Show must go on (episodio 5 di ‘L’Incidente’)

Quando andai a dormire, mi parve che la luce del sole si fosse fatta più obliqua.

Le ombre si allungavano dietro cose e persone, come se la stagione stesse cambiando, o si avvicinasse il tramonto.

Quando arrivai in pista, appena alzato, vidi Ariel e il direttore Adelaidi che parlavano fitto tra loro, le teste vicine come due cospiratori.

“C’è poco da fare… Il tramonto cambia tutto, lo sai…”

“Ma forse si potrebbe tentare con qualcos’altro, non so, qualcosa che abbiamo trascurato…”

“Sai benissimo che abbiamo tentato di tutto.”

Sembrava che avessero le risposte che cercavo. Sarebbe bastato fare un passo avanti, interrogarli onestamente. Invece, non so perché, entrai nell’arena tossendo. Loro sussultarono per la sorpresa, poi Ariel scoppiò a ridere, e il direttore mi salutò gentilmente.

“Buongiorno, buongiorno! Dormito bene, giovanotto? Sì? Bravo, bravo! Ora hai bisogno di una colazione leggera, e poi tutti per aria, giusto?”

Poi se ne andò per i suoi affari.

“Vieni, Gringo, muoio di fame! Facciamo colazione insieme?”

Alla mensa, giravano strane voci. Zazà si era rifiutato di mangiare, quella mattina.

Il domatore di leoni, un omone grande come un armadio, ne parlava con gli occhi lucidi.

“Chissà cosa gli prende, proprio non capisco…”

Ma il buon uomo non aveva mai capito davvero il carattere giocoso e bizzarro di quel suo leone, così decisi che avrei dato un’occhiata io, per vedere com’era davvero la situazione.

Magari Zazà lo stava solo prendendo in giro, faceva la scena per avere del cibo diverso, più stuzzicante. Una volta Buster mi aveva raccontato che Zazà aveva ruggito per due giorni di fila, finché non gli avevano preparato per cena uno stufato di coniglio. E la cosa buffa era che Zazà non aveva mai assaggiato lo stufato di coniglio prima!

“Come diavolo faceva, secondo te, a sapere che voleva proprio quel sapore, se non lo conosceva?” aveva concluso Buster, tenendosi la pancia dal ridere.

Era un grosso mostro viziato, Zazà.

Sì, sarei passato io a dare un’occhiata.

Quando entrai nella gabbia, non si alzò per venirmi incontro, come faceva sempre.

Aveva un aspetto più mansueto del solito.

Gli arruffai con affetto la potente criniera.

“Ciao, ragazzone. Che ti succede? Dicono che stamattina non hai mangiato niente. Ti sei abbuffato di gazzelle, stanotte?”

Zazà scrollò appena la testa, come se volesse allontanare la mia mano. Non era mai accaduto. Cominciai a preoccuparmi sul serio.

“Andiamo, Zazà. Devi mangiare qualcosa, brutto bestione! Che vuoi che se ne facciano, qui, di un leone morto di fame?”

Gli avvicinai al muso l’enorme ciotola piena di cibo. Lui girò la testa di lato. Provai ad insistere, ma lui mi avvisò, con un basso suono della gola, che non era il caso.

Il veterinario passò nel primo pomeriggio.

Ero sulle fumi ad allenarmi per lo spettacolo della sera, il primo senza Buster. Roteavo attaccato al trapezio, non perché davvero avessi bisogno di fare esercizio, ma perché l’altezza mi teneva la testa sgombra e pulita, mi impediva di concentrarmi su ciò che stava accadendo.

Da qualche parte, dentro, sapevo che stava succedendo qualcosa che nessuno mi diceva. L’avvicinarsi della notte, strano almeno quanto lo era stato la sua assenza per giorni, per mesi; e poi, la scomparsa di Buster.

Non avrebbe mai lasciato il circo. Buster era come me, era nato per tutto questo.

E ora, l’improvvisa malattia di Zazà, che sembrava intimamente connessa al crepuscolo che stavamo vivendo.

E le facce, le facce degli altri artisti, tutto intorno. So che sembra assurdo e paranoico, ma la mia impressione era che mi guardassero come se fosse mia, la colpa.

Dall’alto, potevo assistere alla visita. Zazà si era steso in un angolo della gabbia, e non si era più alzato dal mattino.

Era sempre stato così mansueto che eravamo soliti lasciarlo uscire a passeggiare in giro per il tendone, mentre svolgevamo le nostre mansioni. A volte, aveva inseguito Buster e me per gioco, come un grosso terranova, riportato bastoni, si era rotolato nella sporcizia che aveva appena finito di ammassare in un angolo, solo per il gusto di vedermi ricominciare da capo. Era evidente che faceva tutto questo per un suo gusto personale.

Ora aveva l’espressione di uno che sente che i giorni delle scorribande sono finiti.

In quel momento, il direttore Adelaidi mi fece un cenno perché li raggiungessi.

Mi affrettai giù per la scaletta di corda.

“Dottore, questo è Buster. Si occupa di Zazà da qualche tempo.”

Il dottore, un ragazzo giovane, con gli occhiali nella montatura dorata, mi tese una mano mingherlina, che strinsi per un istante, con la sensazione di averla infilata dentro una medusa. Ma mi aveva un po’ sorpreso, l’errore del direttore, e mi affrettai a correggerlo.

“Sono Gringo, direttore, non Buster.”

Lui scosse una mano, come per scacciare il pensiero.

“È lo stesso.”

Stavo per dire che non lo era affatto, non per me, almeno; ma il veterinario richiamò la mia attenzione.

“Qui non c’è più niente da fare.”

Sobbalzai. “Come sarebbe? Se sta male da stamattina soltanto!”

Il giovane mi bucò con gli occhi.

“Lei è veterinario?” chiese, con indolenza.

“No, ma…”

“Mi creda, la malattia si manifesta solo ora, ma è da un po’ che questa bestia è danneggiata in modo irreversibile…”

Disse proprio così, danneggiata, come se si trattasse del motore di un’auto. Lo odiai subito, con una furia che non sapevo di poter provare.

“Beh, se è danneggiato sta a lei ripararlo” dissi, calcando provocatoriamente sulle parole.

Il giovane dottore rise, un riso gelido come la sua mano, che mi risultò ancora più odioso di tutto il resto, in lui.

“Non c’è niente da fare” concluse.

Salutò il direttore e si allontanò, sollevando un po’ di polvere con le sue scarpe lucidissime.

Il direttore mi appoggiò una mano sulla spalla, comprensivo.

“È il crepuscolo, Buster. Capisci, vero?”

Non capivo la sua ostinazione nello scambiarmi con Buster. Possibile che ne sentisse la mancanza a tal punto?

“Lascia perdere tutto il resto, per oggi. Rimani con lui.”

Accennò a Zazà, che si era allungato del tutto sulla sabbia, gli occhi semichiusi.

Mi sedetti vicino a lui, e mi presi tra le braccia quel suo testone gigantesco.

Ciao, vecchio bambino. Hai male, Zazà? Sei un bravo leone… Sai cosa capita ai bravi leoni come te, quando è ora di andare? Tornano a casa loro, nella savana. È un posto un po’ strano, specie se uno è cresciuto in una gabbia come te. Ma non ce la possiamo scegliere, la vita che ci tocca. A te è toccata la gabbia, a me una laurea… Ma non ci è andata poi così male, no? Tu hai trovato un sacco di amici, brave persone che ti lasciavano andare dove ti pareva, vero?

Vecchio bestione, alla fine hai fatto sempre di testa tua, non c’era verso di farti saltare a comando sugli sgabelli. Ti lasciavano sempre a fare il leone laterale, anche durante gli spettacoli, tanti anni e non ti è riuscito di fare carriera, ma che t’importa, la carriera è per quelli che si piegano, e tu sei stato sempre troppo zuccone per fare ciò che ti si diceva, frusta o no…

E io? Io, alla fine, mi sono persino innamorato, e chi se l’aspettava? Al primo sguardo, come nei romanzi. Lei è proprio un angelo, e rotola e corre e salta in giro per la pista, la sua faccia è una macchia colorata, i suoi capelli un cespuglio; e dato che è un angelo magari mi amerà, quando mi vedrà volare. Certo, gabbia o no, tutti abbiamo la nostra possibilità di essere felici.

Zazà? Ascoltami, non dormire ancora, non sono pronto… Parliamo di quella volta che mi hai fatto cadere con un ruggito, e così è arrivato Buster. Sai, l’ho capito, non ce l’ho con te: tu volevi che ci conoscessimo, volevi farci diventare amici, così Buster mi avrebbe insegnato come si sta bene lassù, sopra il mondo. È stata un’azione da amico. L’hai fatto anche se sapevi che avrei avuto meno tempo per te, tu sei fatto così, sei generoso, un vero amico…

Mi ascolti? Ti voglio bene, Zazà…

Mi senti?

Non avevo mai assistito alla morte di qualcuno.

Non avevo mai avuto animali domestici da accompagnare in quel momento, e quella di mia nonna per un soffio. Mi era sembrata una fortuna, fino ad ora.

Ma mi accorgevo di essermi sbagliato. Per quanto strana e dolorosa, era solo un’altra esperienza, come saltare da un trapezio all’altro a quindici metri da terra… Non mi sarei mai sognato di saperlo fare, e invece lo facevo già come se fosse naturale.

Occorre soltanto quel po’ di coraggio che permette di restare lì, con gli occhi aperti, per non perdere niente.

Sì, era stata un’altra delle mie cantonate. Avevo creduto che la morte mi avrebbe tolto per sempre la voglia di vivere.

Invece, veder morire Zazà fu un’altra cosa.

Fu un regalo, sebbene doloroso. Un privilegio.

Mi misi a piangere forte, come è giusto fare quando si perde ciò che io avevo appena perso.

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Discussioni

  1. I tuoi racconti sono come quel regalo incartato che trovi alla mattina nell’esatto posto in cui ti saresti aspettato di trovarlo, dell’esatto peso e dimensioni che ti saresti aspettato avesse quando lo hai preso e te lo sei rigirato fra le mani, e che ti fa spalancare la bocca dallo stupore, piano piano, ad ogni strappo della carta, lasciandoti poi senza le giuste parole per ringraziare chi ti guarda soddisfatto e sorridente a braccia conserte.

    1. felice di averti fatto questo regalo. mi permetto di sperare che tu non l’abbia scartato di nuovo alla macchinetta del caffè in ufficio, perchè la direzione non risponde di eventuali danni collaterali alla tua vita sociale XD buona giornata.

  2. In questo episodio ho percepito la sensazione dell’essere in famiglia. Il circo è una piccola comunità, ristretta e chiusa, probabilmente con le sue regole. Tu mi hai trasmesso il senso di unità. La morte del leone diventa liberatoria e conduce al pianto che spesso serve, che ha un suo fine. Molto brava

    1. la morte degli animali amati non risponde alle stesse regole del lutto della morte degli umani. credo sia perchè lascia meno cose in sospeso. non c’è la convinzione, che spesso domina le relazioni tra esseri umani, che conti soltanto ciò che è stato esplicitato a voce.

  3. Bello. L’ho detto che è bello? Mi piace sempre di più. Il leone, il direttore, e quelle parole scambiate di nascosto, sul crepuscolo.
    Però ora mi devo asciugare bene gli occhi, perché sono qui fuori ad aspettare mio figlio che esce da scuola e non saprei spiegargli le lacrime.

    1. lo stesso problemino che ha scatenato in altri… non so se scusarmi, perchè in realtà penso che far piangere sia come una terapia… e tuo figlio magari sarà sorpreso, ma non dispiaciuto. quando gli viene voglia di piangere saprà da chi andare 🙂