Vecchie e nuove ricette 

Non era capace neanche di preparare una torta. Eppure, aveva seguito passo per passo la ricetta, non aveva tolto nessun ingrediente, né cambiato le dosi, si era presa quasi tutto il pomeriggio per fare un buon lavoro. Cosa fosse andato storto non lo sapeva, ma la torta, così come era venuta, non si poteva mangiare. Il senso di delusione uscì in un sospiro tremolante, quasi un singhiozzo. Era solo una stupida torta, suo marito si sarebbe messo a ridere davanti alla sua espressione desolata, avrebbe chiuso la faccenda ricordandole quanto fosse negata ai fornelli. 

“Se avevi voglia di dolce, ti bastava scendere in pasticceria. Anche se è meglio che lasci stare gli zuccheri, sei lievitata un po’ troppo ultimamente.” Le avrebbe propinato una frase simile, subito dopo un bacio a fior di labbra, per poi eclissarsi in bagno e rimanerci fino all’ora di cena. 

Il punto non era la torta. Era la lunga lista di fallimenti che aveva alle spalle, a far venire voglia di piangere a Cristina. Fin da piccola non ne combinava una giusta. Era stata una bambina sgraziata, che cadeva in continuazione e si sporcava mangiando il gelato. Entrando nei negozi, sua madre le intimava di muoversi il meno possibile e, se poteva, la lasciava addirittura fuori. Crescendo, non era migliorata granché. Nell’ora di educazione fisica nessuno la voleva in squadra per giocare a pallavolo e, anche nelle altre materie, c’era sempre un pretesto per prenderla in giro. Cristina era mediocre quasi in tutto, era negata con i ragazzi e aveva un pessimo gusto nei vestiti. Diventava rossa di nulla, bastava una risatina o un commento caustico degli insegnanti per riempirle gli occhi di lacrime. Dopo le superiori, i suoi genitori erano stati chiari. Si era diplomata con un anno di ritardo e con un voto a malapena accettabile; non era fatta per l’università e loro non avevano soldi da buttare. Così, aveva iniziato a lavorare nella stessa fabbrica di suo padre, un impiego monotono e stancante, con colleghe ben poco inclini a coltivare rapporti umani. La sua professoressa di lettere le aveva suggerito di continuare a scrivere, con le poesie ci sapeva fare, doveva provare dei concorsi. Cristina ne aveva tentati diversi, entusiasta e speranzosa.Doveva essere quella la sua strada. In tanta mediocrità, c’era un po’ di luce in lei, un fiore delicato che meritava di essere coltivato. A parte qualche tiepido apprezzamento, Cristina si era sentita dire di lasciare perdere, di scrivere solo per se stessa, perché solo chi ha veramente talento può pensare di emergere.

“Devi volare basso, saperti accontentare. Non sei fatta per il successo, figlia mia.” 

Anche davanti a una proposta di matrimonio che non sapeva accettare, sua madre le aveva fatto un discorso simile. 

“Non hai molto da offrire a un uomo, te ne devi rendere conto. Eugenio è un pezzo di pane, uno che lavora e ha una casa. Mi pare anche che ti voglia bene.” Quello era un di più, un dettaglio che rendeva più allettante il piatto, ma non era fondamentale. L’amore, si sa, dopo un po’ sfiorisce, non è quello che fa rimanere insieme una vita. Se sua madre le diceva questo, doveva essere la verità. Infondo, non desiderava altro che il suo bene. Doveva volare basso. Così, aveva risposto sì alla proposta di Eugenio. 

Il giorno del matrimonio, nonostante fosse maggio, pioveva e tirava vento. 

“Speriamo non sia un brutto segno” aveva commentato zia Fiorella, incurante di essere sentita dalla nipote. Cristina le aveva rivolto un sorriso timido, quasi a volerla rassicurare. Sarebbero stati felici, erano pieni di buone intenzioni e l’arrivo dei figli avrebbe completato il delizioso quadretto, conquistando il suo posto nel mondo nei panni di moglie e madre. Sarebbe stata brava e, di conseguenza, appagata e serena. Non c’era motivo di dubitare.

Solo che i figli si erano fatti attendere. All’inizio, era normale, le dicevano, non c’era neanche motivo di avere fretta. Non era contenta della sua vita da sposina? Eugenio era premuroso e paziente, perdonava i suoi piatti insipidi, le frittate bruciate, i bicchieri e le tazzine rotte, la caffettiera messa sul fuoco senza acqua. Cristina era sbadata e pasticciona, ma con un po’ di esperienza sarebbe diventata un’ottima casalinga. 

“Hai proprio trovato un santo! Un altro si sarebbe già stufato di tutti i tuoi sbagli. Almeno se rimanessi incinta!” Le parole di sua madre le risuonavano in testa la notte quando non riusciva a dormire, mentre fissava il buio e ascoltava il respiro pesante del marito. 

Dopo una lunga serie di esami e una certa quantità di lacrime, si era scoperto che i figli non sarebbero arrivati. I medici avevano dichiarato che il problema fosse Eugenio, ma Cristina si era presa la colpa di un altro fallimento,un altro traguardo non raggiunto. Da qualche parte, doveva esserci anche la sua responsabilità in quel rapporto senza bambini. 

” E se decidesse di lasciarmi?” Cristina aveva ricevuto lo sguardo basito di Flavia, la sua più cara amica, testimone di nozze e unica confidente. 

“Perché dovrebbe? E lui a essere sterile. E poi, una coppia può essere felice anche senza figli.” 

“Ma noi avevamo immaginato una vita diversa. Io sognavo di diventare madre.” Gli occhi si erano abbassati per nascondere le lacrime e Cristina aveva sentito di scivolare un po’ più in basso. Il mondo correva intorno a lei, ognuno conquistava il suo pezzo di felicità e rideva dei suoi insuccessi, scrollava il capo deluso. Sua madre la biasimava. Cristina non era in grado di darle dei nipoti, oltre a non aver concluso granché nella vita; era così diversa dalle figlie delle sue sorelle e delle amiche. Non era neppure bella, di sicuro non aveva ereditato i capelli fluenti e il vitino di vespa che possedeva lei da giovane. Mangiava troppi dolci, aveva una risata simile al verso di un maiale e non sapeva sostenere una conversazione degna di questo nome. E poi, nonostante avesse un marito d’oro, aveva spesso un’aria malinconica e spaesata, come se fosse costantemente nel posto sbagliato. 

Cristina guardò la torta e sentì qualcosa di simile alla rabbia salirle dentro, una sorta di ringhio unito alla voglia di far volare quello schifo di dolce contro un muro. Per una volta, ascoltò il suo istinto. Subito dopo, si lasciò scivolare verso il pavimento, accompagnata da singhiozzi violenti. Era infelice. Ne stava prendendo atto all’improvviso, dopo aver sbagliato la preparazione di una torta alla ricotta. Guardando quello che restava del suo dolce, una patacca informe che dal muro scendeva verso il pavimento, pensava di essere esattamente uguale. Aveva seguito passo per passo le ricette degli altri, cercando di non sgarrare, di seguire i tempi, di mettere da parte la propria creatività e quello era il risultato. Una torta da buttare e una vita stretta e scomoda come i jeans taglia 42 che si ostinava a tenere nell’armadio, ma non riusciva a indossare. 

Suo marito la trovò così, il viso congestionato dal pianto e la cucina disastrata. Stranamente, non ci fu bisogno di parole. La prese per mano e la accompagno al divano. Lei lo guardò con gli occhi vuoti, mormorando un: “Mi dispiace Eugenio, io non ce la faccio più”. Lui annuì, non le chiese spiegazioni, si limitò ad abbracciarla. 

La torta ormai era irrecuperabile, nessuno dei due poteva farci qualcosa, ma di ricette ne esistevano a migliaia. Forse, lavorando insieme con un po’ di fantasia, anche con gli ingredienti a disposizione avrebbero potuto realizzare qualcosa di speciale. 

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Discussioni

  1. Melania, ci prendi per mano e in punta di piedi ci conduci nella mente di chi si sente inadeguato con una narrazione pulita e coinvolgente.
    Riesci a far trapelare le emozioni della protagonista….possiamo riuscire a identificarci con lei, specialmente quando pensiamo di non poter fare qualcosa o di essere tenuti a farlo perché semplicemente dobbiamo e non possiamo evitarlo…..viviamo con lei la profonda condizione di disagio esistenziale che vive durante tutto l’arco della sua vita….quanto da bambina si senta diversa dagli altri….
    La concezione che ha di sé stessa è disarmante nel momento in cui cerca di trovare la strada….il senso di estraneità che la fa sentire ancora più sola….
    Sei stata capace di raggiungere la sensibilità più profonda, portandoci a riflettere e a riesaminare i passi che a volte si è deciso di percorrere nel tentativo di cercare una conferma, nella speranza di non essere avvolti dall’apatia nei confronti della vita e, soprattutto, verso noi stessi…….

  2. Ciao Melania! Hai scelto un titolo molto bello e una metafora potentissima per rappresentare la difficoltà umana (chi più, chi meno) nel riuscire a dare una forma unica e dignitosa a quella che è la “propria esistenza”, con gli ingredienti che il caso/ Dio/ la Natura elargisce impietosamente a ciascuno di noi. È un racconto che avrei tanto voluto scrivere io! Bravissima👏🏻