppia: se Mario potesse parlare, direbbe che la sua mente “non ha mai avuto collante a sufficienza per tenere unite tutte quelle parti” che, giunti ora al momento del racconto, dell’asettica trattazione di certe forze esterne di cui si avrà modo di parlare, altrimenti sarebbero finite alla deriva. Un’“asettica trattazione” che, come un’operazione chirurgica, dovrà ripristinare una situazione gravemente compromessa. E a questo proposito, è bene precisare che forse in Mario preesistevano quegli strumenti di “chirurgia delle emozioni” di cui però non seppe servirsi nel tempo più delicato della sua vita.
Questa trattazione fredda e lucida del comportamento di un ragazzo così complesso è da associare all’impressione che produsse in lui il tentativo di avvio alla professione veterinaria da parte del padre. Nonostante la giovane età Mario non manifestò mai il minimo disgusto di fronte a viscere e ossa sporgenti che sul tavolo operatorio erano la norma.
Dall’intervento più comune, l’isterectomia, imparò con mano l’incredibile resistenza dell’apparato riproduttore femminile, e questo, in futuro, in aggiunta all’enorme carico di meditazioni sul mondo e sul perché fosse lì senza sfruttarlo appieno, fu un pensiero ricorrente che lo fece riflettere, durante tutta la sua travagliata esperienza con l’altro sesso, sulla possibilità che la tremenda resistenza dell’utero fosse correlabile alle differenze qualitative che in media riscontrava tra uomini e donne.
Nei pochi anni in cui fu disposto ad assistere il padre, Mario non riscontrò nessuna emozione dalle visioni quasi da tavola anatomica cui ebbe accesso nella sala operatoria, e forse fu questo fatto a fargli maturare la convinzione che sui problemi del mondo bisognasse intervenire con la stessa freddezza del chirurgo. Convinzione che rimase latente per il resto dei suoi giorni. Questa freddezza appresa in modo così anomalo, in età preadolescenziale, fu messa a dura prova da certe esperienze che Mario fece negli anni della maturazione. Anni drammatici, diremmo, che Mario, non sopportando di essere associato a un’idea di dramma a sua detta fasulla ed evitabile, preferiva definire “di cinismo”.
A noi stessi piace descrivere i fatti di Mario così come lo riguardavano, senza aggiungere troppe tinte emotive/drammatiche, anche laddove parrebbe più naturale metterle in evidenza. In tutta franchezza, vi diciamo che se volete la vostra dose di dramma vi basterà accendere il televisore: è indiavolato per queste faccende e la storia di Mario Costantini non farà la vostra soddisfazione. A noi interessa il tentativo di crescita interiore di un ragazzo in fondo cinico come pochi; a noi non interessano i drammi dell’individuo, ma l’obbligo che ognuno ha di porre rimedio ad essi. Da questa istanza parte la nostra vocazione alla freddezza.
In secondo luogo, una forza scrutatrice di origine esterna palesò deformandoli come sotto una lente di ingrandimento certi peccati dell’anima sua condannandolo ad una visione infernale (e anacronistica) della propria esistenza. Ma, visto proprio l’anacronismo con una mente in fondo razionale e agnostica, seppure portata da un gusto per l’immaginifico e l’estetismo decadente all’evasione dalla realtà, è lecito supporre di natura interiore anche questo crudele, incessante censore, che nel caso fosse reperibile nella natura dell’individuo, allora sarebbe curabile con un buon esorcismo. E quale esorcismo migliore della parola? “La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà” (Gorgia, Encomio di Elena).
Ma siamo sicuri di poter attribuire prodigi simili alla parola del Maestro che il nostro compagno Mario incontrò nell’inverno del ’20? Come possiamo giudicare l’entità dei cambiamenti e la stranezza delle persone che Mario incontrò lungo la strada segnata dal Maestro? Fu un cambiamento repentino o in Mario già erano presenti i primi spunti da approfondire con l’aiuto di una guida come quella?
Quando parliamo del Maestro, ci riferiamo a un anziano che con un’abilità retorica appresa da chissà quali fonti riusciva a sortire nelle persone afflitte dagli stessi dubbi di Mario gli stessi effetti prodotti da una comune – nel caso di Mario, arida – psicoterapia. Ma la sua bravura era frutto di un dono di origine sconosciuta, si sarebbe detto semidivina, ed era raro che uno studioso, per quanto specializzato, arrivasse a quei livelli di profondità.
Mario, che comunque non prestò mai attenzione a questo dettaglio, preso com’era ad indagare le conseguenze delle sole parole dell’uomo, senza rendersi conto ebbe accesso a due terapie parallele; non avrebbe saputo dire in che consistesse il punto di tangenza di questi due approcci. Mario era un disattento, un frettoloso: non prestava cura a delle circostanze che avrebbero potuto farlo riflettere a dovere. Eppure una cosa era certa: la parola era solo uno strumento, e se il Maestro lo iniziava alla contemplazione e all’uso di uno strumento di quella natura, la terapia che da anni seguiva non lo aveva mai avviato su quella strada: se ne serviva e basta, senza fronzoli e constatazioni di natura pseudomistica.
Con il Maestro si rimaneva avvinti dalla crudezza con cui prediceva l’avvenire, e a molti di noi non interessava nemmeno dare un’opinione, contraria o meno. Il tutto stava nell’ascolto perché la forza di origine semidivina che permeava quella baracca fuori mano era sufficiente a riempire le nostre vite forse destinate alla vuotezza senza quella figura per molti tratti misteriosa.
Mario non sapeva questo: il Maestro lo avrebbe portato su altri mondi, la terapia lo avrebbe dovuto far ripiombare in sé stesso; e le conseguenze dello scarto tra questi due metodi di indagine avrebbe fatto sentire le sue conseguenze.
Forse era troppo ancorato ai suoi preconcetti sulla natura del sé e dell’uomo in genere. Pensava ad esempio che l’amore era un atto basato su una pura autosuggestione, per cui se ami qualcuno, ti convinci che l’amore esiste, e se ti convinci che esiste allora sarai disposto ad amare: per Mario non esisteva imbocco a questo circolo ingannevole e superficiale. Eppure nei suoi diari non mancavano descrizioni, fredde seppure immaginifiche, del fenomeno amoroso, come la seguente: “Se immaginiamo una parete come il muro delle percezioni sensoriali di un individuo, e il contatto di una pallina da tennis sporca di vernice lascerà un’impronta su quella parete per poi rimbalzare via, allora possiamo dire che l’individuo ricevente avrà subìto un’influenza dall’individuo mandante. Ma ne avrà subìto, appunto, solo un’influenza, e nient’altro. Se invece immaginiamo che quella pallina scavalchi la parete nella sua interezza allora si presenta un’anomalia, in cui l’individuo ricevente (l’innamorato/a) non può più restituire la pallina che così si inabissa nelle regioni più retrostanti la parete delle sensazioni dell’innamorato/a. Quando questi conserverà per sempre la memoria della forma, delle dimensioni e del colore di quella pallina, allora potrà dirsi nato l’amore per l’altro individuo.” Ma non mancavano impressioni più liriche e fuggenti: “Amore mio dolcissimo, fossi un merlo da tempo avrei nidificato nei tuoi capelli.”
E intanto sarebbe stato disposto a creare un tipo completamente nuovo di interazione umana, basata su un qualcosa che avesse l’amore solo come rozzo precursore, e che ne fosse un’evoluzione. Altrimenti gli uomini sarebbero potuti regredire allo stato animale, perdersi per esplorare il regno dei sensi meno nobili come l’olfatto e annusarsi a vicenda come cani. Ma era improbabile: nella vita quotidiana stimoli e opposizioni di varia origine li avrebbero inchiodati alle loro vite civili.
Ma torniamo al Maestro. Quando si era in presenza di un personaggio del genere, all’inizio era quasi naturale non avere nulla da pensare; o peggio, credere di non riuscire a pensare nulla di degno di fronte a qualcosa che altri, al posto tuo, avrebbero annoverato tra le priorità assolute della vita. Almeno lungo il formarsi di un’opinione nascente si rimaneva incantati, come lo rimanevano a lungo i primi uditori, dalla bizzarria di un uomo esperto ma talvolta sconclusionato, così come lo definivano ancora i seguaci più fidati, che tuttavia mai negarono il potere scrutatore delle sue parole e l’ebbrezza che suscitavano certi modi di articolare le sue fantasie più sfrenate sul destino del genere umano. Aveva una potenza espressiva che, sì, giungeva nuova alle orecchie di chiunque, e i suoi ragionamenti non portavano ai concetti consueti. Nelle sue argomentazioni si scorgevano tanti limiti, ed era come vedere un ubriaco guidare a zigzag per una strada buia. Ma, ripetiamo, era certo che in qualche luogo nuovo ti stava trascinando a tua (e forse sua) insaputa, e per quanto quel suo andare lungo vie ignote e poco illuminate fosse a tratti irragionevole, avrebbe persuaso anche i meno sognatori fra noi: il resto della strada che la sua sconclusionatezza ci obbligava a percorrere da soli era in sé un avvio a quella liberazione dell’anima che tutti noi bramavamo.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa
Molto interessante