
L’incontro
Questa storia è stata scritta da una amica in terza persona e la rendo pubblica dopo molto tempo, come lei mi pregò di fare. Sì, proprio l’amica alla quale avevo disegnato a mano una piantina che forniva, in maniera diciamo artistica, il percorso da Passo Corese all’Abbazia di Farfa.
Non era la prima volta che lo facevo: intendo, suggerire un percorso, un itinerario ai miei amici di cavallo. Inoltre, conoscendo il territorio della Sabina come le mie tasche, devo dire che il farlo mi procurava sempre un vero piacere. Quel giorno mi proposi di accompagnarla ma lei, ricusando la proposta, disse che preferiva avventurarsi in solitudine per meglio godere la passeggiata, i familiari rumori della natura, la compagnia della sua baia e simili cose.
La rividi dopo pochi giorni e mi accennò del suo incontro con un monaco ma fu evasiva e non disse molto in merito alla lunga passeggiata. In seguito seppi, in maniera spicciola, che poi tornò al monastero per visitare l’Abbazia. D’allora una cosa davvero notai: colsi in lei un sottile cambiamento che la rese per un lungo periodo, come dire, una persona ascetica.
Di seguito riporto una parte della storia da lei scritta.
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Era la fine di maggio di buonora quando prese la vettura, mise lo zaino a tracolla e nella testa un preciso itinerario.
Una volta raggiunta la scuderia con pochi colpi di spazzola sellò la sua cavalla baia, presa da una fretta indicibile di montare in sella.
Su una approssimativa cartina, che un suo amico le aveva fornito, vi era l’itinerario da seguire. Questa menzionava solamente un bosco di faggi, dei cancelli con roccia da aprire e richiudere facilmente senza smontare, vari alberi forse per lei non proprio identificabili, cespugli di ginestra in fioritura, una radura con una antica quercia, poi c’era un fontanile dove mandrie brade solevano abbeverarsi e per il resto… era affidato tutto alla sua capacità di orientamento.
Prima di prendere il largo non dimenticò la borraccia con l’acqua, che avrebbe comunque potuto riempire quando anche la baia avrebbe avuto necessità di abbeverarsi ad un fontanile, dei pomodori, del pane e formaggio; alcuni frutti di stagione li avrebbe sicuramente trovati cammin facendo senza neppur darsi la pena di scendere. Non dimenticò il suo coltellino Opinel e l’ultimo libro che stava leggendo.
Una volta avvisato l’uomo di scuderia che avrebbe fatto ritorno entro l’ora del tramonto, s’incamminò al passo come si conviene quando s’inizia una passeggiata a cavallo, per rispetto dell’amata cavalcatura.
La sua meta era l’Abbazia di Farfa, comunità dei monaci Benedettini, situata nel cuore dell’antica terra Sabina a circa dieci miglia dal suo punto di partenza, Passo Corese.
La mattinata prometteva bene, sole, aria gradevolmente primaverile e il cielo con poche nuvole ma in apparenza non minacciose.
Ad un tratto si chiese per quale motivo avvertiva l’intenso desiderio di raggiungere il monastero, ma lasciò da parte la risposta ed iniziò con un piccolo trotto che mantenne per un lungo tratto, poi un leggero galoppino, accarezzando un invitante prato.
Lungo il tragitto consultò più volte la piantina, approfittando per cogliere dei frutti a portata di mano. Percorso più della metà del tragitto e raggiunta la radura circondata da fitti alberi, dove troneggiava la secolare quercia menzionata nella mappa, smontò di sella pregustando il panino con formaggio e pomodoro. Forse avrebbe anche letto due righe.
Dissellò la cavalla e la legò alta con la lunghina ad un vicino albero affinché brucasse un poco d’erba e all’ombra della quercia prese il suo riposo.
Aveva appena addentato il panino quando notò la cavalla drizzare le orecchie. In lontananza vide una persona che camminava lentamente nel verde tappeto d’erba alta: le parve un religioso, dato la cocolla con cappuccio che indossava, inoltre aveva un tascapane a tracolla e nella mano un bastone con il quale si aiutava nel camminare. Lui fece un cenno di saluto e lei rispose agitando la mano con il panino: il monaco lo prese come un invito. Lui si accostò alla cavalla, gli diede voce e carezzandola sul collo le sussurrò dolci parole.
E allora che notò la sua mano destra priva di due dita, la testa rasata e una lunga barba nera e arruffata. Il monaco si rivolse a lei con voce gentile chiedendole il permesso di riposare sotto la quercia e così, con visibile stanchezza, poggiò la schiena al tronco.
Consumato in silenzio il frugale pasto, s’incamminarono a piedi con la cavalla tenuta per le redini. Incontrato il fontanile i viandanti si dissetarono e a passo lento iniziarono il resto del cammino conversando piacevolmente di musica, di libri e della loro comune necessità di scrivere. Il monaco le confessò il suo costante piacere per la solitudine, esclusa la quasi silenziosa compagnia degli animali.
Lei a queste parole si animò raccontando delle sue lunghe passeggiate in solitaria per meglio contemplare e ascoltare ciò che l’apparente silenzio della natura le riservava, e come quell’ascolto, ne era certa, l’avesse resa più sensibile ai più sottili rumori, ai più leggeri aromi. Il forte desiderio di vedere anche se solamente dall’esterno l’Abbazia nel suo complesso, l’aveva spinta a fare il breve viaggio e si prometteva di tornare in quel luogo per una visita più accurata.
Il monaco annuiva col capo, poi prendendo la parola le confidò di non ritenere il loro incontro casuale bensì predestinato: entrambi anelavano raggiungere la stessa meta, anche se per ragioni diverse.
Dopo una pausa di silenzio egli iniziò il suo racconto che le avrebbe svelato una parte della sua vita.
La nostalgia e una forte necessità lo spingeva a tornare a quella Abbazia dopo quaranta anni: sì, poiché egli era fuggito dal monastero all’età di venti anni poco dopo aver preso i voti, costretto dagli eventi. Allora giovane e inesperto come era della vita, presto si mescolò con gente irrequieta e infingarda, cosa che gli arrecò gran danno, ancora visibile sulla sua mano destra.
In seguito le sue frequentazioni si spostarono su amicizie importanti ma a volte deleterie, imparò il gioco d’azzardo e iniziò a barare, dopo aver sperperato ingenti somme di denaro cadde in miseria e si rifugiò in un casolare vivendo da eremita.
Scoprì che il ritiro spirituale forzato dagli eventi, in realtà era stato una benedizione e ora che era trascorso il necessario tempo per la riflessione, desiderava tornare all’Abbazia, sperando di essere ascoltato, perdonato e nuovamente accolto come monaco.
Si sentiva molto stanco e anche se non troppo vecchio, provato dagli eventi. Aggiunse che se il suo momento fosse arrivato a breve, lo avrebbe colto nel luogo che lui aveva scelto come ultima meta.
Di fronte all’Abbazia si salutarono con la promessa che sarebbe tornata, chiedendo di lui per un nuovo incontro. Una sorta di malinconia, un senso di vuoto la colse appena vide il monaco scomparire alla sua vista.
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Cari lettori, il racconto si interrompeva bruscamente qui ma, notoriamente curioso oltre che messaggero di piantine vaticinanti volli spingermi più a fondo in questa storia per sapere come finiva.
Eh no, la responsabile del misterioso scritto, al quale mi ero appassionato, non avrebbe dovuto lasciarci così: soprattutto me, il suo migliore amico di cavalli.
Deciso, una mattina, mi recai alla scuderia e la trovai intenta a montare a cavallo (diciamo già con un piede nella staffa) la bloccai in modo perentorio, trattenendo le sue redini con mano ferma. Esigevo che mi narrasse il resto della storia, ah certo! Le proibivo di tacere il finale. Accettò, stranamente, di buon grado.
Ciò che vi apprestate a leggere è la fine della storia e io mi sono preso la briga di trascriverla.
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Tornò all’Abbazia per visitare quel gioiello di pregevole architettura e apprezzare l’atmosfera mistica del convento e del borgo ma desiderava soprattutto incontrare di nuovo il monaco, di cui non conosceva neppur il nome, in quanto lui le disse di aver abbandonato tutto ciò che possedeva e così anche il nome.
Aveva cercato, indagato chiesto e pregato che le dessero notizie di quel monaco senza nome che lei descrisse con dovizia di particolari.
Andò interrogando gente del borgo e alfine seppe quel che temeva, ossia le dissero che un uomo (non ancora identificato) male in carne, vestito con lisi abiti monacali, era stato rinvenuto privo di vita di fronte all’ingresso del monastero, presumibilmente morto di stenti. E alla sua domanda le confermarono che sì, al poveretto mancavano due dita della mano destra.
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Ecco perché, la mia amica dal giorno di quell’incontro ha un atteggiamento, un non so ché di mistico che la rende, diciamo, meno scontrosa. Così le feci una domanda: perché hai lasciato in sospeso il finale?
– Semplice – rispose – questa storia l’ho inventata, tranne la mia passeggiata a Farfa, tutto il resto è pura fantasia, il racconto mi stava annoiando e, per appagare la tua curiosità, mi sono servita di te, per scrivere il finale, visto che te la cavi meglio con la penna.
– Quindi hai mentito!
– Io l’ho raccontata e tu l’hai scritta. Dunque ora non mento io, ma tu!
Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Oggi avevo proprio voglia di leggere un bel racconto come questo!
Ringrazio e mi auguro che gradisca anche le prossime storielle…
Mara