
Più la notte è buia, più l’alba è vicina
Serie: Mediamente in pericolo!
- Episodio 1: C’è qualcuno là fuori?
- Episodio 2: La strada verso il Nivolet
- Episodio 3: Il Gigante Silenzio
- Episodio 4: Solo arrivare a domani
- Episodio 5: Più la notte è buia, più l’alba è vicina
- Episodio 6: Ceresole Reale
- Episodio 7: Sospesi nel vuoto
- Episodio 8: Verso la tempesta
- Episodio 9: Tuoni, fulmini e saette
- Episodio 10: La “frascata”
STAGIONE 1
(Immagine di Fabio Elia)
Col buio fitto dell’alta montagna e senza alcun riferimento, i pendii sembravano tutti uguali, ma non potevano esserci grossi problemi di disorientamento, la direzione bene o male era quella giusta e, un po’ più avanti o un po’ più indietro rispetto all’auto, saremmo comunque sbucati sulla strada più a valle. O almeno così credevo. Cercavo di orientarmi osservando i letti dei ruscelli che intervallavano i pendii.
Pensavo a quelle assurde notizie false che Veo inventava, come quella degli escursionisti morti soffocati in tenda. Era una specie di bugiardo cronico che usava queste menzogne per ottenere qualche vantaggio, come , ad esempio, convincere qualcuno a fare qualcosa o a farlo desistere da qualcos’altro. Perciò lo aveva detto col chiaro intento di spaventarmi, di modo che fossi indotto a non restare in tenda. Credo, però, che quella sera fosse davvero scosso e iper suggestionabile, tanto che, ad un certo punto, si è bloccato, dicendo, con il panico nella voce:
-Fermati! Oh! Ci sono dei lupi! Guarda!-
Mi sono voltato e, per poco, non mi è venuto un infarto.
Coppie di occhi che si illuminavano, alla luce delle nostre torce, e stavano lì a fissarci.
Cercavo di tenere a bada la paura. Mi sono fermato ad osservarli. Non si muovevano.
-Saranno mucche. Sono troppo immobili.-
Esasperati da quella immobilità, abbiamo ripreso il cammino, tenendo d’occhio quei misteriosi osservatori, di cui non si capiva neanche bene a che distanza fossero. Intanto il tempo passava; eravamo in cammino da un po’ ed io avevo un decrescente senso di familiarità con il paesaggio intorno. In quel lasso di tempo avremmo già dovuto essere arrivati alla macchina. Non capivo più dove ci trovassimo. Pensavo di essermi spinto troppo a destra, verso l’area più selvatica, opposta alla direzione del rifugio. Avevo paura, non riconoscendo più il percorso, che ci saremmo potuti trovare, di colpo, di fronte a qualche burrone, difficile da vedere al buio. Dunque procedevo piano, ma con la sfinitezza di chi è stanco di camminare a vuoto. Veo mi seguiva, fiducioso del fatto che io conoscessi la strada e ansioso di arrivare all’auto e sentirsi un po’ meglio, sperava. Percepivo il suo malessere e anche il mio, poichè non sono abituato a prendermi responsabilità per gli altri, a malapena lo faccio per me stesso. A Favie, a Scilli, a Blaco piace prendere decisioni, iniziative ed io glielo lascio comodamente fare, affidandomi, accodandomi, delegando. Stavolta dovevo prendermi cura io di qualcuno e ciò mi dava una strana energia, da un lato e tanta inquietudine, dall’altro. Ad un certo punto, per la nostra frustrazione, ci siamo trovati di fronte ad un esteso campo di alte piante che ci impedivano di procedere e, lì a fianco, una tetra e sinistra casa diroccata. Eravamo nello stato d’animo adatto per inquietarci di fronte a scorci come quello. L’ansia di Veo era contagiosa, ma cercavo di tenerla fuori dalla mia roccaforte mentale, entro cui il pensiero operatorio dominava sulle emozioni, ma al portone della quale essa stava bussando pesantemente.
-Fanculo, Veo, torniamo indietro e appena incrociamo il sentiero, scendiamo verso il rifugio. Faremo un giro più largo e ci metteremo più tempo, ma almeno siamo sicuri che la strada è giusta.-
Veo non ha opposto resistenza. Si stava affidando totalmente a me e più lo faceva e più ero disorientato dal sentirmi fuori ruolo. L’idea, comunque, si sarebbe dimostrata buona e così, nel giro di un’ora circa, siamo arrivati, dapprima al rifugio, dove abbiamo constatato che gli occhi misteriosi altro non erano che i fanali delle vetture posteggiate davanti al rifugio e illuminate dalle nostre torce (sentendoci chiaramente idioti), e poi alla macchina. Nel silenzio della strada, il frigolare sopra di noi, dei cavi dell’alta tensione, mi dava nuovi pensieri di minaccia.
-Non possiamo dormire qua sotto, in pieno campo elettromagnetico.-
-Hai ragione. Spostiamo l’auto più in là.-
Col buio, avevo paura che Veo facesse finire l’auto nel pendio sottostante, con noi dentro. Invece conservava ancora una parte di sangue freddo. Ci siamo messi sui sedili anteriori, reclinandoli. Ma io ero davvero scomodo; ho cominciato a dimenarmi e ad inveire contro di lui che mi aveva fatto venir via dal mio cantuccio nella tenda. Poi, ho provato a spostarmi sui sedili posteriori e lì, in qualche modo, ho trovato la posizione e sono riuscito a dormire un po’. A tratti mi svegliavo perchè sentivo Veo agitarsi. Non gli era passata; continuava ad essere agitato e ansioso e ad aspettare in modo apprensivo la luce del sole.
Quando mi sono svegliato, con il giorno che illuminava in modo abbagliante l’interno dell’auto, Veo non c’era. Mi sono stiracchiato, ho guardato fuori, il panorama incantevole, e dopo aver indossato: occhiali da sole, scarpe e cappello che piace tanto a Favie, sono uscito alla ricerca del mio amico. Poco più avanti, sulla strada, stava facendo foto ai meravigliosi scorci offerti dall’alba montana. Quando mi ha visto, ha urlato con un fiacco entusiasmo per quello che stava facendo, adombrato da un retro sentimento di stanchezza per il poco sonno e di preoccupazione rispetto al disturbo esperito durante la nottata. Non sembrava contento di parlarne e così ho deviato con una proposta di fare colazione, per poi raggiungere gli altri. Il programma lo allettava. Così siamo andati al rifugio a farci servire la colazione da due rumeni, simpatici come la nebbia di lunedì mattina. A due tentativi di Veo di fare conversazione, l’orso che stava dall’altro lato del bancone non ha dato il benchè minimo segno di reazione. La mimica del volto è rimasta inflessibile, così come il suo silenzio. Ma il buonumore (un po’ forzato) di Veo non si è lasciato intaccare. Ci siamo bevuti due tisane bollenti, mangiando brioches, guardando fuori dalla finestra il lago che si abbronzava.
Raggiunti gli altri, li abbiamo incrociati mentre venivano via dalla piazzola, avendo già la roba con sè.
-Grandi! Avete già chiuso le tende e preso tutto?-
-Col cazzo!- Ha risposto Favie- La vostra tenda è là! Andatevela a chiudere!-
-Dai!- Abbiamo risposto in coro, io e Veo- Ma che merde!-
Facendo leva sulla compassione, siamo riusciti a convincere Ele a venire a chiuderci la quechua, poichè ai tempi era l’unica in grado di farlo. Gli argomenti utilizzati per convincerla sono stati: il malessere di Veo, la nottataccia che avevamo passato, il fatto che noi non fossimo capaci di chiudere una quechua (anche quando riposati e senza malesseri) e ammirandola per la sua bravura nel farlo:
-Solo tu sei in grado di chiuderla! Dovrebbero includerti nel kit!-
E così, chiusa la quechua (non senza esprimere disgusto per il vomito di Veo in bella vista, a fianco alla tenda), Ele ci ha accompagnati, mettendo in chiaro che però non ci avrebbe aiutati a portare la nostra roba. Quando ci siamo ricongiunti, Favie stava cercando di coricarsi su un materassino gonfiabile sulla superficie del lago, con il solo risultato di finire nell’acqua gelida, imprecando e bestemmiando come solo lui sa fare.
All’inizio, quando bestemmiava, mi chiedeva scusa, e dovevo ricordargli, ogni volta, che io sono buddista e noi non abbiamo Dèi. Poi, fortunatamente ha smesso; non di bestemmiare, ma di chiedermi scusa.
Scesi al rifugio, abbiamo messo tutta la roba in macchina e ci siamo diretti di fianco ad un lago, per stenderci un po’ al sole. Se non che, Blaco, aveva perso il portafogli ed è tornato indietro. Gli abbiamo detto di raggiungerci al secondo lago e poi siamo andati al primo.
Capite perchè ci chiamiamo i mediamente organizzati?
Blaco perde sempre qualcosa. E sempre lo ritrova, ma dopo aver sclerato un bel po’ e fantasticato su complotti in cui staremmo a sbellicarci alle sue spalle, mentre lui cerca disperato. E’ un po’ paranoide, in questo. E oltretutto, è un altro modo con cui perde del tempo e ci costringe ad aspettarlo.
Io stavo sdraiato, col cappello a tesa larga (che piace sempre a Favie) poggiato sul volto, vicino alla riva del lago. Sentivo gli altri parlare, mentre misuravo il mio respiro corto. Sembrava avessi il fiatone, anche se ero in una condizione di relax. C’era Veo che, ancora assorbito dalle sue preoccupazioni ipocondriache, si proponeva, appena tornato a Torino, di fare controlli al cuore, ai polmoni e a un paio di altre cose che non ricordo. Spesso, durante la giornata, si poggiava la mano sul cuore per sentirne i battiti. Mi ricordava Napoleone, in quella posa.
Poi è tornato Blaco, dopo aver ritrovato il portafogli. Sbraitava, rimproverando il gruppo di non averlo aspettato, di avergli dato indicazioni sbagliate e altre cose così. Io facevo finta di dormire, sotto il cappello a tesa larga (che fa impazzire Favie), per sottrarmi a quei rimbrotti. Nessuno lo prendeva sul serio. Favie fingeva scuse, ghignandogli in faccia. Scilli si faceva scappare qualche risolino nervoso, cogliendo il sarcasmo di Favie e dicendo frasi di alleggerimento come:
-Ma che ccazz ne so, non c’ho capit un gazz…-
Veo rincarava la dose, accusando lo stesso Blaco di essere ritardato. Quest’ultimo si rifugiava in un silenzio furioso, in cui il Blaco bonaccione cercava di calmare il Blaco paranoide e permaloso. Un po’ come l’Orlando Furioso e l’Orlando Innamorato.
Io sorridevo silenzioso, vigliaccamente, sotto il mio cappello a tesa larga (che Favie mi invidia).
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