Strani fatti e strani incontri (episodio 4 di “L’Incidente”)

Qualche giorno più tardi, con il cielo di nuovo luminoso, ci affaccendavamo per preparare lo spettacolo, quando accadde un’altra cosa strana.

Cioè, fu strano per me, dato che sembrò che nessun altro se ne fosse accorto.

Mi stavo stringendo meglio i lacci delle scarpe, quando fuori sentii la sirena di un’ambulanza che lacerava l’aria, impazzita.

Corsi fuori, nel piazzale. Non era mai capitato, da che ero lì, che qualcuno stesse così male da dover ricorrere all’ospedale. I piccoli incidenti venivano risolti e curati dagli artisti stessi.

Mi guardai attorno, ma dell’ambulanza nessuna traccia.

Mi aggirai per un po’, provai a chiedere. Ma tutti mi guardavano come se avessi preso un botta in testa.

Confuso, tornai alla pista. Buster volteggiava già, così mi arrampicai per raggiungerlo, dimentico di tutto.

Più tardi, quello stesso giorno, per poco non caddi di sotto. Buster mi afferrò per un pelo, con una mano sola.

Vidi il suo volto color della cenere, quando scendemmo nell’arena. Per prendermi, aveva rischiato di precipitare insieme a me.

“Che cavolo fai!!”

“Mi dispiace tanto, Buster! Mi sono distratto…”

“Distratto??!”

Era sbalordito, fuori di sé. Lo capivo. Come si fa a distrarsi a quindici metri di altezza, quando dalla tua concentrazione dipendono la tua vita e quella del tuo compagno?

Non tentai di spiegarmi, non avrei potuto. Gli promisi che non sarebbe successo più, ma lui era così furioso che mi disse di lasciar perdere.

“Prenditi un po’ di riposo, per oggi. È meglio.”

Mi rifugiai nella gabbia di Zazà.

Il bestione, tranquillo, mi osservò sedermi a qualche metro da lui, mi venne accanto e mi posò il testone su un ginocchio, come se volesse consolarmi.

Non riuscivo a capire. Mentre staccavo le mani dal trapezio, avevo sentito distintamente delle voci, proprio vicino al mio orecchio. Sussurravano, parlavano con me, e in quel momento avevo capito benissimo cosa dicevano. Ma subito dopo, quando Buster mi aveva afferrato, non ricordavo più le loro parole.

“Magari sto diventando pazzo” dissi, accarezzando le orecchie di Zazà.

Il leone ronfò di piacere.

A cena, Buster non c’era.

Pensai fosse meglio così, non sapevo se avrei retto il suo sguardo accusatore senza cercare di giustificarmi; ma se avessi raccontato tutto, probabilmente non mi avrebbe voluto più, in aria con lui. Come dargli torto?

Non potevo pensare di tornare alla mia vita di prima. Non ora, che avevo finalmente compreso cosa sapevo fare.

Perciò tirai un sospiro di sollievo quando non lo vidi a tavola, né più tardi, mentre fumavo la solita sigaretta seduto fuori, sui copertoni.

Con riconoscenza, pensai che mi lasciava il tempo di assorbire il colpo. Mi convinsi di poter essere sincero con lui, senza conseguenze. Uno come Buster avrebbe capito.

Andai a dormire tranquillo, dicendo a me stesso che il giorno dopo gli avrei raccontato tutto.

Il giorno seguente, di nuovo Buster non era alla mensa. Non lo vidi nel piazzale, e nemmeno nell’arena.

Andai dal direttore Adelaidi.

“Signore, Buster non c’è.”

Impiegò qualche secondo a capire di cosa stessi parlando, poi la sua reazione fu esplosiva e del tutto inattesa.

“PEDRO!!! ARIEL!!!! PRESTO, TUTTI NELL’ARENA!!!”

Urlava così forte che scatenò il panico in meno di un minuto. Tutti correvano verso il tendone centrale, scontrandosi e urlando, come se il mondo stesse per cadere nel vuoto.

Quando fummo tutti sulle gradinate mi sentii strano, e mi resi conto, che sedevo per la prima volta nel posto che di solito occupavano gli spettatori.

Non mi ero reso conto, fino a quel momento, di quanto mi fossi ormai abituato a far parte della scena.

Il direttore Adelaidi sembrava piccolo, lì da solo, al centro della pista. Mi fece una gran pena, vederlo torcersi le mani, mettere e togliere di continuo il cappello, strattonarsi la giacca nera, in preda all’ansia.

Mi guardai attorno, per vedere se Buster fosse lì anche lui, richiamato magari dalla confusione, come tutti noi. Ma lui non c’era.

“Amici, Buster se n’è andato” disse il direttore.

Molti gridarono, e qualcuno scoppiò persino in lacrime. Io mi sentivo malissimo. Ariel, seduta accanto a me, mi strinse forte una mano, ed io ricambiai la stretta, ad occhi bassi.

Quando le manifestazioni di stupore e di dolore si furono calmate, il direttore allargò le braccia, come per segnalare che non si poteva fare nulla.

“È una tragedia, una terribile tragedia. Buster volerà sempre nei nostri cuori.”

“I nostri cuori non stanno abbastanza in alto, per lui!” gridò una voce dalla folla. In tanti risero, ci furono degli applausi sparsi.

“Tuttavia” proseguì il direttore, con le lacrime agli occhi “lo spettacolo deve andare avanti. Chi vuol prendere il suo posto?”

Ci fu un mormorio diffuso. Il circo non aveva a disposizione altri trapezisti. Non c’ero che io.

Mi alzai in piedi.

“Lo faccio io. Conosco gli esercizi, ho lavorato con Buster. Datemi solo un altro paio di giorni per essere all’altezza.”

Qualcuno rise, come se avessi voluto fare un gioco di parole. Ma in generale non si sentiva volare una mosca. Mi guardavano tutti.

Ormai c’ero abituato. Gli sguardi mi scivolarono addosso e tornarono là da dove erano venuti.

“Molto bene” disse il direttore Adelaidi.

Abbassai lo sguardo per cercare Ariel, ma lei se n’era andata.

Prima dello spettacolo, di solito la gente si radunava fuori dal tendone. Aspettavano lì, finché Pedro non apriva e li faceva accomodare all’interno, sulle gradinate, con sberleffi e inchini, compatibilmente con i dolori della sua artrite.

Fu stabilito di lasciarmi un paio di giorni, come avevo chiesto, per esercitarmi. Nel frattempo, il numero al trapezio sarebbe stato sostituito da un paio di novità, che facevano parte del nuovo repertorio in prova.

Non andai a vedere lo spettacolo. Non mi era piaciuta la sensazione che avevo provato sulle gradinate. Non ero più capace di stare a guardare e basta.

All’interno, li sentivo ridere ed entusiasmarsi, mentre, seduto sui copertoni, fumavo una sigaretta dopo l’altra, e pensavo a Buster.

Dov’era? Cosa stava facendo? Possibile che fosse colpa mia, che si fosse spaventato così tanto?

Mentre me ne stavo lì, vidi una donna attraversare il piazzale, diretta verso il tendone.

“Lo spettacolo è già cominciato!” gridai.

Si accorse di me e deviò per venirmi incontro. Era una donna non più giovane, ma ancora bella. Indossava un tailleur grigio perla, aveva i capelli tinti di biondo, corti, e gli occhiali.

Mi ricordava qualcuno, ma non sapevo chi.

“Mi scusi, noi ci conosciamo?” le chiesi, sperando di non sembrare invadente, uno di quegli orrendi personaggi che usano questa scusa per attaccare bottone con donne affascinanti.

Sembrava confusa di trovarsi lì. Come se si fosse aspettata tutt’altro, e ora si sentisse sbagliata, fuori luogo.

Tuttavia mi sorrise subito, gentilmente.

“Non mi pare, no” rispose. “Posso chiederle una sigaretta?”

Gliene arrotolai subito una e gliel’accesi. Mi pareva tutto molto familiare, anche il modo in cui diede un primo tiro nervoso, per poi lasciarla consumare per qualche secondo tra le dita.

“Sta cercando qualcuno?” le domandai, con gentilezza. Non so perché, ma mi pareva impossibile che fosse venuta per lo spettacolo.

“Mio figlio” rispose, brevemente. “Mi hanno detto che lavora qui.”

“Davvero? E come si chiama?”

Agitò una mano, come se quello fosse un dettaglio di scarsa importanza.

“Lei di cosa si occupa?”

Gonfiai il petto, con orgoglio, sentendomi più alto. “Sono un trapezista.”

I suoi occhi s’incupirono per un istante, mentre mi osservava. “Sembra rischioso” mormorò.

“È molto bello” risposi, semplicemente.

Aspirò profondamente il fumo della sigaretta, senza staccarmi gli occhi di dosso. Ebbi la sensazione che volesse dire dell’altro, ma non lo fece. Fumò la sua sigaretta fino alla fine, in silenzio.

Poi la spense a terra, e raccolse il mozzicone.

“Potrebbe indicarmi un cestino, per favore?”

Allungai la mano e presi il mozzicone. “Ci penso io.”

Sorrise di nuovo. “È molto gentile.”

Si girò come per andarsene, poi parve ripensarci.

“Lei è molto felice qui, vero?” chiese.

Aveva l’espressione ansiosa di una persona che si chiede come si possa essere felici in un posto del genere, con una vita del genere… Ma che spera ardentemente in un sì.

“Moltissimo. Credo di non essere mai stato tanto felice in vita mia, signora.”

Annuì, sollevata.

“Un’ultima cosa. Potrebbe dare a mio figlio una cosa da parte mia?”

“Certamente” risposi, e allungai la mano, aspettando che mi desse una lettera, o un pacchetto.

Ma lei l’afferrò, attirandomi a sé, e mi strinse forte tra le braccia.

Mille cose mi vennero in mente, mille cose inspiegabili.

Sapori, profumi e pensieri, canzoni, un cavallo di nome Astolfo… E storie, storie, storie fino a riempire il buio di voce e di bellezza, e la paura che andava via, andava lontano, come se Zazà le avesse ruggito addosso; e poi di nuovo riposo e sabbia, e una conchiglia su cui appoggiavo l’orecchio, per sentire il mare che non c’era…

Mi ritrovai seduto sui copertoni. La testa mi girava e la donna era scomparsa.

Io non avevo idea di chi fosse, suo figlio.

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Discussioni

    1. beh, tesoro it depends: dalla vita che fai, credo 🙂 ma sì, le migliori dovrebbero essere del genere ‘se guardi giù ti sfracelli’… opinione personale, eh.

  1. Un colpo basso inaccettabile quello di fare commuovere un uomo nel bel mezzo della sua pausa caffè, quanto tutt’intorno ci sono solo colleghi maschi alfa che grugniscono, parlano di moto e di figa mentre escono dal turno pomeridiano. Un vero colpo basso.

    1. ne sono dispiaciutissima. o forse no. non quanto vorrei, almeno… cioè, in linea di massima la situazione da te descritta mi diverte abbastanza XD XD divisa tra empatia e “nananànaaa”, insomma XD XD

  2. “Il bestione, tranquillo, mi osservò sedermi a qualche metro da lui, mi venne accanto e mi posò il testone su un ginocchio, come se volesse consolarmi.”
    Che momento meraviglioso sto vivendo